La sirenetta e
Colapesce
E... finalmente in quella città, che aveva il privilegio di essere bagnata da ben due mari, giunse a
governare una bella sindachessa, che amava tutto quanto era bello, amava le
cose belle in virtù di essere Donna e in virtù del fatto che si chiamasse
La
Bella.
Lei cambiava spesso look,
cambiava pettinatura, cambiava spesso il modo di truccarsi, il modo di
agghindarsi, cambiava ogni mese il colore dei capelli, cambiava la
montatura dei suoi occhiali da sole, se avesse potuto avrebbe cambiato anche
la sua identità anagrafica, solo che, quella, non avrebbe mai potuto
cambiarsela. Ahimè!
La bella sindachessa un giorno
cambiò gli arredi cittadini, dando nuovo look alla sua antichissima città,
cambiò alcune facciate di antichi palazzi, cambiò proprietà ad alcune
proprietà della città, tolse le vecchie fioriere e ne fece installare di
nuove, e decise un bel dì di decorare la zona della
marina, fatiscente e decrepita fino ad allora, con
delle belle sirenette di pietra, che commissionò ad un rinomato scultore, nativo della città. Il posizionamento delle
tre sirenette avvenne in pompa magna.
Furono invitate tutte le emittenti locali, tutte le testate
giornalistiche, tutti gli artisti locali, tutte le scuole, tutti i centri
culturali. E tutti, tutti accorsero ad ammirare le sirenette di pietra…..
La sirenetta della quale
desideriamo seguire le vicende fu posizionata lungo una riva a pochi metri
dalla strada e tutti gli automobilisti di passaggio potevano ammirarla, ma
solo con un rapido sguardo, perché la strada in quel preciso punto si
trasformava in una curva, pertanto non era possibile
potersi soffermare a lungo su quella affascinante creatura di pietra,
la quale aveva le fattezze di una adolescente nel pieno fulgore dei
suoi anni.
La sirenetta intanto era costretta in una posizione che la
costringeva in una fissità e ad un immobilismo che erano destinati a sfidare
i secoli. L’artista l’aveva scolpita ripiegata sulle ginocchia,
con le mani poggiate sullo scoglio e lo sguardo rivolto sulla
superficie del mare.
Ella ignorava il punto
topografico sul quale erano state fissate le sue sorelle sirene e percepiva
una solitudine infinita, essendo stata separata da
esse. Ricordava i lieti giorni della loro creazione,
quando da massa informe e inanimata presero forma tra il loro stesso
stupore. Lei lo ricordava bene.
Fu un giorno di un torrido agosto, quando cominciò a vivere. Quale
emozione quando sentì le mani di un uomo sulla massa informe della sua
materia.
Ne percepì il calore corporeo, che era senza
dubbio diverso da quello del sole leonino che tutto rendeva incandescente in
quella stagione dell’anno….
Fu in quel preciso momento che l’uomo le infuse quella capacità, che
è solo prerogativa degli esseri umani, di percepire sentimenti. Si
relazionava, nei riguardi dell’artista, come ci si può relazionare con il
proprio creatore. Si sentiva nascere sotto le sue
mani anche se la sua nascita era condizionata ad una sofferenza indicibile.
Nasceva sotto i colpi di un martello. Si formava con l’aiuto di uno
scalpello. Sentiva tutto il dolore di una vera nascita, come quel dolore che
accompagna la nascita delle creature umane, con la sola differenza, che il dolore, in questo caso lo sentiva colei
che veniva generata e non colei che generava, come le donne quando mettono
al mondo le creature del loro amore.
Tutto questo pensava continuamente la sirenetta nella sua fissità animata.
La sua posizione la obbligava a guardare sempre il mare, sembrava voler
scorgere qualcuno o qualcosa da un momento all’altro. Come colui che attende
un visitatore desiderato, annunciato o insperato.
Guardando continuamente il mare ella poté conoscere tutta la fauna che
popolava quelle acque.
Dalle prime ore del giorno passeggiavano pesci dai vari e cangianti colori,
sembravano a sirenetta come tanti giovani umani quando passeggiavano per le
vie dei centri delle loro città. Senza nessun apparente motivo o interesse,
se non quello di adocchiare eventuali prede, per l’eterna legge che regola
il mondo, e che vale sia per gli uomini che per i pesci.Cioè
quella secondo la quale il pesce piccolo viene sempre mangiato da quello
grande.
Sirenetta aveva imparato a riconoscerne alcuni di questi luccicanti abitanti del mare. Sapeva riconoscere il pesce martello, le numerose e alate razze, le sardine, sempre in abito da sera verde smagliante. Il ridicolo pesce palombo,
Il signor pesce pizzuto, vagamente somigliante ad un impettito impiegato di banca, le signorine triglie sempre col musetto rosso,
i pesci scorfani brutti ma dal cuore buono, i cefali che amavano sguazzare nel torbido, i neri ricci pungenti e scontrosi, le timide stelle marine, il
rarissimo ippocampo, il quale non si sentiva del tutto a suo agio in quelle strane acque.
Sirenetta e
l'aereo di carta
Qualche tempo dopo sirenetta
cominciò a fare delle scoperte interessanti….
Scoprì che, alle prime luci dell’alba, grandi uccelli bianchi e ciarlieri si
levavano da chissà quali nascondigli e danzavano vorticosamente nell’aria
come se un violinista invisibile suonasse un Bolero straordinario…
danzavano, danzavano come ebbri d’aria.
Era una danza mai vista prima.
Anche lei avrebbe voluto danzare come quei
straordinari ballerini ricoperti da candidissime piume. Il colore che
ricopriva il suo aspetto di mitica creatura marina in principio somigliava
vagamente al bianco, ma ahimè, la salsedine e lo smog l’aveva ben presto
ricoperta di un sottile manto grigio-fumo.
Le piccole gocce d’acqua, essiccandosi al sole potevano anche apparire
cangianti come un tessuto laminato, ma l’azione distruttrice dei tubi di
scappamento degli innumerevoli automezzi che circolavano dalle sue parti lo
tramutavano in luttuoso abbigliamento.
E il lutto non si addiceva a
sirenetta.
A volte sirenetta sentiva come una morsa stringere il suo petto. Il suo
petto di pietra pareva fosse stato tramutato, come per incanto, in un cuore di carne. Ne percepiva tutto il peso. Si sentiva immersa
in una solitudine infinita ma non disperava. Coltivava nel più profondo del
suo essere, infatti, la speranza che un giorno
avrebbe potuto condividere le sue emozioni con un’altra creatura, marina,
aerea o terrestre non lo sapeva ancora.
Ma attendeva
fiduciosa e paziente, immersa come era in un Tempo senza Tempo.
Un giorno, mentre era avvolta in una nube di silenzio, vide un piccolo
drappello di paguri sospingere, alla maniera delle formiche terrestri, il
rottame di un piccolo aereo di carta caduto dal cielo. Era una scena in
bilico tra il grottesco e il drammatico. Sirenetta era incuriosita. Non
aveva mai visto un aereo di carta, né mai aveva visto un vero aereo. perché
nella città da lei abitata non transitavano aerei.
Finalmente il piccolo drappello di paguri si fermò e ad uno ad uno questi
piccoli operai del mare cominciarono a “smontare” in mille piccoli pezzi ciò
che rimaneva dell’aereo di carta.
Sirenetta, con lo sguardo sempre rivolto sul fondo del mare, notò che
l’aereo custodiva una storia. Ah! Se avesse potuto leggerla...
Fu in quel preciso istante che
il paguro più anziano percepì il segreto desiderio di Sirenetta , e preso a
compassione di quella singolare creatura decise di compiere la sua buona
azione quotidiana. Spedì i giovani paguri a svolgere un altro compito, molto
più in là da dove si trovavano i rottami dell’aereo di carta e prese a
raccoglierli ad uno ad uno, con indicibile pazienza, riuscendo a completare una specie di puzzle dal quale emergeva quasi
totalmente la trama di una storia d’amore.
“Vieni, voliamo” le disse l’uomo facendola accomodare sul suo piccolo
aereo di carta. Lei si lasciò guidare timidamente e si accomodò sulla
piccola poltrona, affianco al pilota, sistemandosi ben bene l’orlo della
veste fino a ricoprire perfettamente le ginocchia.
Un gesto che non sfuggì
al suo compagno di volo e che gli lasciava intravedere molte cose di lei,
del suo essere innocente e pudìca come una bambina. Poi avviò il suo motore
di sinistra (leggasi “cuore”) e l’aereo si sollevò dolcemente da terra. Lei
si sentiva tranquilla e protetta, sapeva di essere in buone mani. Con quel
compagno di viaggio avrebbe condiviso un tratto di cielo e avrebbero
approfondito la conoscenza reciproca durante il tragitto.
Da quel momento, i due strani viaggiatori si sentirono proiettati a migliaia
e anche a milioni di anni luce lontano dagli altri.. Potevano finalmente
andare nello spazio, e realizzare viaggi interplanetari dentro l’Essere. E
non tardarono molto a scoprire che l’universo vero, scuro e ignoto, era
dentro di loro..
Fu un viaggio breve, ma intenso, quantificabile in circa sei mesi terrestri.
Sei mesi o sei anni durante i quali accaddero episodi di rara intensità
emozionale.
I due viaggiatori avevano tanto da dirsi.
Ad ogni domanda di lui lei rispondeva con immediatezza, quasi con furore,
era totalmente trasformata. Era allegra, spiritosa, ironica e sapientemente
civettuola. Kundera dice che la civetteria femminile è una promessa di coito
non mantenuta, e di ciò ella era perfettamente consapevole, perché da tempo
aveva imparato a sottomettere alle sublimi esigenze dello spirito quelle che
erano le esigenze umane della carne. Le pareti della
sua anima erano come pagine bianche in attesa di Parole.
Erano come bianchi muretti di tratturi che attendevano viandanti in cerca di
ristoro.
Il suo compagno di viaggio percepiva in lei la ricchezza dei giardini di
marzo. Gli occhi di lei erano forzieri colmi di promesse mentre i suoi si
riempivano di uno strano turbamento.
In una breve sosta, durante la quale provvidero a fare rifornimento di
carburante e di risorse, egli volle dipingere sulla carlinga dell’aereo di
carta uno stemma che rappresentasse la loro personalità. Tracciò un cerchio
e lo divise in due nel senso verticale: dipinse un mezzo sole nel
semicerchio di destra, rosso e palpitante, con innumerevoli raggi
lanceolati: nel semicerchio di sinistra vi dipinse una mezza luna con le sue
zone d’ombra e i suoi mari tenebrosi.
Appena ebbe finito di dipingere l’uomo si allontanò di qualche passo, per
guardare con evidente soddisfazione il suo capolavoro,
e , chiamatala a sé, le mostrò lo stemma con una gioia mista a
sofferenza che le accendevano gli occhi mobilissimi e scuri.
“Vedi”
le disse, “il Sole sei tu, tutta fiamma e fuoco, unica e irripetibile e
sogni, sogni il Presente, il Futuro e il Passato, perché, credo che nel
Sogno ti completi.
Il Sogno è l’aria che respiri: tu
avanzi nel tuo andare con questa fiaccola ardente tra le mani e non puoi
capire…non puoi capire i comuni mortali, immersi come sono nelle loro tristi
realtà”.
Lei lo guardava rapita e ascoltava come in trance la descrizione del suo
“essere fuoco e fiamma”.
Poi, dopo una lunghissima pausa, egli proseguì:
“Io sono questo, invece: sono questa parte di Luna in penombra, con il
mio pessimismo, la mia concretezza, la mia ragionevolezza che mi porta a
svuotare anche il più piccolo Sogno….…. Mi stupisce
la tua capacità di fare poesia con un niente; a volte con meno ancora di
niente: forse perché a me manca del tutto la Fantasia.
E le parole per raccontarla non so nemmeno dove si trovano.
Tu sei figlia di Saffo, sei intrisa di poesia; tu sei immersa nella
luce, nella tua stessa Luce: io, invece, brancolo nel buio….”
"Come gioire di
questo volo" - proseguì il
misterioso viaggiatore - "Se
penso a muri invalicabili, a distanze cosmiche, se penso a vuoti d’aria e
precipizi?“
Lei si rabbuiò notevolmente nel sentire questa seconda parte della
spiegazione, non poteva non approvare la sua saggezza, anche se avrebbe
preferito ignorarla.
La storia dei due viaggiatori
aveva catturato l’anima di sirenetta: non aveva mai sentito storie di questo
genere.
In verità non aveva mai sentito Storie: questa che il
saggio paguro le stava trasmettendo le apparve subito come una straordinaria
storia d’amore.
Lei non conosceva cosa fosse l’amore, ma lo identificava a quello strano
sussulto che percepiva dentro di sé ogni qualvolta la morsa della solitudine
si faceva sentire.
L’amore, pensava sirenetta, doveva essere una cosa meravigliosa. Mentre era
assorta in questi pensieri non si accorgeva che il saggio paguro aveva
interrotto la lettura.
Al puzzle mancava un piccolo tassello andato perduto durante il trasporto,
di ciò che restava dell’aereo di carta.
“Leggi, leggi ancora” pensava la sirenetta, tentando di farsi udire
dal saggio paguro.
In effetti, anche questa volta, il suo desiderio più recondito fu ascoltato
e il paguro proseguì la lettura della storia.
Dopo la spiegazione del significato dello stemma che l’uomo aveva dipinto
sulla carlinga dell’aereo di carta, risalirono a bordo, per proseguire il
volo. Lei, dotata della rara capacità di
scandagliare l’animo umano, percepì che qualcosa in lui stava cambiando e si
chiedeva affannosamente se il suo compagno avesse deciso, in cuor suo, di interrompere il viaggio…
Sirenetta ascoltava commossa e si appassionava stranamente a questa storia.
Soffriva per la segreta sofferenza della protagonista e sperava in cuor suo,
che tutto andasse a buon fine.
“In cuor suo”, ma lei non aveva cuore, le sirenette di pietra non
sono dotate di cuore: il cuore, questo involucro d’anima, è retaggio e
prerogativa degli esseri viventi!
Cominciò a farsi strada in lei la consapevolezza di essere “diversa”;
aveva qualcosa di umano nelle sue membra di pietra.
Era capace di provare sensazioni, stupore, desiderio di relazionarsi con gli
altri esseri viventi e inanimati.. ma si sentiva al
contempo lontana mille anni luce dalla Vita.
Poco dopo, questo triste pensiero fu fugato dal fatto che, egli, si mise a
discorrere con ritrovata serenità, di un quadro di Van Gogh, della
straordinaria ricchezza di opere d'arte contenute nel Louvre e di una strana
coppia di musicanti che aveva visto a Parigi.
Lui, alto e biondo, con un jeans liso fino all'inverosimile, suonava il
violino.
Lo suonava in maniera sublime. Lo faceva vibrare tra le braccia come se
fosse una creatura vivente; come se fra le sue braccia stringesse il corpo
di un'amante. Lo suonava con una tale passione da far accapponare la pelle
ai turisti che si fermavano a guardare.
Lei invece, era una ballerina, graziosa e minuta, indossava un tutù ormai a
brandelli, memore, tuttavia, di giorni e tempi forse più felici.
Aveva un paio di scarpette da ballo, con nastrini di raso che le fasciavano
le caviglie, ormai ridotte all'osso.
Mentre parlava di questo, l'affascinante compagno di viaggio denunciava una
strana, avvincente, malinconia che le faceva cadere sugli occhi di gitano un
velo di sofferenza.
Poi, ad un tratto disse:
- Presto tornerò a Parigi. Lì ci sono i Sogni più belli. Farò il poeta
sulle rive della Senna e se avrò fortuna comprerò un violino anch'io... e, se ci sarà ancora quell'uomo, glielo regalerò, se avrò fortuna...
-
Diceva queste cose come se le
avesse decise da tempo; che fosse ormai solo questione di momenti?
- Si, andrò a Parigi, Parigi..- ripeteva quasi a se stesso -
Parigi.- mentre lei si sentiva infliggere coltellate al petto, ad ogni
suo dire Parigi.
- Montmartre, il mercato dei fiori... affitterò una soffitta e mi ci
stabilirò, finirò lì i miei giorni...-
"Ma tu sei unica e irripetibile" le aveva anche detto, ed ora quel
suo farneticare Parigi, Parigi, le rafforzava il triste presagio.
Da quel momento ella restò muta, come un'allodola colpita alla gola.
Egli pensava ancora a Parigi, e lei sognava di cavalcare una nuvola
bianchissima a forma di Ippogrifo, quando un improvviso colpo di vento
travolse il piccolo aereo di carta e i due strani viaggiatori che aveva a
bordo, facendoli precipitare nuovamente nel Pianeta del Silenzio più
assordante.
Non rimase nulla di loro, tranne alcuni versi annotati su foglietti di
carta, che volteggiarono a lungo sotto il peso del cielo.
Prologo
Il saggio paguro aveva un nodo
alla gola quando ebbe finito di leggere questa struggente storia alla sua
piccola Sirenetta, si perché aveva imparato ad amare quella straordinaria
creatura di pietra che aveva lo strano potere di fargli pervenire messaggi
col solo potere del suo pensiero.
E lui, che aveva lo straordinario potere di saper
ascoltare le voci invisibili e inudibili comprese che tra loro si era
stabilito un contatto elettivo mai sperimentato prima di allora.
Aveva quasi paura, adesso, di non avere più ragione di esserle accanto, di
esserle d’aiuto: non aveva più storie da leggerle.Non aveva più emozioni da
trasmetterle .
Sentiva, ad un tratto, di non essere più utile neppure a sé stesso, perché
d’improvviso la sua vita sembrava non avere più scopo.
”E’ solo quando si ama che vale la pena di vivere" pensava intanto il
vecchio paguro, triste fino alla morte.
“Il tuo dolore nevica gemme di gelo sul mio
cuore” pensò ad un tratto la Sirenetta, non certamente consapevole
che il suo pensiero avrebbe raggiunto il radar del cuore del vecchio paguro.
Quale meraviglia, invece!
Quel messaggio risuonò in tutto il piccolo essere del suo amico e lo inondò
di uno strano sentimento di riconoscenza.
Un sentimento che non sapeva decifrare, né connotare esattamente, in quanto
egli non era stato creato per percepire sentimenti, ma di vivere una breve
esistenza nel grande alveo marino.
Sconosciuta era, al vecchio paguro, quanto fosse ampia o breve la parabola
della sua vita. Sapeva soltanto di amare d’amore infinito la sua piccola
Sirena di pietra
La Sirenetta e il Gabbiano
Jonathan
Quel giorno un vento di scirocco
faceva sentire le membra di Sirenetta pesanti e pungenti come se si fossero
sollevate tutte le spine dei fichidindia dalla vicina Sicilia e come tanti
spilli di sartoria le si fossero conficcate sulle membra.
Era una Domenica apparentemente tranquilla, quando, all’improvviso,
Sirenetta sentì un grande tremito sconvolgere il fondo del mare. Onde
circolari provenienti da un mare a lei sconosciuto si allargavano e la
raggiungevano, la ghermivano e la impaurivano terribilmente. Tutta la
popolazione marina fu presa da un grande spavento.
Sirenetta non aveva mai, fino ad allora, sentito nulla di simile. Si, una
volta il suo amico paguro, le aveva parlato di uno tsunami lontano, che
aveva sotterrato interi villaggi abitati da uomini felici, ma Sirenetta
allora, non provò nessun sentimento di pietà per quegli esseri umani. Troppo
lontani da lei e dal suo tranquillo mare. Quelle strane onde sussultorie
stavano quasi scardinando il suo sito scoglioso, il mare tremava fortemente
e fu allora che ebbe a rimpiangere il mancato conforto che avrebbe potuto
darle la presenza di un vero amico. Pensava, l’impaurita Sirenetta, a tutte
quelle creature che, in quel preciso momento, si trovavano immerse nel mare.
Chissà, poteva esserci un Uomo-Pesce, che come lei era condannato,
per scelta o per necessità, ad abitare eternamente il mare senza mai
più risalire a riva… Un uomo pesce… doveva essere davvero disperata la
povera sirenetta se nella sua testolina si affacciava un’idea così
stravagante e impossibile.
Sentiva d’improvviso, come se tutte le solitudini del mondo le si fossero
rovesciate addosso, attaccate alle sue membra di pietra, e lei, immobile,
non poteva scrollarsele, a causa della sua staticità.
Fu nel momento più doloroso della sua riflessione, che Sirenetta udì un
delicato frullare d’ali, era una melodia alle sue orecchie avvezze ai rumori
ordinari di un traffico ordinario e giornaliero.
Ripetutamente sentì questa melodia capace di smuovere l’aria circostante e
di farle dimenticare lo spavento provato quella mattina.
Il volo di un gabbiano, bianco come un fiocco di neve, catturò tutta la sua
attenzione.
Nello specchio d’acqua a lei circostante si proiettò l’ombra di un gabbiano,
grande e forte, che si accostò a Sirenetta con fare amichevole.
Stranamente sentiva che quella creatura del mare e del cielo avrebbe potuto
infrangere la cortina di solitudine che l’avvolgeva e la separava dalla
vita. Avrebbe potuto parlare con lui del ritmo delle
primavere, dei rossori dell'estate, dei tamburi degli
autunni e del gelo tattile dell'inverno.
Pensava e, stranamente, pensava in termini di poesia!
Portami a volare con te oltre la
luna
oltre il sogno, oltre questo grigiore
che opprime e mi falsa i connotati,
fino a ieri così scanditi dal pendolo monotono
del tempo.
Portami a volare con te
oltre l'azzurro, sulle tue poderose ali;
portami a sorvolare montagne innevate,
a solcare cieli senza confini, oltre le nubi,
oltre il sogno.
Portami a volare con te,
leggiadro amico, plana dolcemente
fino a me:
ch'io possa cavalcare oltre le stelle,
sentirmi parte anch'io
dell'infinito.
Si preannunciava davvero un’amicizia importante tra Sirenetta ed il
Gabbiano.
Lei non lo sapeva ancora ma quel gabbiano era un gabbiano “speciale” ed
aveva un nome: Jonathan il poeta...
La scuola di Jonathan
Strano, come quella presenza sembrasse provvidenziale a
Sirenetta.
Aveva uno struggente bisogno di compagnia. Il vecchio paguro
l’aveva lasciata senza preavviso, senza un cenno di saluto, un brutto
giorno, e non si era visto più.
Ignorava la povera sirenetta che gli esseri umani avevano un ciclo di vita
piuttosto ridotto ed erano mortali, non creature di pietra come lei
destinate a sfidare il Tempo.
Il Gabbiano Jonathan si fece subito notare da Sirenetta e le sue lezioni di
volo nei cieli della vecchia marina divennero sempre più frequenti.
Lei, pur avendo sempre lo sguardo rivolto verso il mare, poteva ammirare le
ampie volute che il bianco uccello marino tracciava nel cielo, perché tutto
ciò che il Gabbiano faceva si proiettava nello specchio d’acqua che
circondava il suo scoglio.
Jonathan, non era un gabbiano comune, era un gabbiano colto e
intraprendente. Amava stabilire primati di volo. Si esercitava continuamente
a raggiungere altezze sempre maggiori.
Disdegnava la compagnia dei suoi amici pennuti, che amavano seguire le
barche dei pescatori quando rientravano nei porticcioli per fare
scorpacciate di sardine sfuggite dalla paranze.
Aveva aperto una scuola serale per giovani gabbiani desiderosi di ampliare
le loro conoscenze nell’universo marino che abitavano.
Molti giovani gabbiani sentivano in loro il disagio tipico dei giovani
umani.
Erano insoddisfatti della loro vita. I voli erano troppo bassi, il
cibo era troppo scarso, il mare era troppo torbido, sentivano nel loro cuore
di bianchi pennuti un anelito altro.
Doveva esserci il modo per trascorrere il sabato sera in maniera esaltante.
Jonathan aveva escogitato un sistema davvero originale per
pubblicizzare i suoi corsi serali. Aveva cominciato a fare volantinaggio.
Aveva scritto su fogli-bianco-piuma il calendario di tutte le attività che
si potevano realizzare nella sua Palestra anti-depressione giovanile e li
diffondeva sulle acque della marina. Naturalmente su tutti i
fogli-bianco-piuma si poteva trovare davvero di tutto:
Esercizi di Body sculture il lunedì; Aerobica il martedì; Total body il
mercoledì; Balli caraibici il giovedì; Step il venerdì; Balli di Gruppo il
Sabato sera.
Lezioni di volo tutte le domeniche.
Il nome di Jonathan
Il gabbiano Jonathan era sicuro di “sfondare” aprendo questa
attività in favore dei giovani amici pennuti. Avrebbe fatto eseguire gli
esercizi sulle cordigliere di scogli del mar piccolo, giusto nell’area di
mare attorno alle sirenette.
Aveva notato, infatti, che molti turisti si soffermavano ad ammirare le
originali creature di pietra, veri e propri capolavori di scultura e di
originalità, nonché di bellezza.
Jonathan, conosceva anche l’ubicazione delle altre sorelle sirene, ma a lui,
piaceva particolarmente la Sirenetta immortalata nell’atto di lisciarsi la
chioma fluente.
Jonathan, aveva quello strano nome, per il quale era spesso
beffeggiato e deriso dagli abitanti marini, perché sua madre leggeva molto.
Ma questo cosa c’entra col suo nome, direte certamente. C’entra, c’entra,
invece. Ora vi spiego perché.
Jonathan è il nome di un famoso gabbiano, il quale è forse l’unico ad aver
avuto anche un cognome. Questo cognome era pettoruto e importante come
l’uccello marino che lo portava. Lo aveva avuto dal suo “creatore” ovvero lo
scrittore Richard Bach che lo aveva reso immortale.
Il cognome di Jonathan Primo riecheggiava di fama quasi quanto quello dello
scopritore del Lago Vittoria. Il cognome di Jonathan Primo era nientedimeno
che Livingston. Jonathan Livingston. Non era forse un nome altisonante
quello a cui si era ispirata la gabbianella che aveva messo al mondo il
nostro Jonathan?
Anche il “nostro” Jonathan amava volare alto. Anche il nostro gabbiano
desiderava realizzare sogni. Anche il nostro molto modesto Jonathan amava
fare qualcosa per passare alla storia. Ma ahimè, occasioni per diventare un
eroe negli spazi della marina se ne presentavano davvero pochi. Sperava,
però in cuor suo, di avere successo con l’attività di ginnastica motoria per
giovani allievi gabbiani.
Aveva raccolto già molte iscrizioni ed aveva pertanto deciso
di cominciare gli esercizi il Primo Lunedì di Settembre.
Il primo lunedì di settembre, non era una data scelta poi così a casaccio.
Il primo lunedì di settembre era il giorno del suo quarto compleanno, che
equivaleva ai quarant’anni degli esseri umani.
Era il 4 settembre 2002 la data magica della prima lezione di Ballo, anzi
no, il lunedì era il giorno degli esercizi di Body sculpture! Esercizi utili
allo sviluppo dei muscoli pettorali. Dei muscoli bicipiti, tricipiti e
quadricipiti, dello sviluppo dell’apertura alare e del massimo rigonfiamento
del manto piumoso. Insomma, coloro che avrebbero frequentato quel corso
avrebbero avuto da li a poche settimane, un fisico Bestiale, quasi quanto
quello di un famoso culturista che abitava in città.
L’influenza dei pennuti
L’attività della palestra
di Jonathan stava andando a gonfie vele, ovvero a gonfie piume, ogni giorno
numerosi giovani gabbiani partecipavano ai vari esercizi previsti dal
programma e si andava diffondendo per tutta la marina, la fama del bravo
allenatore che faceva trascorrere ore liete ai volatili a rischio
depressione.
Lui, Jonathan, sentiva una sottile soddisfazione riempirgli il cuore. Si
adoperava in tutti i modi per far divertire lavorando, amava allietare gli
esercizi con della buona musica che metteva in sottofondo e che si
diffondeva quasi in stereofonia in tutto lo specchio d’acqua adibito a
palestra. La musica produceva effetti benefici sui suoi allievi, li
rasserenava, li stimolava, infondeva loro ritmo e sentimento.
Anche Sirenetta amava sentire quella musica. Non potendo partecipare agli
esercizi di Aerobica, di Step, di Total body, si poneva in attesa trepidante
di poter ascoltare quelle musiche, poiché erano diverse per ogni tipo di
esercizio.
Sirenetta amava la musica.
Amava ogni espressione d’arte. Avrebbe dipinto, se non fosse stata di
pietra. Avrebbe cantato, se non fosse stata di pietra.
Avrebbe danzato, avrebbe scritto poesie, avrebbe raccontato storie d’amore,
se non fosse stata di pietra.
Sirenetta custodiva nel suo cuore di pietra tutti questi rimpianti, ma li
sublimava con l’accettazione del suo essere un Essere Inanimato.
Accettava la sofferenza che le procuravano tutte queste privazioni e si
accontentava di ciò che poteva captare con la sua sensibilità.
La Domenica era il giorno da lei tanto atteso. In verità non era atteso solo
da lei, ma da tutti i gabbiani abitatori della vecchia marina. La Domenica
si VOLAVA!
Era, infatti, nel DNA dei gabbiani questo irrefrenabile anelito al VOLO.
Erano creature nate per volare. Ma, le difficoltà della vita e della
sopravvivenza avevano fatto dimenticare loro la ragione per cui il Creatore
li aveva dotati di ali.
L’istruttore Jonathan, per gli esercizi di volo, amava mettere un sottofondo
molto amato dalla Sirenetta. Era un sirtaki, intitolato “Zorba Dance”
La musica si snodava in un crescendo straordinario e su questa base musicale
gli allievi gabbiani dovevano misurare l’ampiezza alare, l’elevazione
graduale verso l’alto, tenendo d’occhio i parametri di altezza
precedentemente fissati dal loro istruttore.
Gli esercizi di volo domenicali, richiamavano nella vecchia marina un numero
sempre crescente di turisti. Era un vero spettacolo vedere quei giovani
volatili eseguire quella meravigliosa coreografia.
Lo scenario era suggestivo.
Lo specchio d’acqua era quasi sempre limpido e
azzurrissimo.
Non poteva esserci “palcoscenico” più adatto per le lezioni
domenicali di volo. I giovani gabbiani non si rendevano conto che essi
offrivano uno spettacolo di straordinaria bellezza ai sempre meno distratti
passanti.
Ma avvenne che un brutto giorno molti gabbiani e gabbianelle non si
presentarono agli esercizi del lunedì.
“Va bene,”
- pensò Jonathan - hanno fatto le ore
piccole ieri sera. Aspetterò domani, prima di allarmarmi”
Ma l’indomani si presentarono solo quattro gabbiani, un po’ acciaccati,
avevano l’influenza…
Jonathan non lo sapeva ancora, ma una terribile “Pandemia” stava per
abbattersi in tutto l’universo dei pennuti; anche in quello della vecchia
marina.
Il vecchio Jonathan attese
ancora qualche giorno che tutti gli assenti ingiustificati ai suoi corsi di
ginnastica si presentassero puntualmente, ma dovette ben presto rassegnarsi
all’inevitabile. Oppresso da un grave presagio notò, che da qualche giorno,
si andavano formando capannelli di uomini e pennuti i quali, ciascuno nel
proprio idioma, discutevano animatamente.
I telegiornali delle televisioni locali in quei giorni trasmettevano, a reti
unificate, sempre lo stesso programma: La morte
del cigno reale.
I cigni reali erano una razza di cigni bellissimi. Dotati di un manto
bianchissimo, avevano come segno di riconoscimento, una nera mascherina
sugli occhi, che li dotava di un grande fascino agli occhi dei pennuti meno
“nobili”
Passavano dalla città di Sirenetta enormi stormi di uccelli migratori.
Questi straordinari uccelli seguivano delle vere e proprie rotte tracciate
dai loro antenati e poi seguite fedelmente da milioni di altre generazioni
di pennuti. Il loro passaggio aveva dello spettacolare. L’intero stormo
formava una nuvola compatta che si muoveva ad una velocità superiore a
quella delle nuvole che precedono la tempesta.
Lo stormo di questi uccelli somiglia ad un’enorme nuvola viaggiante.
Viaggiano con il becco aperto per non trovarsi impreparati ad uno spuntino
improvviso, pronti a catturare moscerini e altri bocconcini che si
potrebbero trovare a transitare sulla loro rotta.
Volano seguendo la traiettoria di un Leader, un uccello capogruppo che si
pone alla testa dello stormo e imprime ai suoi seguaci la forma di un
deltaplano vivente.
I migratori sono Uccelli in cerca di terre e di sole e di acque nella
perenne ricerca della stagione della felicità. Attraversando diverse
latitudini e sfidando i mille pericoli della trasvolata, incuranti delle
correnti avverse, volano, volano avendo nel loro piccolo cervello un solo
pensiero dominante: giungere alle terre del sole, alle calde terre d’Italia,
della Tunisia, ai caldi e pescosi mari del Sud.
Il Fenicottero Rosa
Tutto il mondo scientifico,
chiamato al capezzale dei pennuti morenti, si mobilitò a livello mondiale.
Bollettini allarmanti venivano trasmessi in tutto il “villaggio globale” che
era diventato il mondo.
Da oriente ad occidente la conta degli uccelli morti
era paragonabile ai più nefasti bollettini di guerra.
“In Italia oggi si contano 6 cigni morti, due in Puglia, due in Sicilia,
uno nel Veneto, uno in Calabria….”
Si affiggevano manifesti sui Muri del Pianto:
”Attenzione, non si debbono
toccare assolutamente gli uccelli morti, siano essi colombi, gazze, cigni,
oche, anatre, canarini…. passerotti …”
Si era davvero in una situazione che sfiorava la tragedia, grave quasi
quanto quella che colpì l’Italia nel ’18 che si chiamava pittorescamente “La
spagnola”. Ma è ancora vivo negli umani più longevi il ricordo di quante
vite umane furono sterminate con la spagnola, che, col senno e la scienza di
poi, si scoprì essere anche lei una influenza “aviaria”. L’epidemia
non accennava a rientrare, ma si sviluppava a macchia di leopardo su tutto
il pianeta terra.
Era un evento tristissimo che aveva fatto scendere in una maniera
pericolosissima il consumo della carne di pollo in tutto l’emisfero. I
macellai fallirono miseramente e su enormi pire di fuoco venivano bruciati
milioni e milioni di carcasse di polli invenduti. Nessuna fonte autorizzata
poteva azzardare una previsione ed una scadenza entro la quale questo
temibile virus sarebbe stato debellato.
Jonathan era sfiduciato. Non poteva più realizzare il suo sogno. Ogni sera,
puntualmente, a ora di cena, come fanno gli esseri umani, accendeva il
televisore per apprendere dal telegiornale il numero dei suoi amici pennuti
periti nel corso della giornata. Il suo morale era a terra. Aveva smesso le
lezioni di volo, le lezioni di Step, di Aerobica, di vita, di sollevamento
dei morali avviliti, quelli di scoraggiamento e di depressione. Malattie che
colpivano puntualmente i suoi giovani amici ad ogni cambio di stagione.
La sirenetta non era del tutto esente da queste problematiche che si erano
abbattute sulle ali del suo amico pennuto. Era in preda ad una pianto
sincopato e silenzioso. Nessuno poteva udirne i singhiozzi. Ma lei piangeva.
Poteva piangere anche se non riusciva a far cadere, dalle sue pupille di
pietra, neanche una sola goccia di pianto.
Ma un bel dì, un fenicottero rosa staccatosi da un ultimo stormo di
passaggio, fortunatamente sano, si andò a posare sul basamento scoglioso
vicino a sirenetta.
Fece alcune abluzioni al suo manto piumoso, si scrollò
le gocce di mare superflue, si stese un oretta a prendere un po’ di sole e
adocchiò, finalmente, la bellissima creatura di pietra.
Ne rimase, naturalmente, ammirato, anzi estasiato.
Ben presto ne fu
innamorato. Perdutamente innamorato. Sirenetta non poteva che sorridere
silenziosamente a tutte le acrobazie messe in atto dallo stupendo animale,
per farsi scorgere da lei.
Il fenicottero rosa, appena arrivato nelle acque della marina, aveva visto
un’altra creatura inanimata, ma non gli era piaciuta come questa. La sirena
che aveva scorto verso la grande rotonda era massiccia nelle forme, come una
matrona romana. L’aveva a lungo studiata, osservata,
misurata; ma non aveva trovato in lei nulla che lo intrigasse.
Quella “grassa”
sirena aveva una lunghissima coda, tanto lunga che per stare comodamente
seduta doveva attorcigliarsela quasi fosse una coda di cavallo e adagiarsela
sullo scoglio, come se fosse una matassa di lana.
Insomma, il fenicottero rosa fu
assalito presto da mal d'amore, ma non poteva assolutamente "morire"
altrimenti la sua morte avrebbe scatenato un pandemonio nella marina.
Sarebbero giunte tutte le emittenti locali, i giornalisti, i medici delle Ausl, gli ispettori internazionali. Lui non era ammalato di aviaria, era
ammalato d'amore .
E la cosa era molto differente.
Sirenetta lo guardava di sottecchi, più incuriosita che divertita, non aveva
mai visto un uccello così sciocco, più vanitoso di un pavone e più sciocco
di un'oca.
Sirenetta non poteva interessarsi a lui, ultimo ospite arrivato nella sua
marina.
Lei custodiva nel più profondo del suo cuore il sogno di incontrare un uomo-pesce, che la facesse sentire viva e completa. Sperava nel miracolo che
potesse un giorno, non lontano, trovare l'altra metà del suo essere donna-pesce.
Il fenicottero comprese, nonostante si opponesse con tutte le sue forze, di
non avere molte possibilità di conquistare l'amore di quella straordinaria
creatura, non mangiò per giorni, disdegnò i generosi buoni pasto che gli
venivano offerti dai rudi ma generosi pescatori, soffrì enormemente a causa
dell'indifferenza del suo oggetto del desiderio, si lasciò andare nel
misterioso mondo dell'apatia, non estendeva più la sua bella circonferenza
alare, il suo petto di piume rosa si trasformò in un flaccido cuscino di
piume incolori.
Si lasciò morire.
La sua morte attirò, come era logico, giornalisti e curiosi, pescatori e
bambini, donnicciole e uomini di cultura, la notizia della sua morte
rimbalzò fino in Cina e in Danimarca, nelle Indie e nelle isole Canarie,
nelle terre dello tzunami e in quelle filippine, nello Jonio e nel
Mediterraneo.
Ma tutti erano in errore. Il fenicottero rosa era morto per amore.
L'indomani, sulle prime pagine dei giornali locali, apparvero titoloni impressionanti:
"Fenicottero rosa morto nell'Isola di san Pietro ".
Sirenetta in un certo senso si sentiva responsabile della sua morte, ma non
poteva farci niente, era addolorata, ma non colpevole. Non aveva sentito nulla per quell'animale.
Aveva provato affetto per il vecchio paguro,
affetto e simpatia per il gabbiano Jonathan, ma per il vanitoso fenicottero rosa non le si era smossa neanche una piega delle sue membra di pietra.
Fu presa allora da un'indicibile tristezza; possibile che non avrebbe mai
trovato qualcuno da amare? Stordita da questo pensiero martellante che le
scandiva tutte le ore del giorno e della notte, invidiò gli esseri umani i
quali non erano, come lei, condannati ad una vita immortale. Come Prometeo,
invidiava la breve parabola della vita umana rimpiangendo di non appartenere
a questa progenie. Condannata ad una sofferenza immortale. Senza scadenze.
Senza fine.
I luoghi dell’Altrove
In una mattina di febbraio,
quando imperversava nel mondo un’infinità di sofferenze, fra le più
impensate, fra la ciclopica frana delle filippine, fra le rivolta dei
musulmani a causa di alcune vignette su Maometto, e a causa del Male che
soffiava furiosamente sul fuoco delle fragilità umane, Sirenetta sentì una
lieve scossa, una seconda scossa, sentiva una voce lontana che la chiamava
dal profondo degli abissi.
Una voce mai udita prima, suadente e imperiosa
che la chiamava con la forza prepotente dell’amore. Fu come se mani titaniche smovessero il suo sito di pietra, staccassero il
grosso masso sul quale era stata posizionata dal suo creatore.
Ad un tratto le parve di essere cullata, il sasso si dondolava, si
allontanava, si staccava dai luoghi che l’avevano vista nascere. Sirenetta
si allontanava “pericolosamente” dalle sue sicurezze ma anche dai suoi
vissuti di solitudine.
Andava verso terre concupite dal sole, verso un sito sconosciuto ma atteso
con tutto il suo essere. Inanimato ma segretamente vivo. Straordinariamente
vivo.
Ecco che le sue membra si fanno di carne, la posizione d’immobilità si
scompone, si lascia andare, si può finalmente stendere, riappacificarsi con
il suo corpo prigioniero, ora finalmente libero. Un gorgo d’acque chiare,
anelli di acque limpide l’avvolgevano, la cullavano con infinita dolcezza;
innumerevoli braccia di alghe l’abbracciavano.
Nenie antiche mai udite si diffondevano nell’aria e nell’acqua, favorendo la
sua fuga. Muti e melodiosi cori si levavano dal golfo mistico di
un’orchestra invisibile ma “presente”..
Il suo cuore diventò palpitante e pulsante come un “vero” muscolo di carne.
Un gladio di luce, come bisturi affilato, le incideva
l’opacità cristallina, liberandola dalla cecità ereditata. Le cinque
capacità sensoriali erano attivate da un input sovrannaturale. La massa
pietrosa dei capelli le si sciolse in innumerevoli fili di capelli
di
angelo. Poteva sentire sulle sue labbra ténere e rosa il sapore salino delle
onde frantumate e complici .
Sirenetta vedeva dissolversi in un prisma di luce i neri sparvieri della
notte, le ceneri dei suoi desideri prendere forma e colore, percorreva
Giardini di affascinanti saperi. Un albore boreale si dispiegava davanti al
suo sguardo neonato, prometteva isole di tesori nascosti. Galeoni, dalle
svettanti vele, si allineavano su un nuovo asse temporale, anelanti rotte
dense d’amore.
Poteva, finalmente, provare l’umana esperienza del
“dolore”, del desiderio, della speranza.
Aveva per lunghissimi anni vissuto osservando il mare “sopra”,
adesso, finalmente poteva penetrare con il suo sguardo,
in tutti gli anfratti dei fondali marini, nelle tane delle murene,
poteva scorgere il tenace grongo uscire dagli interstizi cavernosi, i
tritoni avvinti in danze inusitate.
La donzella pavonina vestita di glauco regale e guizzi e ombre e nuvole di
liquido amore, trovare rifugio nelle conchiglie disabitate e il temuto
capidoglio divenire mansueto e mite come il lupo di Francesco.
Scorgeva barriere di rosso corallo, e pesci lucerna argentati e lucenti. E
si smarrì di dolce meraviglia quando comprese che l’inatteso rossore che
attraversava in quel momento il mare era dovuto al riverbero della luna,
la quale civettuola e stranamente umana, si specchiava nel fondo del
mare.
Di quanta bellezza era stata privata. Mentre più inesorabilmente si
allontanava, addentrandosi nell’abisso, Sirenetta pensava che il mare-sotto
era ancora più affascinante di quello che lei aveva imparato a conoscere
dalla sua postazione in superficie.
Il mare, il fondo del mare era il luogo dell’altrove, dentro il quale
avrebbe voluto vivere per sempre.
Fu allora che dalle sue pupille di pietra sgorgò una lacrima vera…. Una
goccia salata… una goccia di salino dolce-amaro , ma non era come quella del
suo amico mare, era una goccia rotonda simile ad una perla, simile ad un
gioiello. Un cristallo nel quale si specchiava tutto ciò che lei aveva
amato.
Il
cielo, il cielo si specchiava in quella goccia per darle l’ultimo saluto. Il
mare, c’era anche il mare, suo amico, suo liquido amniotico.
La terra, anche
la terra, sua madre, con i suoi profumi, con i suoi
straordinari colori si rispecchiava in quella liquida perla , in quell’amplesso
di amore e dolore.
Finalmente sollevata dalla pesantezza dell’Essere.
Sirenetta sentiva che il
suo corpo si librava lievemente in spazi mai sperimentati e abitati prima di
allora.. Spazi accoglienti, ospitali, sconfinati. Spazi
che l’attendevano da mille anni.
Fu allora, solo allora, che Sirenetta si sentì, finalmente, libera.
Finalmente viva.
Sirenetta continua a vivere…
Se transiterai dalla Città dei
Due Mari, costeggiando la vecchia marina, davanti al Castello Aragonese,
troverai un’altra stupenda creatura.
E’ Lisea La Vestale. Consacrata al
culto di Minerva Poliade scelse di morire insieme alle sue compagne quando
fu portata schiava a Roma. Insieme a trentamila persone, tra Tarantini e
Cartaginesi, aveva seguito il destino crudele dei vinti, imprigionati dai
Romani dopo la conquista di Taranto da parte di Quinto Fabio Massimo, nel
209 a.C.
Per sottrarsi al disonore, il pegno da pagare al vincitore, Lisea e le altre
Vestali scelsero la morte precipitandosi tutte dall'alto del tempio.
Non puoi restare indifferente davanti a tanta storia e davanti a tanta
bellezza.
Se puoi, passa a trovare le sorelle sirene. Le prime due le
troverai nei pressi della “Capitaneria di porto”.
La prima, che fu amata
silenziosamente dal vecchio paguro e che ascoltava i silenziosi aneliti
degli esseri umani, è quella con le braccia alzate, quella che dialogò con Jonathan, che disdegnò la corte del fenicottero rosa, quella che custodiva
il segreto sogno di incontrare l’uomo-pesce,
la metà a lungo agognata,
cercata, sognata e finalmente trovata.
Colapesce, l'uomo che per necessità o scelta diventa pesce,
dal corpo
squamoso e le dita palmate, ovvero, il mitico eroe di innumerevoli leggende,
che sostiene con le sue spalle l’amata Sicilia. L’eroe che un giorno,
giunto nel fondo del mare, vide la colonna Peloro, sulla quale poggia la
cuspide settentrionale della Sicilia, quasi in punto d'infrangersi e preso a
compassione per la sorte della sua isola scelse di restare sul fondo del
mare, di amare in modo oblativo, chi non lo amava, chi lo disprezzava, chi
lo anteponeva a ridicole scelte, vacue scelte. Scelte senza storia. Senza
Eternità.
Colapesce, da Messina, immortalato da Guttuso nella Pittura, da Calvino e da
Benedetto Croce nella Letteratura, da Otello Profazio nelle sue ballate da
cantastorie.
Colapesce storicamente collocato “tempo “ del Grande Federico II, lo “stupor
mundi”.
Colapesce, che ebbe il privilegio di guardare negli occhi il Capidoglio,
Colapesce, che scese negli abissi per ritrovare l’anello della superba
Principessa.
Colapesce, che sentiva imperioso il richiamo del mare, seducente e
schiavizzante, come quello delle Sirene che sedussero l’omerico Odisseo.
Colapesce, che continua a vivere degli occhi dei sognatori, dei naviganti, e
dei poeti.
Se passerai da Taranto cerca anche la sirena con la coda attorcigliata.
Potrai ammirarla nei pressi della Rotonda, la troverai seduta in una posa da
matrona romana, dalle forme robuste ma ugualmente singolare e sorniona, come
una luna piena,
lampara accesa per coloro che si amano. Di notte. Perduti
nella melodia delle onde che s’infrangono lievissime, discrete, per non
disturbare i bisbigli degli innamorati.
Molti gabbiani le volato attorno,
cercando di strapparle qualche confidenza, qualche racconto, qualche
emozione provata nei giorni in cui il Creatore la consegnò alle pagine del
Tempo e alla curiosità dei turisti e allo stupore di quanti si sforzano di
restare fanciulli dentro. Lo scultore delle Sirenette, accarezza un sogno
ambizioso, quello di permettere alla sua città di insidiare la fama della
nordica Copenaghen che di Sirenette ne possiede solo una. Se passerai da
Taranto, non proseguire il tuo viaggio senza aver visto le sue 7 sirene .
Ricordati di portare un fiore alla sirena morente, quella che rappresenta il
distacco più doloroso da tutto ciò che si è amato nella vita. Anche quando
la vita ci ha privato dei sogni più belli, anche quando non resta nessuna
lampada accesa che ci faccia scorgere una speranza di riuscita. Un’ ultima,
risolutiva, occasione di riscatto, di rivincita, di rivivere, magari in un
altro corpo, in un’altra storia, in un’altra leggenda.
La sirenetta morente è il simbolo della speranza sconfitta, del sogno
cercato e anelato con tutte le energie vitali dell’essere,
anche quando le
energie sono ingabbiate in un corpo pietrificato dal vissuto quotidiano
opprimente e coercitivo.
Se passerai da Taranto, su un lembo di mare azzurrissimo, troverai i
pescatori amici di Jonathan, il gabbiano, che aveva a cuore la salute
psicofisica del giovani gabbiani. Quello che fu sorpreso e sconfitto, dalla
pandemia interplanetaria. Quel morbo si può chiamare anche "solitudine".
Quel morbo imbattibile e temuto che fa strage di Spiriti liberi, che anelano
l’ebbrezza del volo, che ricercano celesti traiettorie per voli che li
conducano ai confini del cielo. Quel morbo che fa scendere le quotazioni
della vita fin sotto le fondamenta della gioia.
Se passerai da Taranto, non spingere il piede sull’ acceleratore , specie se
passi sul ponte girevole, fermati a guardare il torrione merlato del
Castello Aragonese, risuonante di legioni antiche, di vita di corte, di voci
concitate che parlano un idioma sconosciuto, musicale e avito.
Se ti fermerai sull’isola di San Pietro, troverai la tomba del fenicottero
rosa, che si lasciò morire d’amore, per un amore non ricambiato, quell’amore
che ispirò versi immortali ai poeti del dolce stil novo.
Guardati attorno, con gli occhi dell’anima spalancati sull’umanità ,
potresti scorgere una bambina che cerca di svuotare il mare con la rossa
paletta della fantasia.
Porta sul capo un rosso berretto, porta nel cuore un germoglio di speranza.
La speranza di ritrovare le tracce della prima sirenetta, quella che poteva
percepire i segreti desideri degli esseri viventi, quelle creature, cioè,
che erano state dotate dal loro Creatore della Divina Capacità di Amare, con
tutto il loro cuore, con tutta la loro anima, con tutta la loro identità di
esseri viventi, icone visibili di un Dio Amore. Invisibile, ma Presente.
Vivo. Immortale.
L’Unico che non delude le Attese, che può donare la Vera gioia all’umanità.
Anna Marinelli
Note
Le Sirenette di
Taranto
Le Sirenette di Taranto sono state scolpite e installate a proprie spese
dallo scultore Francesco Trani, il quale le ha realizzate in cemento marino
onde annullare l’azione corrosiva dell’acqua marina.
La Sirena morente è stata dall’artista denominata “la Sirena
Prigioniera”
in quanto egli nel suo lungimirante sguardo di artista aveva “individuato” e
“intravisto” in uno scoglio dalle dimensioni di 5x4 metri una figura “celata
e prigioniera” nella pietra. La scultura fu eseguita “sul
posto” e realizzata in tre mesi di lavoro, a totale carico dell’artista.
La Sirena con la coda attorcigliata si chiama Sirena Vittoria .
La Sirena Lisea, è posizionata nei pressi del Castello Aragonese ed è stata
installata su un tronco, a seguito della caduta di un pino secolare.
Anna Marinelli
Foto delle Sirene
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