www.colapisci.it  L'uomo che diventa pesce per necessità o per scelta 


Uccelli siciliani

 

Uno dei desideri nascosti del subconscio umano è sempre stato quello di potersi librare in aria come un gabbiano, con le proprie forze, per poter solcare il cielo lasciandosi trascinare Libero in quel Blu dipinto di blu.

Nessuno c’è mai riuscito completamente, qualcuno si è bruciato le ali, qualcun altro, come me, si accontenta di sognarlo di tanto in tanto, molti altri ancora sono riusciti a diventare soltanto teste di uccello. Chissà perché col tempo l’uccello è diventato un simbolo fallico, forse perché ama posarsi di nido in nido, bagnandosi il becco ogni tanto con la speranza di restare libero senza vincoli né gabbie.

Anche il Buddàci, animale prettamente marino, non ha mai disdegnato la caccia; quando il mare non gli permetteva di fare il pescatore, lui per hobby, o (sfìzziu), faceva il cacciatore.

Quando fu inventato il proverbio L’uomo è cacciatore, si cominciò a cacciare di tutto: dalla selvaggina agli uccelli, dalle lattughe alla frutta, alla passera degli altri; qualcuno era contento se riusciva a pro-cacciarsi un tozzo di pane, altri cacciavano le mosche.

La cacciagione era abbondante e varia, figuratevi che in città sono state trovate corna di cervo preistorico, difficilmente morto di morte naturale.

Per gli appassionati poi, il posto costituiva una specie di oasi per tutti i tipi di uccelli, dai migratori (rondini, quaglie, cicogne, aironi), a quelli di stanza (pettirossi, cardellini, fino alla piccola capinera, pittorescamente chiamata cacasipàla).

 

 

C’erano uccellacci e uccellini, c’era il piccione o uccello della pace e c’era perfino l’uccello del malaugurio, ma quello che senza dubbio è assurto a simbolo di eleganza e libertà è il gabbiano.

 

 

Si tratta di uno dei volatili sopravvissuti, anche perché le sue carni non sono buone da mangiare. Nessuno può fare a meno di rimanere estasiato dalla grazia del suo volo planato. In dialetto viene chiamato col vocabolo vocamarìna composto da due parole: voca (derivato da vucàri, ossia remare), e marìna, cioè spiaggia.

Poeticamente quindi si immagina il gabbiano come un uccello che rema nell’aria, sulle spiagge. Anche in italiano gabbiano è composto da due parole: gabbia e no e visto che si tratta di un navigatore di spazi azzurri, amante della libertà, si potrebbe chiamare ancora meglio: gabbia mai.

Tenere gli uccelli in gabbia equivale a condannarli all’ergastolo, e molti di coloro che lo fanno sono convinti di essersi affezionati fino al punto di amarli.

Certo è bello svegliarsi al loro melodioso cinguettio, ma è ancora più bello sentirli cantare, allegri e liberi, da un albero pieno di nidi risparmiato all’avanzata inesorabile di catrame e cemento. 

 

 

Quando non c’erano ancora i video-games, anche noi ragazzacci di ciumàra abbiamo contribuito a distruggere un po’ di fauna.

Mi ricordo che in primavera davamo una caccia spietata alle rondini, nonostante fosse vietata.

I più esperti paràvano delle reti sulla spiaggia e quando a volo radente, sempre da sud verso nord, arrivava a velocità impressionante una rondine, si doveva ncoppulàri la rete con un tempismo eccezionale; una rondine viva, legata ad una zampetta, si usava come richiamo.

Altri, come me, cacciavano le rondini in un modo quasi barbaro, ma che richiedeva dei riflessi, o un culo, eccezionali. Ci si appostava dietro una siepe (sipàla), con in mano una lunga canna con la quale si doveva colpire al volo la rondine che arrivava come un proiettile. Per ottenere lo scopo bisognava calcolare perfettamente traiettoria e velocità di canna e rondine; su 1000 colpi ne uccidevi una, oppure aspettavi per altri 1000.

 

 

Un’altra caccia spietata veniva fatta da professionisti disoccupati privi della fantasia necessaria per inventarsi un altro lavoro. Era la caccia con le reti a piccoli uccelletti, generalmente cardellini, ma si prendevano pure rapparèddi, muschìtti, ziìni.

In primavera ed in autunno si usavano di norma due reti affiancate che, azionate da un nascondiglio, si ripiegavano di poco l’una sull’altra.

In estate, vicino a piccoli corsi d’acqua, si usava invece un’unica rete raccolta (“ricòta”).

Entrambi i tipi venivano azionati da un ingegnoso sistema di picchetti e tiranti di cordicelle. La postazione delle reti veniva prima pulita e poi mimetizzata con erbe e perfino fiori; come attrazione (molte signore usano ancora oggi come attrazione la passera o il piccione) si usavano due cavie: il cosiddetto caddiddu ‘i vigga, più fortunato ed il caddiddu ‘i rigghiàmu che non aveva idea di cosa fosse il culo. 
Al primo, che poi era quasi sempre una femmina, veniva fatta una specie di imbracatura con uno spago sottile fra collo e petto, quindi lo si legava ad un ramoscello (vigga), che a sua volta veniva mosso, di tanto in tanto, tramite un’altra cordicella; l’uccellino allora era costretto a svolazzare mettendosi in mostra, suo malgrado, per richiamare l’attenzione dei suoi simili. Da questo fatto uscì fuori il detto: Si paràu com’on caddiddu ‘i vigga!

La seconda cavia era lo sfortunato cardellino di richiamo, maschio o bastardo, poiché la femmina non canta, che tenuto in gabbia doveva attrarre gli altri col suo cinguettio. Per ottenere questo scopo, i professionisti detti prima si erano accorti che bastava accecarlo con un ferro rovente posto vicino agli occhi, come si faceva fino a non molto tempo fa, oppure lasciarlo al buio per 15 giorni dentro una cassapanca (càscia). Così facendo il povero animaletto perdeva l’orientamento, scambiava le stagioni e cantava divinamente come se fosse sempre primavera, la stagione degli amori.

Spero tanto che queste pratiche siano finite e che quei disoccupati abbiano trovato un impiego a tempo pieno che non lasci loro il tempo libero per occuparsi di questa passione (la vera passione era quella dei cardellini di richiamo).

Un altro tipo di caccia, che spero non si pratichi più, è quella ai piccoli pettirossi (pittìrri), che si faceva usando una strana gabbia, bassa e lunga, chiamata passijatùri”, dentro la quale un pettirosso poteva passeggiare; sulla gabbia si metteva qualche ramoscello cosparso di vischio.

Il pettirosso, che è un uccello abituato a difendere il suo territorio, tentava di scacciare l’intruso   rimanendo incollato ai ramoscelli senza più possibilità di sfuggire al suo ingordo cacciatore. Esisteva anche un tipo di gabbia (jàggia scuzzunàra), a bacchette più strette, che serviva ad evitare che le serpi potessero divorare gli sfortunati richiami. Non servivano certo ad evitare il terrore a chi, sapendo di possedere le ali, non poteva fuggire!

Altre trappole ingegnose erano il trabbùccu e quelle fatte con cciàppi ‘i ficarazzàra, vale a dire con elementi del fusto della pianta del ficodindia.

La prima trappola era una gabbia col coperchio incernierato, tenuto aperto da un’astina; accanto si metteva una gabbia con richiamo.

Con la seconda si inclinava su una fossetta la cciàppa appena trattenuta da un pezzetto di canna con un verme infilzato; l’uccello per mangiare il verme doveva spostare la canna.

 

 

Quando poi presero piede le armi da fuoco, tutti cominciarono a sparare come dannati; si sparava a conigli, ad uccelli, persino ai pesci; un mio avo sparava addirittura al mare quando era minaccioso.

C’era poi chi si sparava un attrezzo da falegname, chi sparàva a scuola (marinava), chi si sparava la ghiàppara, chi l’eleganza, chi si sparava nelle caviglie per morire ballando, chi sparava enormi cazzate come me, chi fesserie; insomma: comunque e dovunque si sparava.

Sparando sparando andarono sparendo gli uccelli, perché il piombo non sparisce mai.

La fine dell’uccello fu poi in pratica decretata dai pesticidi che ci permettono di trovare in tavola frutta esteticamente perfetta e senza gusto, ma avvelenano inesorabilmente gli insetti di cui gli uccelli si nutrono, avvelenandosi a loro volta.

Devo purtroppo ammettere, assieme a tante signore che se ne intendono, che ormai  Non ci sono più gli uccelli di una volta!

Meno male che adesso esistono delle Leghe pacifiche che si occupano del tema, la più specifica è la L.I.P.U. (Lega Italiana per la Protezione dell’Uccello), le cui presidentesse si fanno in quattro per non prendere la cosa sottogamba, anzi il più delle volte cercano di prenderla di petto.

 

 

Uccio, 'u galatotu

   

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