C’è da premettere che in
italiano si confondono le pesche,
difatti si dice pesca per indicare il frutto del pesco e si dice pesca per
indicare il modo di pescare pesci od altro. (“Vattela
a pesca” significa “chissà”,
in dialetto “attròvicci”
oppure “attruvàticci”
derivati quasi sicuramente dallo slavo.)
Se, ad esempio, si dovesse
chiedere di trovare una pesca in mezzo ad una natura morta, in italiano si
direbbe: Pesca la pesca, che suona
malissimo. In dialetto, invece, si distingue pèssica
per pesca intesa come frutto e pisca per
pesca di pesci o cose; pertanto la frase di prima si direbbe:
Pisca
a pèssica che si capisce molto meglio.
Dopo questo necessario
chiarimento si può dire che lepèssiche più
comuni dalle nostre parti sono: pèssichi
lisci, pèssichic’upilu,
pèssichiapumadòruo a tabbacchèra
(molto buone e meno comuni) e pèssichiripièni
che però sono dolci a forma di bomba e pieni di ottima crema.
Una menzione a parte va fatta per la pèssica ‘ntòvinu(pesca nel vino) che costituisce il fine pasto estivo
preferito da molti Buddàci.
Tratteremo qui solo delle
pesche ai pesci.
Ogni
essere vivente, per sopravvivere e continuare la specie, ha dovuto adeguarsi
all’ambiente che lo circonda sfruttandolo per ottenerne il nutrimento
necessario alla vita; l’uomo ha vinto su tutti gli altri animali perché ha
in testa una specie di computer che lo fa pensare (ma non sempre). Per sfruttare le immense risorse del mare egli ha inventato di tutto
e continua ancora a farlo adattandosi alle sue varie fasi evolutive: età
della pietra, età del bronzo, età del ferro ed età della plastica.
Ma la pesca ebbe origine ancora prima dell’uomo, difatti pare che, ad
esempio, la pesca di attrazione sia stata inventata da un certo
Apelle figlio del Dio
Apollo.Questi, in un noiosissimo pomeriggio,
prese un pollo e con la sua pelle fece una palla, la buttò in mare e tutti i
pesci vennero a galla per vedere la palla di pelle di pollo fatta da Apelle
figlio di Apollo. L’uomo si accorse di questa innata curiosità dei pesci e cominciò a
buttare in mare di tutto: molliche, vermi, insetti e rifiuti alimentari; fu
così che inventò la pastura o camìu.Quando poi cominciò a buttare anche gli avanzi industriali ed i
detersivi necessari alla pulizia del bucato (si
chiama ancora oggi bucato perché, fino a qualche tempo fa’, se un capo di
vestiario non era perfettamente logoro e bucato non si pensava neanche di
buttarlo),
sparirono i pesci; si fece pulizia anche nel mare.
Si pensa quasi con
nostalgia però alle vecchie tecniche di pesca nelle quali la conoscenza
delle abitudini dei pesci e l’inventiva svolgevano il ruolo più importante.
Una volta, ad esempio, la parte principale di una lenza, ossia la lenza
madre (lettu), era costituita da
funicelle di canapa intrecciata (firrazzòlu),
mentre la parte terminale dove si legano i pendagli (brazzòla)
e gli ami, veniva fatta di crine di cavallo o addirittura di seta.
Ancora oggi il terminale della lenza viene chiamato
pilatùra e la lenza in genere piluvèmmu.
Ma da dove derivano questi due strani vocaboli? Certamente da
pilu
‘i vemmu, o meglio ancora da filu ‘i vemmu, cioè filo del baco da seta, che per parecchi secoli fu
allevato intensamente in città e nei villaggi circostanti.
Di libano “lubbànu) erano fatte le corde
necessarie ai pescatori e venivano costruite artigianalmente sulle spiagge
intrecciando le foglie di una pianta spontanea di monte (ddisa),
usando un apposito attrezzo (cunòcchia)
dotato di gancio e manovella.
Queste corde servivano anche ai cocciulàri
dei Pantàni per farvi prolificare le
cozze.
L’esca migliore era il gambero quasi vivo, preso con le nasse, di cui per
esca se ne usava solo la metà; l’altra veniva sistematicamente mangiata
cruda.
Pure le nasse venivano costruite in casa da pochi esperti intrecciando
abilmente ramoscelli di ulivo (vigga) e
di giunco (jùncu); questi ultimi
provenivano da zone acquitrinose del catanese.Anche
il semplice lombrico (carasèntulu) era
un’esca abbastanza usata.
La fonte di luce
necessaria alla pesca serale o notturna era quella prodotta dalla
citulèna che era un vero e proprio
gasogeno artigianale costituito da due recipienti metallici sovrapposti ed
avvitati fra loro; in quello inferiore si metteva il carburo di calcio (cabbùru), che si
vendeva sfuso nelle botteghe; in quello superiore si metteva l’acqua che si
faceva scendere a goccioline nel recipiente sottostante attraverso uno
spillo; si produceva così l’acetilene che usciva attraverso tubicini e
beccucci e veniva poi bruciato all’esterno.
C’erano anche i lumi a petrolio (lumèri),
che però avevano l’inconveniente di produrre un fumo più nero del nero dei
totani che si andavano a pescare.
La fonte sonora per
attirare l’attenzione in mare, per scambiarsi segnali o anche per lanciare
l’S.O.S. fu costituita, per secoli, da una fantastica tromba (brogna)
ottenuta asportando la parte terminale di una grossa conchiglia, la
Caronia Nodifera o Tritone.
Gli esemplari rimasti si custodiscono gelosamente come pezzi d’antiquariato
e sono sicuro che si possono contare sulle dita di una mano coloro che
ancora riescono a farla suonare.
Oggi, nell’età della
plastica, la seta e le fibre animali e vegetali di lenze e corde sono state
sostituite dal nailon, le nasse sono diventate orribili cilindri ricoperti
di plastica, il gambero si vende nelle gioiellerie ed il lombrico è stato
sostituito dal coreano che ha fatto la fortuna dei rivenditori e le cui
scatole vuote rompono le scatole lungo il litorale ed i moli dei nostri
mari.
I lumi a gas hanno sostituito le fonti di luce e le bombolette si vanno ad
aggiungere alle scatole di esca per contribuire a rompere la monotonia delle
spiagge pulite.
Adesso si usano attrezzature ed esche sempre più costose e sofisticate e
solo pochi riescono a pareggiare il bilancio con le spese, cioè coloro che
si specializzano in pesche di un certo pregio.
Alla folta schiera di
pescatori chiamati sportivi, appartengono secondo me i sempre più numerosi
separati in casa o coloro che sono costretti a coabitare con i suoceri,
quindi coloro che preferiscono godersi la brezza marina fino all’alba, anche
se devono tornare a casa con le pive nel sacco (Che
cavolo ci fanno i pescatori con un sacco pieno di
pifferi o cornamuse non l’ha mai capito nessuno!),
con 125 grammi di pescato e 200 € lire di spese; queste persone non hanno
la febbre solo il sabato sera!
Costoro sono pure convinti di essere proprietari di intere fette di mare
dove nessuno può bagnarsi né si può permettere di passare. Essi possono pescare una notevole quantità di piccoli pesci costieri
e, con un po' di culo, anche qualche grosso pesce di passaggio; comunque
quest’esercito di dilettanti allo sbaraglio dovrebbe essere più informato
sulla fauna ittica, perché si commette un peccato mortale a pescare, ad
esempio, un pauròtto di 20 grammi, e
chi lo fa coscientemente meriterebbe almeno 20 frustate.
Una categoria di pescatori sportivi,
pericolosa per se e per gli altri, è quella dei sub dilettanti che
istintivamente tentano di uccidere qualsiasi cosa si muova nel loro raggio
d’azione con l’uso delle armi più disparate: fucili a molla, ad elastici, ad
aria compressa, archi, frecce, lupare e fiocine.
Una volta sott’acqua mi sono visto passare davanti persino un ragazzino
armato di baionetta!
Più pericolosa ancora è
quella dei sub professionisti senza scrupoli, spesso provenienti da altre
città, che come pirati fanno razzie incontrollate di ricci e molluschi, poco
commerciabili da noi.
Di un solo tipo di pesca
non si può avere assolutamente nostalgia, perché oltretutto non era neanche
una pesca, ma un immane sconcio che per grazia di Dio pare sia finito; si
tratta della pesca con le bombe che per più di un ventennio ha flagellato i
nostri mari.
Il dopoguerra aveva lasciato il suolo disseminato di ordigni spesso
inesplosi e la convinzione, in alcuni, di essere esperti artificieri;
qualcuno saltava per aria, ma purtroppo saltava anche qualche bambino
desideroso di conoscere “giocattoli” nuovi. La materia prima quindi non mancava, altra ne veniva dall’edilizia,
poiché con la dinamite si facevano saltare intere montagne o si costruivano
gallerie ed autostrade.
Di padre in figlio i “bummaròli” si tramandavano la schifosa arte di
costruire micidiali ordigni che buttati in mare spezzavano la schiena ai
pesci, distruggendo qualsiasi altra forma di vita.