Uno dei desideri nascosti
del subconscio umano è sempre stato quello di potersi librare in aria come un
gabbiano, con le proprie forze, per poter solcare il cielo lasciandosi
trascinare Libero in quel
Blu dipinto di blu.
Nessuno c’è mai riuscito completamente, qualcuno
si è bruciato le ali, qualcun altro, come me, si accontenta di sognarlo di tanto
in tanto, molti altri ancora sono riusciti a diventare soltanto
teste di uccello. Chissà
perché col tempo l’uccello è diventato un simbolo fallico, forse perché ama
posarsi di nido in nido, bagnandosi il becco ogni tanto con la speranza di
restare libero senza vincoli né gabbie.
Anche il Buddàci,
animale prettamente marino, non ha mai disdegnato la caccia; quando il mare non
gli permetteva di fare il pescatore, lui per hobby, o (sfìzziu),
faceva il cacciatore.
Quando fu inventato il proverbio
L’uomo è cacciatore, si cominciò a cacciare di tutto: dalla
selvaggina agli uccelli, dalle lattughe alla frutta, alla passera degli altri;
qualcuno era contento se riusciva a pro-cacciarsi un tozzo di pane, altri
cacciavano le mosche.
La cacciagione era abbondante e varia, figuratevi
che in città sono state trovate corna di cervo preistorico, difficilmente morto
di morte naturale.
Per gli appassionati poi, il posto costituiva una
specie di oasi per tutti i tipi di uccelli, dai migratori (rondini, quaglie,
cicogne, aironi), a quelli di stanza (pettirossi, cardellini, fino alla piccola
capinera, pittorescamente chiamata cacasipàla).
C’erano uccellacci e
uccellini, c’era il piccione o
uccello della pace e c’era perfino l’uccello
del malaugurio, ma quello che senza dubbio è assurto a simbolo di
eleganza e libertà è il gabbiano.
Si tratta di uno dei volatili sopravvissuti, anche
perché le sue carni non sono buone da mangiare.Nessuno
può fare a meno di rimanere estasiato dalla grazia del suo volo planato.
In dialetto viene chiamato col vocabolo
vocamarìna composto da due parole: voca
(derivato da vucàri,
ossia remare), e
marìna, cioè spiaggia.
Poeticamente quindi si immagina il gabbiano come
un uccello che rema nell’aria, sulle spiagge.Anche in
italiano gabbiano è composto da due parole:
gabbia e no e visto che si tratta di un navigatore di spazi
azzurri, amante della libertà, si potrebbe chiamare ancora meglio: gabbia mai.
Tenere gli uccelli in gabbia equivale a
condannarli all’ergastolo, e molti di coloro che lo fanno sono convinti di
essersi affezionati fino al punto di amarli.
Certo è bello svegliarsi al loro melodioso
cinguettio, ma è ancora più bello sentirli cantare, allegri e liberi, da un
albero pieno di nidi risparmiato all’avanzata inesorabile di catrame e cemento.
Quando non c’erano ancora i video-games, anche noi
ragazzacci di ciumàra abbiamo contribuito a
distruggere un po’ di fauna.
Mi ricordo che in primavera davamo una caccia
spietata alle rondini, nonostante fosse vietata.
I più esperti paràvano
delle reti sulla spiaggia e quando a volo radente, sempre da sud verso nord,
arrivava a velocità impressionante una rondine, si doveva
ncoppulàri la rete con un tempismo eccezionale; una rondine viva,
legata ad una zampetta, si usava come richiamo.
Altri, come me, cacciavano le rondini in un modo
quasi barbaro, ma che richiedeva dei riflessi, o un culo, eccezionali.Ci si appostava dietro una siepe
(sipàla), con in mano una lunga canna con la quale si doveva
colpire al volo la rondine che arrivava come un proiettile.Per ottenere lo scopo bisognava calcolare perfettamente traiettoria e
velocità di canna e rondine; su 1000 colpi ne uccidevi una, oppure aspettavi per
altri 1000.
Un’altra caccia spietata veniva fatta da
professionisti disoccupati privi della fantasia necessaria per inventarsi un
altro lavoro.Era la
caccia con le reti a piccoli uccelletti, generalmente
cardellini, ma si prendevano pure rapparèddi,muschìtti, ziìni.
In primavera ed in autunno si usavano di norma due
reti affiancate che, azionate da un nascondiglio, si ripiegavano di poco l’una
sull’altra.
In estate, vicino a piccoli corsi d’acqua, si usava invece
un’unica rete raccolta
(“ricòta”).
Entrambi i tipi venivano azionati da un ingegnoso
sistema di picchetti e tiranti di cordicelle.La
postazione delle reti veniva prima pulita e poi mimetizzata con erbe e perfino
fiori; come attrazione (molte
signore usano ancora oggi come attrazione la passera o il
piccione) si
usavano due cavie: il cosiddetto caddiddu ‘i
vigga, più fortunato ed il caddiddu
‘irigghiàmu che non aveva idea di cosa fosse il culo. Al primo, che poi era quasi sempre una femmina, veniva fatta una specie
di imbracatura con uno spago sottile fra collo e petto, quindi lo si legava ad
un ramoscello (vigga), che a sua volta
veniva mosso, di tanto in tanto, tramite un’altra cordicella; l’uccellino allora
era costretto a svolazzare mettendosi in mostra, suo malgrado, per richiamare
l’attenzione dei suoi simili.Da questo fatto uscì fuori
il detto: Si paràu com’on caddiddu ‘i vigga!
La seconda cavia era lo sfortunato cardellino di
richiamo, maschio o bastardo, poiché la femmina non canta, che tenuto in gabbia
doveva attrarre gli altri col suo cinguettio.Per
ottenere questo scopo, i professionisti
detti prima si erano accorti che bastava accecarlo con un ferro rovente posto
vicino agli occhi, come si faceva fino a non molto tempo fa, oppure lasciarlo al
buio per 15 giorni dentro una cassapanca (càscia).Così facendo il povero animaletto perdeva l’orientamento, scambiava le
stagioni e cantava divinamente come se fosse sempre primavera, la stagione degli
amori.
Spero tanto che queste pratiche siano finite e che
quei disoccupati abbiano trovato un impiego
a tempo pieno che non lasci loro il tempo libero per occuparsi di questa
passione(la vera
passione era quella dei
cardellini di richiamo).
Un altro tipo di caccia, che spero non si pratichi
più, è quella ai piccoli pettirossi (pittìrri),
che si faceva usando una strana gabbia, bassa e lunga, chiamata
passijatùri”, dentro la quale un pettirosso
poteva passeggiare; sulla gabbia si metteva qualche ramoscello cosparso di
vischio.
Il pettirosso, che è un uccello abituato a
difendere il suo territorio, tentava di scacciare l’intruso rimanendo
incollato ai ramoscelli senza più possibilità di sfuggire al suo ingordo
cacciatore.Esisteva anche un tipo di gabbia
(jàggia scuzzunàra), a bacchette più
strette, che serviva ad evitare che le serpi potessero divorare gli sfortunati
richiami.Non servivano certo ad evitare il terrore a
chi, sapendo di possedere le ali, non poteva fuggire!
Altre trappole ingegnose erano il
trabbùccu e quelle fatte con
cciàppi ‘i ficarazzàra, vale a dire con
elementi del fusto della pianta del ficodindia.
La prima trappola era una gabbia col coperchio
incernierato, tenuto aperto da un’astina; accanto si metteva una gabbia con
richiamo.
Con la seconda si inclinava su una fossetta la
cciàppa appena trattenuta da un pezzetto di
canna con un verme infilzato; l’uccello per mangiare il verme doveva spostare la
canna.
Quando poi presero piede le armi da fuoco, tutti
cominciarono a sparare come dannati; si sparava a conigli, ad uccelli, persino
ai pesci; un mio avo sparava addirittura al mare quando era minaccioso.
C’era poi chi si sparava un attrezzo da falegname,
chi sparàvaa
scuola(marinava), chi si sparava
la ghiàppara, chi l’eleganza,
chi si sparava nelle caviglie per morire ballando,
chi sparava enormi cazzate come me, chi fesserie; insomma: comunque e dovunque
si sparava.
Sparando sparando andarono sparendo gli uccelli,
perché il piombo non sparisce mai.
La fine dell’uccello fu poi in pratica decretata
dai pesticidi che ci permettono di trovare in tavola frutta esteticamente
perfetta e senza gusto, ma avvelenano inesorabilmente gli insetti di cui gli
uccelli si nutrono, avvelenandosi a loro volta.
Devo purtroppo ammettere, assieme a tante signore
che se ne intendono, che ormaiNon ci sono più gli uccelli di una volta!
Meno male che adesso esistono delle Leghe
pacifiche che si occupano del tema, la più specifica è la
L.I.P.U. (Lega Italiana per la Protezione dell’Uccello), le cui
presidentesse si fanno in quattro per non prendere la cosa sottogamba, anzi il
più delle volte cercano di prenderla di petto.