Una pesca a
traino che va scomparendo per mancanza di materia prima è la pesca al tonno,
che non si era fatto decimare per millenni dalle tonnare fisse, ma ha poi
dovuto cedere a quelle volanti; solo pochi pescatori,
ganzirròti o dei paraggi, ormai praticano questa pesca che è
senza dubbio la più pericolosa perché il tonno, oltre a poter superare il
peso di 300 Kg, è perfino più combattivo e tenace dello stesso pesce spada e
può raggiungere la velocità di 70 Km/h.
Dicono che un tunnu mònicu, una varietà
della famiglia, prima di cedere le armi abbia addirittura trascinato barca
ed equipaggio in un viaggio di andata e ritorno da Messina a Scilla.
Ho in mente molti ricordi di questa pesca; da bambino ne osservavo i fervidi
preparativi lungo le spiagge ed i pomeriggi di giugno e luglio erano
movimentati da decine di barche a vela che varavano
per praticare questa pesca avventurosa.
Mio padre mi faceva pisciare la barca perché si riteneva che la pipì di un
bambino innocente portasse fortuna, oppure a volte mi facevano mettere
dentro la barca un altro talismano: una lucertola viva, che noi ragazzini
eravamo specializzati a catturare con un cappio (ghiàccu)
fatto dal semplice stelo di un’erba selvatica.
Quando si sentiva una puzza particolare ed indefinibile (fetu
‘i burìdda - quasi di uovo andato a male, come la puzza
del vomito di un lattante), era un buon segno, perché
quella puzza era una caratteristica dei tonni.
(Il tonno è un vero spazzino del mare; un vecchio pescatore mi raccontava che nello stomaco di uno di essi aveva
trovato persino uno stivale. Chissà allora quanti sacchetti di spazzatura
avranno ingoiato i tonni dello Stretto!)
La pesca si effettua trainando una lunga sagola (calòma)
a cui sul finale viene legato un filo di rame o di acciaio (azzarìnu),
con all’estremità un piccolo robusto amo con esca.
Una volta l’amo era molto più grosso e vi si legava un cefalo di quasi mezzo
chilo, adesso di giorno si innesca una acciuga o una sarda, usando la
tecnica della pastura (camìu); di notte
invece si innesca, se si riesce a trovarla, una anguilla.
Quando il pesce abbocca, generalmente fa marcia indietro a tutta velocità (mpaiàta)
ed allora la sagola esce fischiando dal canestro, e chi la tiene, se non è
pronto a lasciare la presa, può rimetterci prima e seconda pelle delle mani. Questa fase è la più pericolosa perché,
se la sagola non esce bene, un giro (vota) di questa può afferrare
il pescatore trascinandoselo in mare, e siccome il tonno a volte tira verso
il fondale, il malcapitato potrebbe annegare.
Una volta questi incidenti capitavano con una certa frequenza, ed allora si
doveva prendere una decisione drastica e coraggiosa: tagliare la sagola! Se la
vota era semplice, la corda sfilava
liberando la presa, ma se si era fatto un nodo, il tonno una volta tanto
avrebbe ucciso l’uomo.
Il pesce ferito quindi tirava come un dannato verso la libertà, e quando
rallentava si iniziava il lento recupero; una seconda
mpaiàta, almeno, era consueta e si portava via la terza pelle
delle mani.
Questa fase di recupero, quando il tonno non rompeva oppure riusciva a
svincolarsi, durava anche parecchie ore ed era faticosissima. Alla fine il lottatore sfiancato e distrutto si lasciava tirare fino alla barca; qua si
usavano tre attrezzi di tortura particolari: il primo era un gancio (jànciu)
di ferro, legato ad un robusto manico di legno, che veniva conficcato nella
pancia del tonno; il secondo era un altro gancio di ferro, legato ad una
corda, che veniva conficcato in un occhio; il terzo un cappio (ghiàccu
o toccu), con il quale si legava la
coda.
Se il tonno era di dimensioni accettabili si caricava in barca e si
riprendeva la pesca, se invece era grosso si trascinava fino a riva legato
fuori bordo.
Ogni mattina le spiagge pullulavano di carretti che li trasportavano in paese lasciandosi
dietro due profonde scie sulla sabbia; un bell’esemplare veniva sventrato e
venduto agli abitanti dei villaggi.
Il mercurio ancora era solo dentro i termometri.