Jtírisperiti neapolitani,
Geialium Dierum
Libro II .Cap. XXI
Miraculum de homine qui plus in mari quam in terris degebat
maximaque
oequora velocissime tranabat
[...]
Quod cum vix credibile videretur, eadem pluribus
ad spectaculum effusus, quo res testatior esset promptissìmum fui periculum
fecisse, et cum in Enaria se precipite in mare dedisset, Lembum post frequentem
longius ipsum nantem observasse: donec terrae appulsus, ad Prochydam incolumis
elapsus est. Sed super omnia quae post hominum memoriam, unquam
audita quaeque ab authoribus prodita sunt, quod à Ioviano Pontano relatum
audivimus, dictu mirabile et supra omne miraculum fuit: si quidem patrum
nostrorum memoria.
Catanae homo fuisse traditur, cui nomen
Colan inditum ferunt, cognomento piscis, singulari fato seu
fortuna genitus, qui plus in aquis degere quam in terris victitare solebat, eumque
diebus singulis mare & aquas petere necessum habuisse. Ibique naturae vi
& necessita te coactum diutius degere consuesse, alioqui dicebat fore, ut si ab
aquis abesset diu, quasi respirare & ducere vitam nequiret, idque sui exitij
mox causam fore asseveraret.
Quod illi quo fato, aut sidere evenerit, in ambiguo
plerique omnes reliquère, eumque tantum nando profecisse, ut haud secus quam
marina belua, maxima pelagi intervalla, spaciaque immensa CCCCC et ultra
stadiorum, foeda tempestate & reluctantibus aquis, eccellenti vi et velocitate,
natatu peragraret.
Notumque et illud est dictu
mirabile, cum medio cursu naves
plenis velis per aequora ferrentur, violentissimis interdum tempestatibus, per
vastum et apertum mare, interque agitationes fluctuum et turbines, huic natanti
obviam fuisse: ipsumque nantem ab undis nautas suis nominibus advocare solitum.
Et quia omnibus notus erat, nautas subitae rei miraculo percitos, laetissimis
animis illum in navi excipientes, unde veniret, quo ve iter intenderet, et
quantum pelagi nando emersus foret, quantasque tempestates tulerit, sciscitari
consuesse; ipsumque Colan singulis omnia significasse: mox cum sociis in navi
pransum,
aut potum, postquam acquievisset, mandata ad suos, quid illis dici, referrique
vellent, et quid faciundum arbitrarentur, a singulis accepisse: nudumque ut erat,
e navi medio iam pelago cursum tenente, se praecipitem in mare dedisse.
Mox Caietam, modo in Salentina, Brutia et Lucana litora, modo in Siculos fines
et
natale solum, ad quod frequens ventitabat, incolumem nando pervenisse: mandata quae
à nautis acceperet, singulis necessariis et affinibus significasse.
Idque non semel
facere consuesse. Donec festo annuo solennique die in Siculo freto effusa
multitudine ad spectaculum, in portu Messanae, ut aiunt, experiri credo
volens, quantum
prae caeteris urinando valeret: dum pateram auream, munus nata tibus tunc à Rege in
mare deiectam ab imo eripere conatur, cum se in mare mersisset, dum illius studio
profunda exquirit vada, diu expesta tus, ab imo maris fundo, in quod se
deiecerat,
numquam emersit, neque postea inventus apparuit.
Creditur in concavas illius pelagi cavernas, quibus totus
ille sinus reifertus est, incidisse: ipsumque in imas voragines vorticibus
rapidis semel delapsum, cum se recipere vellet, e ad superiora niti, reverti
nequisse; cumque diutius reluctatus respirare nequiret, inter occursantes
scopulos undique inunlantibus aquis oppressum, vitam interisse .
[...]
Alexandri ab
Alexandro
Sec.XVI
Stava
più in mare che sulla terra
Colapesce - G. Potente - 2008
[...]
Si dice che a Catania ci fosse un uomo a cui, dicono, fu dato il nome Cola e per
soprannome Pesce, generato da un singolare destino o fortuna, che soleva stare
più nelle acque che vivere sulla terra e che aveva bisogno di cercare le acque
ogni giorno. E lì, spinto dalla forza della natura e dalla necessità, era solito
vivere sempre più a lungo, del resto diceva che se fosse mancato a lungo
dall’acqua non avrebbe potuto respirare e vivere, e ciò, affermava, sarebbe
stata la causa della sua morte.
E che gli fosse capitato ciò per destino o per
volere delle stelle, molti rimasero nel dubbio che lui camminasse solo nuotando,
e che, non diversamente da una bestia marina, egli percorresse, con
straordinaria forza e velocità, grandissime tratte di mare, spazi immensi oltre
cinquecento stadi, nonostante le terribili tempeste e le correnti avverse.
È cosa nota e straordinaria a dirsi, che mentre le navi,
nel mezzo del loro viaggio, venivano a volte sballottate tra le onde, con le
vele gonfie di vento, da violentissime tempeste, lui andava incontro a queste
imbarcazioni per il vasto ed aperto mare, e fra i flutti agitati e i turbini,
lui stesso era solito, mentre nuotava, chiamare dalle onde i marinai con i loro
nomi.
E poiché era noto a tutti, capitava che i marinai, colpiti
dall’avvenimento prodigioso e da quell’avvenimento inaspettato, chiedessero,
accogliendolo sulla nave con gli animi molto lieti, da dove venisse, dove
andasse e quanto mare avesse percorso nuotando e quante tempeste avesse
affrontato; e si dice che lo stesso Cola spiegasse ai singoli ogni cosa; poi
dopo aver pranzato con i compagni sulla nave ed aver bevuto, dopo che si era
riposato, raccoglieva da ognuno i messaggi per i loro familiari, (cosa volessero
fosse detto e riferito a quelli e che cosa ritenessero si dovesse fare), nudo
com’era, si gettava dalla nave che teneva la sua rotta in mezzo al mare.
Poi quando era giunto sano e salvo, nuotando, a Gaeta, o
sulle spiagge del Salento, del Bruzio o della Lucania, o sulle coste siciliane,
suo luogo natale, da dove, frequentemente andava e veniva, assolveva presso i
parenti e singoli amici agli incarichi che aveva avuto dai marinai.
E ciò era solito fare non una sola volta. Finché, come dicono, durante l’annuale festa
solenne che si celebrava sullo stretto di Messina, dinanzi ad una grande folla
radunata lì per lo spettacolo, volendo, credo sperimentare quanto valesse su
tutti gli altri nel nuotare sott’acqua, mentre cerca di strappare dal fondo del
mare una coppa d’oro, dono per nuotatori, gettata in mare dal re, essendosi
immenso in mare, mentre esplorava, per amore del re, i profondi recessi, a lungo
atteso, non emerse mai dal fondo del mare, dove si era immerso, né risulta sia
stato trovato dopo.
Si crede che sia caduto nelle caverne vuote di quel mare, in cui fu
trascinato dalle correnti: e una volta precipitato nelle più profonde
voragini a causa dei veloci vortici, non riuscì più a risalire verso
la superficie; e quando non poté più respirare, nonostante avesse lottato,
fu sbattuto sulle rocce dalle correnti impetuose perdendo, così, la
vita.
Alexandro de Alexandro
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