Il relitto del piroscafo Laura
C
Saline Joniche, in provincia di Reggio Calabria. Siamo al confine meridionale
dello Stretto di Messina, uno dei luoghi più intriganti per i subacquei amanti
del Mediterraneo. E’ qui che è affondata la Laura C verso la fine del secondo
conflitto mondiale ed è qui che è nata una delle tante storie di mare, una
storia a tratti triste ma ricca di colpi di scena. Non credo che dimenticherò
mai la prima volta che mi immersi sulla Laura C.
Era il 1987 e il relitto del
piroscafo giaceva su quei fondali già da oltre quarant’anni. L’andamento
scosceso del fondale in quel tratto dello Ionio porta ad alte batimetrie a pochi
passi da riva, tanto che in questi luoghi è facile raggiungere i – 50 metri di
profondità partendo, per l’immersione, comodamente da terra. Fu così che, in
base a precise descrizioni di un caro amico, mi immersi sicuro di reperire la
grande sagoma della nave affondata.
La prima volta che vidi il
relitto della Laura C rimasi impressionato dalla scena che mi si presentò
davanti: l’acqua limpidissima mi consentì di scorgere da lontano le strutture
della sala macchine, le prime che si incontrano scendendo e, man mano che mi
avvicinai, cominciai a scorgere le sagome inconfondibili di grandi cernie, che
con l’accorciarsi delle distanze sfilavano una ad una, scivolando e scomparendo
tra le lamiere.
Corrimano
coperti da spugne e grandi spirografi, alghe e briozoi, anellidi e madrepore, e
un brulicare di invertebrati, dividevano lo spazio a disposizione sul metallo;
pesci come sciarrani, perchie e nuvole di anthias completavano infine la
coreografia, rendendo allegra quella che solitamente, su un relitto, è
un’atmosfera piuttosto lugubre.
Passata la prima parte del
relitto mi avvicinai verso le stive di poppa, dove vidi subito il grande pennone
stagliarsi imponente verso la superficie; in cima ad esso una famiglia di grossi
dotti circumnavigava la zona: quel carosello di pesci entrò nella mia memoria in
modo indelebile tanto che ancora adesso, ogni volta che alzo la testa verso la
cima del pennone, scruto con la speranza di rivedere un giorno la stessa scena.
Queste cernie, abituate a stare in acqua libera, sono note come cernie rosse o
dotti (Mycteroperca rubra) e spesso sono intente a cacciare altri pesci
con la tecnica dell’agguato; le loro prede vivono abitualmente ai piedi di
imponenti pareti rocciose, in cima alle secche o, come in questo caso, in
prossimità di un relitto, che funge quale polo d’attrazione per una moltitudine
di specie viventi.
Da quel giorno iniziai a
frequentare il relitto con una certa regolarità e ogni volta gli incontri erano
diversi e sempre stimolanti. Col tempo le cose però cominciarono a cambiare.
Il relitto della Laura C
rappresentava e in parte rappresenta un vero e proprio ambiente a se stante, per
intenderci, un’oasi di vita, isolata su un fondale sabbioso o fangoso, ideale
per lo studio e la conoscenza del mondo sommerso.
Molte
opportunità vengono qui offerte alla fauna marina, con netta prevalenza di pesci
rispetto agli inveretebrati; questi ultimi, presenti con poche specie, sono
comunque ben rappresentati, ma non altrettanto evidenti; nel caso dei poriferi,
per esempio, la discreta presenza si manifesta attraverso splendidi cuscini
neri, che si sollevano in modo evidente dalle strutture dove aderiscono con la
porzione basale.
Nel caso di piccoli polipi di madrepore, bisogna osservare molto da vicino per
carpirne i segreti; anni addietro, a metà altezza del pennone di poppa, per un
lungo periodo ho seguito l’evoluzione di una madrepora bianca meravigliosa, che
cresceva anno dopo anno sul ferro; i suoi grandi polipi bianchi erano bellissimi
e non mi stancavo mai di fotografare le sue delicate forme.
Ricordo ancora anellidi, quali enormi spirografi e altri piccoli policheti, col
ciuffo branchiale pronto a ritrarsi alla minima vibrazione. Ma tra gli
invertebrati che meglio risaltano ci sono senza dubbio gli sciami di gamberi
rossi (Plesionika narval), inquilini stabili delle parti più buie, che
rappresentano degnamente il phylum dei crostacei tra le strutture di questo
complesso sistema perfettamente in equilibrio.
I gamberetti possono trovarsi in parte all’interno della sala macchine e in
parte all’ombra delle grandi stive, tra fiaschi di vino e bottigliette di
campari che ancora giacciono semisepolte nel sedimento fangoso.
Oggi
che le grandi stive sono state parzialmente riempite di cemento durante inutili
operazioni di bonifica, lo spettacolo dei gamberi si è ridotto e i piccoli
crostacei si son trasferiti in altri ambienti del relitto.
Della madrepora bianca non trovai più traccia dopo la riapertura delle
immersioni in seguito alla bonifica; come poteva essere scomparsa di colpo?
Pensai subito a un prelievo del “cuscino di polipi” da parte di qualche
operatore subacqueo senza scrupoli…
Mi sono immerso talmente tante volte su questo
relitto da voler poi realizzare un disegno, una riproduzione su foglio 70x100
del relitto così come si trovava sul fondo all’inizio degli anni novanta, quando
ancora i lavori per la bonifica, partiti dalla segnalazione del tritolo nelle
stive, non avevano deturpato parte della bellezza e della valenza ambientale di
questo importante sito sommerso del litorale ionico calabrese.
Ore di immersione, misurazioni
e rilievi mi consentirono di riprodurre su carta il relitto nella sua posizione
sul fondo, disegnandolo in modo piuttosto attendibile.
Intervistai anche Don Ferdinando Todaro, palombaro che aveva lavorato sulla nave
nei primi anni seguenti l’affondamento, e scoprii alcune cose di notevole
interesse storico.
Il mio disegno sarebbe poi
diventato un punto di riferimento, tanto da comparire in una puntata di Linea
Blu e poi su vari quotidiani in occasione di quella che segnò la storia di
questo povero relitto: la vicenda del tritolo.
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Era il 1996 e qualcuno, non
avendo nulla di meglio da fare, tirò fuori la notizia bomba: le stive della
Laura C contenevano tritolo ancora in buone condizioni. Da questo a dire che la
nave veniva utilizzata per il recupero del tritolo ad opera della mafia fu un
tutt’uno; si disse pure che il tritolo era stato usato per la strage di Capaci
in Sicilia. Ricordo sempre l’ultima immersione fatta sul relitto prima del
fattaccio.
Avevo visto grandi cose, tra
cui non dimentico quello che fu il grongo più grande mai incontrato sott’acqua
fino ad oggi. Poi arrivarono i divieti, che durarono a lungo. All’inizio la
spiaggia era piantonata, poi si lasciò solo il divieto di balneazione,
immersione e navigazione; dopo qualche anno qualcuno azzardò l’immersione,
curioso quanto mai di vedere cosa stava accadendo là sotto. Poi fu la volta dei
lavori di bonifica: una bella colata di cemento per riempire le stive. Giorni e
giorni di lavoro, tanti bei soldoni, con il risultato che oggi è sotto gli occhi
di tutti quelli che si immergono: il relitto, fortunatamente rimasto intatto,
presenta le stive piene di cemento.
Finalmente nessuno può più andare a fare la spesa di tritolo, fino ad allora
comodamente recuperabile a circa 50 metri di profondità (ma quando mai…)!
Oggi rimangono in vista tutti
i pezzi di tubi e massetti, morsetti e fasce di metallo, abbandonati sul fondo
in seguito ai lavori.
Ma non si notano più di tanto e stanno per essere integrati nel contesto ad
opera di Madre Natura.
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Ma come si presenta la Laura C
oggi, dopo quasi sessanta lunghi anni e soprattutto dopo le ultime
vicissitudini, agli occhi di coloro che vi si immergono per la prima volta?
Scopriamolo insieme immaginando di partire da terra per affrontare l’immersione
tipo.
L’ingresso in acqua dalla
spiaggia prevede una lunga pinnegiata in superficie, visto che quella che un
tempo era la spiaggia è oggi un fondale sabbioso, causa la lenta e inesorabile
erosione costiera provocata dalle vicine strutture di un porto realizzato senza
i criteri adeguati.
Quindi cento metri a galla e poi giù, seguendo il pendio del fondale, che ci
porta immediatamente, con i giusti riferimenti a terra, sul primo pennone che
esce dalla sabbia, indicandoci la presenza della nave oggi completamente sepolta
nel sedimento nella sua parte prodiera.
Lasciato il pennone di prua proseguiamo verso la parte di relitto ancora
visibile, oggetto della nostra immersione, che inizia a circa 26 metri di
profondità.
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La nave è rivolta con la prua
verso terra, perpendicolare al profilo costiero, e il fondale raggiunge quote
impegnative in modo piuttosto celere, e quindi si arriva sulla poppa con già 50
metri di profondità.
Questo ci porta a dover programmare bene il percorso subacqueo e non affrontare
strane immersioni multilivello con profondità gradualmente crescenti e risalita
tutta d’un fiato (errore classico in questi casi).
Conviene spingersi subito alla massima profondità stabilita e poi procedere con
la perlustrazione del relitto attraverso un lento itinerario in ascesa. A
differenza d’un tempo, non è più possibile visitare le stive di poppa, ma solo
quel che resta di esse, ormai cementate.
Tuttavia è ancora probabile l’incontro con grosse e scaltre cernie brune, enormi
trigoni sul fango del fondale circostante e nuvole di boghe, castagnole, anthias
e pagelli.
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Il relitto è ancora bello e ci
si potrebbe divertire e fare qualche tuffo tra natura e storia, ma la triste
vicenda che lo accompagna non finisce qui: qualcuno, poco tempo fa, si è immerso
vicino al relitto cercando di stabilire dei record di profondità con l’aria,
lasciandoci la penne.
Il nuovo infelice episodio ha portato all’emissione di una nuova ordinanza con
ennesimo divieto di immersione, divieto appoggiato, pensate a un po’, al fatto
che sul relitto lenze e reti imbrogliate potessero rappresentare un ostacolo
alle immersioni.
Ma voi lo conoscete un relitto senza lembi di rete o lenze
imbrogliati alle strutture?
Tutto ciò ha significato
comunque l’ulteriore ennesima chiusura del luogo ai subacquei, soprattutto a
tutti quei sub rispettosi del mare che avrebbero voluto continuare, ogni tanto,
a tornare su quei fondali!
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