Teatro crítico universal
Discursos varios en todo género de materias,
para desengaño de errores comunes:
Tomo sesto
Discorso Ottavo
Examen filosófico de un peregrino suceso de estos tiempos
§. I
1. Il caso che dà origine a questo
discorso è così strano, così esorbitante dall'ordine regolare delle cose, che
non oserei portarlo alla luce in questo Teatro, e costituirmi garante della sua
verità, se non lo trovassi attestato da quasi tutti gli abitanti di una
Provincia, di cui molti, testimoni oculari e degni di ogni fede, sono ancora in
vita.
Alcuni anni fa si diffuse in varie parti della Spagna la notizia che un giovane,
nativo delle montagne di Burgos, si era gettato in mare e vi aveva vissuto a
lungo, come un pesce tra i pesci; e confesso che allora non gli diedi ragione,
cosa di cui non mi pento, perché sarebbe una leggerezza credere a un evento così
strano, senza un fondamento maggiore di una voce passeggera.
Si aggiunse che ciò era stato l'effetto di una maledizione lanciata dalla madre
al suddetto giovane; ma questa circostanza fu falsamente sovrapposta alla verità
dell'evento, come vedremo in seguito.
2.Disdegnata, quindi, come una delle tante
bufale volgari, questa notizia rimase per me, fino a quando, circa tre mesi fa,
un amico della mia più grande venerazione e affetto, mi spinse a pubblicarla nei
miei Scritti, come degna della curiosità e dell'ammirazione del pubblico;
assicurandomi allo stesso tempo in qualche modo della realtà di essa, come uno
che l'aveva avuta da due soggetti, che avevano conosciuto e trattato il suddetto
giovane, dopo che era tornato dal mare alla sua terra.
Ma allo stesso tempo mi avvertì che, essendo io vicino al paese da cui
proveniva, avrei dovuto chiedere informazioni più dettagliate di quelle che lui
poteva darmi: Per questo, la mia prima diligenza fu quella di informarmi presso
alcuni illustri montanari, residenti in questa città, che dichiararono
unanimemente la verità del fatto, come di indubbia notorietà nel loro Paese; ma
per quanto riguarda le circostanze, che per la maggior parte ignoravano, mi
proposero di informarmi presso persone di loro conoscenza e soddisfazione,
nativi dello stesso territorio, che era stato la patria del soggetto di questa
Storia. In effetti lo fecero, e in pochi giorni ottenni una descrizione molto
completa dell'evento, inviata dal Marchese di Valbuena, residente nella città di
Santander, alla diligenza di Don José de la Torre, degnissimo Ministro di Sua
Maestà presso la Corte Reale delle Asturie, che è la seguente, copiata alla
lettera.
3. "Nel luogo di Liérganes, della Junta de
Cudeyo, Arcivescovado di Burgos, a due leghe dalla città di Santander a sud-est,
vivevano Francisco de la Vega e sua moglie María del Casar, abitanti del
suddetto luogo, che ebbero quattro figli dal loro matrimonio, di nome Don Tomás
(che era sacerdote), Francisco, José e Juan, che è ancora vivo, all'età di
settantaquattro anni.
4. Rimasta vedova María del Casar, mandò il suddetto figlio Francisco nella
città di Bilbao per imparare il mestiere di falegname, all'età di quindici anni,
nel cui esercizio trascorse due anni, finché nel 1674, essendo andato a fare il
bagno alla vigilia di San Juan con altri giovani nell'estuario della suddetta
città, questi ultimi osservarono che andava a nuotare con altri giovani
nell'estuario della suddetta città, Essi osservarono che scendeva a nuoto,
lasciando i suoi vestiti con quelli dei suoi compagni, e credendo che sarebbe
tornato, lo aspettarono, finché il suo ritardo li portò a credere che fosse
annegato, e così lo dissero al Maestro, e lui lo disse a sua madre María del
Casar, che pianse per la morte di suo figlio Francisco.
5. Nell'anno 1679, ai pescatori del mare
di Cadice apparve la figura di una persona razionale che nuotava sulle acque e
vi si immergeva a piacimento, e volendo avvicinarsi a lui, scomparve il primo
giorno; ma essendo stati visti dai detti pescatori il giorno seguente, e
sperimentando la stessa figura e la stessa fuga, tornarono a terra, raccontando
la notizia, che essendo stata divulgata, aumentò il loro desiderio di sapere
cosa fosse, e si affaticarono nei loro discorsi per trovare i mezzi per
ottenerlo; e avendo fatto uso di reti per circondare finalmente la figura che
appariva loro, e avendo gettato dei pezzi di pane nell'acqua, osservarono che
egli li prese e mangiò, e che seguendoli si avvicinò a una delle navi, che con
lo stretto giro di reti riuscirono a prenderlo e a portarlo a terra; dove, dopo
aver contemplato costui, che era considerato un mostro, lo trovarono essere un
uomo razionale nella sua formazione e nelle sue parti; ma parlandogli in diverse
lingue, in nessuna, e a nulla rispondeva, sebbene lo avessero evocato, nel caso
fosse posseduto da qualche spirito maligno, nel convento di San Francisco dove
si era fermato; ma nulla fu sufficiente per allora, e da lì a qualche giorno
pronunciò la parola Liérganes; il che, sconosciuto ai più, fu spiegato da un
giovane del detto luogo, che lavorava nella suddetta città di Cadice, dicendo
che era il suo luogo, che si trovava nella sopra menzionata parte; e Don Domingo
de la Cantolla, Segretario della Suprema Inquisizione, era dello stesso luogo;
con la quale notizia un suddito, che lo conosceva, gli scrisse il caso; e Don
Domingo informò i suoi parenti di Liérganes, nel caso in cui fosse successa
qualche novità lì, che avrebbe dovuto stringere la mano a quello di Cadice.
Gli risposero che non c'era altro che il figlio di María del Casar, vedova di
Francisco de la Vega, anch'egli chiamato Francisco come il padre, era scomparso
nell'estuario di Bilbao; ma che da anni era considerato morto. Tutto questo Don
Domingo lo riferì al suo corrispondente a Cadice, che lo rese noto nel già
citato Convento di San Francisco, dove alloggiava.
6. C'era in quel tempo nel Convento di San Francisco un
Religioso di detto Ordine, chiamato Fra Juan Rosende, che era venuto a quel
tempo da Gerusalemme, e girava per la Spagna chiedendo elemosine per quei Luoghi
Santi; e avendo sentito parlare della parte in cui stava Liérganes, e avendo
preso confidenza con il giovane, che era apparso nel mare, e chiedendosi se
forse fosse di Liérganes, secondo il racconto di Cantolla, decise di portarlo
con sé nella sua postulato: Che, dopo averlo terminato verso la costa di
Santander, si recò nella suddetta località di Liérganes nell'anno 1680; e giunto
alla montagna, che chiamano La Dehesa, a un quarto di lega dalla suddetta città,
disse al giovane di fargli strada, il quale lo fece puntualmente, e andò dritto
alla casa della suddetta María del Casar; la quale, appena lo vide, lo riconobbe
e lo abbracciò, dicendo: Questo è mio figlio Francisco, che ho perso a Bilbao,
e i fratelli Sacerdoti e laici, che erano lì, lo accolsero con grande gioia; ma
il suddetto Francisco non fece nulla di nuovo, né dimostrò altro come se fosse
un pezzo di legno.
7. Juan Rosende lasciò questo giovane a casa di sua madre, dove rimase nove anni con un'intelligenza disturbata, tanto
che nulla lo muoveva, né parlava tranne qualche volta di tabacco, pane, vino, ma
senza senso. Se gli chiedevano se voleva qualcosa, non rispondeva nulla; ma se
gliela davano, la prendeva, e mangiava con eccesso per alcuni giorni, ma poi
passavano altri giorni senza mangiare.
8. Se qualcuno gli ordinava di portare qualche carta da un luogo all'altro, di
cui era a conoscenza prima di partire, lo faceva con grande puntualità, dandola
alla persona a cui era stato ordinato; e portava la risposta, se gli veniva
data, con cura; così che sembra che capisse quello che gli veniva detto; ma lui,
spontaneamente, non prendeva alcuna iniziativa.
9. In un'occasione, tra le altre, che il suo suddito di Liérganes lo mandò a
Santander con un foglio per un altro, essendo necessario passare l'estuario,
largo più di una lega, e a tal fine imbarcarsi nel luogo di Pedreña, non
trovando lì una barca, si gettò in acqua e uscì sul molo di Santander, dove
molti lo videro bagnato, e la carta che portava in tasca la consegnò prontamente
al suddito a cui era indirizzata; chiedendogli come si fosse bagnato, non
rispose nulla e riportò la risposta a Liérganes con la sua abituale puntualità.
10. Era alto un metro e ottanta, poco più
o poco meno; era di corpulenza adeguata e ben formato; i capelli erano
rossi, corti, come se stessero iniziando a crescere; il colorito era bianco; le
unghie erano consumate, come se fossero state mangiate dal salnitro. Era sempre
scalzo. Se gli venivano dati dei vestiti, li indossava; se no, stava attento a
camminare nudo, come a piedi nudi.
11. Se gli davano del cibo, lo prendeva e mangiava qualsiasi cosa; se non glielo
davano, non lo chiedeva nemmeno; sicché sembrava una cosa inanimata nel pensare,
animata nell'obbedire e muta nel parlare, tranne che per le parole sopra
espresse, che forse pronunciava, ma senza scopo o concerto; cosa che vi posso
assicurare, avendolo conosciuto.
12. Da ragazzo aveva una grande inclinazione a pescare e a stare nel fiume che
passa per il detto luogo di Liérganes, ed era un grande nuotatore. A quell'età
aveva poteri regolari.
13. Tutto ciò che viene riferito è la verità del fatto, secondo il racconto dei
suoi fratelli, del sacerdote don Tomás e di Juan, che è vivo; e tutto ciò che si
discosta da questo fatto è falso, come il fatto che si dice che avesse le squame
sul corpo e che questo prodigio derivasse da una maledizione che gli aveva fatto
la madre.
14. In questa disposizione il detto giovane Francisco de la Vega rimase in casa
di sua madre e in questo paese per nove anni, un po' più o un po' meno, e poi
scomparve, e di lui non si è saputo più nulla; anche se si dice che poco dopo un
uomo del quartiere di Liérganes lo vide in un porto delle Asturie; ma questo è
infondato".»
§. II
15. Fin qui la relazione inviata dal
Marchese di Valbuena, che poco dopo è stata confermata nella sua interezza da
Don Gaspar Melchor de la Riba Aguero, Cavaliere dell'Abito di Santiago,
residente nel luogo di Gajano, a circa mezza lega da Liérganes, in risposta a
suo genero Don Diego Antonio de la Gándara Velarde, residente in questa città,
che mi ha fatto anche il favore di chiedere la relazione di quel Cavaliere, il
quale nella sua lettera mi fa segno di aver avuto talvolta in casa sua il
soggetto di questa storia e di avergli dato da mangiare.
Questo mi è stato confermato da un altro gentiluomo chiamato Don Pedro Dionisio
de Rubalcaba, nativo del luogo di Solares, vicino a Liérganes, che ha anche
trattato il nostro nuotatore con grande cura; e a lui, per quanto riguarda la
circostanza delle squame, devo l'identificazione che quando arrivò a Liérganes,
ne aveva alcune sulla spina dorsale, e altre come un nastro dal Pomo d'Adamo
allo stomaco; ma dopo un po' caddero.
Don Gaspar de la Riba dice nella sua Relación che in alcune parti del corpo la
sua pelle era ruvida come carta vetrata. Con queste due ultime avvertenze si
concilia l'apparente contraddizione delle notizie sulle squame. Chi lo vide al
suo arrivo a Santander poté affermare con verità che le aveva, perché in effetti
le aveva allora; e anche chi lo vide dopo affermò con verità che non le aveva,
perché erano già cadute. Alcuni avrebbero anche scambiato il colorito ruvido di
alcune parti del suo corpo per pelle squamosa.
16. Questo caso prodigioso apre il campo a dubbi e
riflessioni curiose, nella considerazione delle quali, sebbene la congettura
principale, che su di essa ci baseremo, appartenga in parte all'argomento del
passato Discorso, l'abbiamo riservata allo scopo di formare un altro Discorso al
riguardo.
§. III
17. È davvero una cosa pietosa che il nostro uomo nuotatore abbia perso l'uso della ragione, vedendola
non solo come sua fatalità, ma anche lcome perdita nostra e di tutti i curiosi;
infatti, se quest'uomo avesse conservato l'ingegno e con esso la memoria, quante
notizie, in parte utili e in parte speciose, ci avrebbe dato come frutto delle
sue peregrinazioni marittime! Quante cose, finora sconosciute a tutti i
naturalisti, appartenenti alla Repubblica errante dei pesci, avremmo potuto
sapere da lui!
Solo lui avrebbe potuto accertare con precisione la loro riproduzione, il loro
modo di vivere, i loro pascoli, le loro trasmigrazioni e le guerre o le alleanze
tra le diverse specie. Quanto bene avrebbe esplorato i fondali di vari mari, un
nuovo oceano all'interno dello stesso oceano e un fondo senza suolo, per
innumerevoli speculazioni filosofiche, sia per le piante che vi nascono, sia per
la materia che vi si raccoglie, sia per le mutazioni che in esso si verificano,
sia per le sorgenti e i fiumi che vi scorrono, sia per le caverne che accolgono
le stesse acque marittime per trasportarle in luoghi lontani, sia per mille
altre cose!
Ma ciò che stuzzica più da vicino la curiosità filosofica, e che poteva essere
conosciuto solo lo stesso uomo, sono alcune circostanze del fatto in sé: come
quest'uomo si sia adattato così improvvisamente a un tipo di vita così diverso
da quello che aveva avuto sulla terraferma: come si sia nutrito in mare, se
abbia dormito a certi intervalli, quanto a lungo abbia sofferto per la mancanza
di respirazione, come sia sfuggito alla voracità di alcune bestie marine, ecc.
18. Se avessimo un segno positivo che il caso è stato miracoloso, per una via, anche se non molto reale, molto ben
battuta, eviteremmo tutte queste difficoltà. Ricorrere, nelle difficoltà della
filosofia, alla straordinaria potenza della Divinità, significa fare come
Alessandro, tagliare con l'acciaio il nodo che non può sciogliere il discorso.
La voce che correva in Spagna, secondo la quale l'infelicità del povero
Francesco derivava da una maledizione della madre, avrebbe giustificato tale
ricorso se fosse stata vera; ma quella voce era la fuga dall'ignoranza dei
limiti a cui può arrivare la natura, e dalla comune smania di affrontare ogni
evento straordinario come un miracolo. Tutti i resoconti attendibili che, con la
mia diligenza e quella dei miei amici, ho acquisito, concordano sul fatto che
non vi fu alcuna maledizione, né alcuna altra circostanza da cui si possa
dedurre che l'evento andasse oltre i termini della natura.
§. IV
19. A dire il vero, le Storie (per quanto le ho lette) non ci
offrono un caso simile al nostro, ad eccezione di uno solo, e anche questo lo è
solo in parte. È quello di quel siciliano, volgarmente chiamato
Pesce Cola,
(cioè il Pesce Nicolao) di cui abbiamo dato notizia di sfuggita nel
Volume V, Disc. 6, num. 7, e ora ne daremo un resoconto più completo, dato che è
molto utile al nostro scopo.
20. Questo Nicolao, nato da umili genitori nella città di
Catania, per inclinazione si dedicò molto fin da ragazzo all'esercizio del
nuoto. L'esercizio gli mostrò e allo stesso tempo aumentò l'abilità innata che
aveva per esso; e l'abilità e l'inclinazione, accompagnate dalla povertà, lo
indussero facilmente a cercare nelle acque i mezzi per vivere. Lo trovò nella
pesca delle ostriche e del corallo. Continuando a praticare questo tipo di
sostentamento, si abituò a tal punto all'acqua da vivere in malo modo sulla
terraferma. Addomesticato a quell'elemento feroce, si compiaceva anche della sua
serenità, tanto da fenare i suoi impeti. Con la stessa libertà navigava nel mare
inquieto e in quello calmo. Non c'era pesce che si addentrasse più audacemente
nelle insenature profonde o che percorresse più rapidamente negli ampi fondali.
La divinità dei pelagici avrebbe creduto ad una compiacente superstizione.
Quello che all'inizio era solo un piacere, divenne una necessità. Il giorno in
cui non entrava in acqua, sentiva una tale angoscia, una tale fatica nel petto,
che non riusciva a riposare. Spesso serviva come corriere marittimo da un porto
all'altro, o dal Continente alle Isole, diventando necessario quando il mare era
così tempestoso che i marinai non osavano affrontarlo. Il suo continuo
attraversare tutti quei mari lo rese noto a tutti coloro che, per professione,
esercitavano la professione nautica sulle coste della Sicilia e di Napoli. Non
si accontentava delle coste; spesso si spingeva su grandi alture, dove poteva
trascorrere intere giornate. Quando vedeva passare una nave, anche a grande
distanza, la seguiva con una rotta velocissima, fino ad abbordarla; vi entrava,
mangiava e beveva quello che gli veniva dato; si offriva umanamente e
cortesemente per portare notizie dei navigatori in qualsiasi porto, e lo faceva
puntualmente. Da lì si recava in diverse coste per riferire in una ai genitori,
in un'altra alla moglie e ai figli, in un'altra ancora agli amici, in un'altra
ancora alle dipendenze di questo, quello e quell'altro navigatore, tutto ciò che
gli ordinavano di fare. Portava anche eventuali lettere, per le quali era
preparato con una borsa di cuoio, ben foderata e fissata, in modo da non
bagnarsi.
21. Così visse questo anfibio razionale, finché la sua sfortuna non lo rese
vittima di Nettuno, che egli venerava.
Il re Federico di Napoli, sia per dare una prova rilevante della strana abilità
di Nicolao, sia per la curiosità filosofica di conoscere la disposizione del
fondo del mare, nel luogo in cui si trova quel gorgo violentissimo delle acque,
che l'antichità chiamava Cariddi, situato vicino al Capo di Faro, gli ordinò di
scendere in quella profondità cavernosa. Nicolao fece presente la
difficoltà di eseguire l'ordine, come uno che conosceva le dimensioni mostruose
del rischio, allora il Re gettò in mare una coppa d'oro, dicendogli che sarebbe
stata sua, se l'avesse tirata fuori da quell'abisso.
L'avidità eccitò l'audacia. Nicola si gettò nell'orribile profondità, da dove,
dopo circa tre quarti d'ora (tutto il tempo necessario per cercare la coppa nel
labirinto marino), riaffiorì con la coppa in mano. Informò il Re della
disposizione di quelle caverne e dei vari mostri acquatici che vi si annidavano;
in questo forse eccedeva un po' nella verità, essendo certo che nessun testimone
oculare avrebbe potuto smentirlo.
Sia che il re desiderasse un resoconto più individuale di tutte le
particolarità, sia che Federico fosse uno dei tanti principi che, stanchi dei
piaceri comuni, trovano l'adulazione di buon gusto solo quando l'abilità di chi
la pratica è condita con il pericolo, cercò di coinvolgere Nicolao in un nuovo
esame e, trovandolo molto più resistente della prima volta, perché aveva
percepito l'enormità del rischio, ancora più grande di quello che aveva concesso
in precedenza, non solo gettò nell'acqua un'altra coppa d'oro, ma gli mostrò
anche una borsa piena di monete dello stesso metallo, assicurandogli che se
avesse recuperato la seconda coppa, sarebbe stato padrone di essa e della borsa.
Il desiderio smodato di oro, che è stato fatale a tanti mortali,
fu fatale anche al povero Nicolao.
Deciso, si gettò sulla seconda preda; ma non tornò mai più, né vivo né morto,
trovando morte e sepoltura in una di quelle intricate caverne, e resta il dubbio
se si sia incautamente infilato in qualche stretto in cui non riuscì a
destreggiarsi; o se, entrato in qualche seno intricato, non abbia trovato la via
d'uscita; o se infine sia stato afferrato da una delle bestie marine, che egli
stesso aveva detto abitare quelle grotte.
22. Questo evento concorda con il nostro in molte cose
ammirevoli, anche se non in tutte. In entrambi i casi c'è una passione violenta
per la vita acquatica, una forza e un'abilità straordinaria nell'esercizio del
nuoto e, infine, la meraviglia naturale di passare molte ore senza respirare.
Nel nostro caso si aggiunge probabilmente la mancanza di sonno e certamente la
privazione del giudizio. Parleremo di tutti questi capitoli.
§. V
23. La prima offre pochi ostacoli. La passione per l'esercizio del nuoto, in
coloro che hanno iniziato a praticarlo, è molto comune: in alcuni è violenta, e
lo è molto di più in coloro che riconoscono in se stessi un'abilità speciale per
esso:
Illis in ponto jucundum est quaerere pontum,
Corpora qui mergunt undis, ipsumque sub antris
Nerea, & aequoreas conantur visere Nymphas.
Manl. lib. 5
24. È una regola generale che ognuno eserciti con più
piacere l'arte per la quale si sente più abile, e la destrezza,
come abbiamo già notato altrove, citando quella frase di Barclay o:
Unumquodque animal, eo in quo potissimum valet: maxime delectatur. Non ho
mai nuotato, né imparato a nuotare. Eppure qui mi viene rappresentato in modo
vivido che questo esercizio è molto piacevole per coloro che lo praticano con
profitto. La ragione dimostra anche che, essendo un divertimento così rischioso,
chi è esperto non lo frequenterebbe così tanto, se il piacere non fosse grande.
Lo mostra anche la ragione, che essendo un diversivo sì rischioso, quelli che vi
sono esperti non lo frequenterebbero tanto, se il diletto non fosse grande.
§. VI
25. La forza e l'abilità dei nostri due nuotatori, benché straordinarie, non sono molto da ammirare, a patto che si
esercitino molto. Alessandro d'Alessandro racconta di un altro nuotatore
napoletano, da lui stesso conosciuto, che con moto continuo percorse lo spazio
di sei miglia, che si trova tra l'isola Enaria e la Prochita nel Golfo di
Napoli, e forse andò e tornò nello stesso giorno.
Questo sarà incredibile per alcuni; ma è facile renderlo credibile, solo
rappresentando loro una cosa, a cui certamente credono; cioè che un uomo, per
quanto robusto possa essere, se trascorre una vita molto tranquilla, e senza
alcun esercizio fisico, se non qualche passo all'interno della sua casa, quando
arriva il momento di decidere di fare una lunga passeggiata, difficilmente può
camminare per un quarto di lega senza la massima fatica: e al contrario,
un'altra persona molto meno robusta, ma molto allenata a camminare a piedi,
cammina per sei e otto leghe in un tratto senza grande disagio.
Si consideri ora che l'esercizio fisico dei comuni nuotatori è quasi nullo
rispetto a quello di chi, preso da una violenta passione, si diverte a nuotare
ogni giorno e tutte le volte che può e vuole. È quindi probabile che, sebbene
essi non riescano a percorrere più di cinquanta o sessanta braccia d'acqua senza
interruzioni, egli possa spingersi fino a sei o sette miglia. A ciò si aggiunga
che forse gli illustri nuotatori di cui si parla erano dotati di una grande
robustezza innata per ogni tipo di lavoro corporeo, che, unitamente
all'esercizio fisico, era in grado di metterli a loro agio e di farli
perseverare nel rompere le acque quasi come i Delfini.
§. VII
26. Il capitolo della mancanza di respiro
è più difficile. Su questo punto, tuttavia, rimandiamo il lettore a quanto
abbiamo scritto nel Volume V, Disc. VI, n. 7 e 8, dove vedrà come in vari casi e
per cause diverse gli uomini possono vivere per un tempo considerevole senza
respirare. Lì abbiamo detto, sotto l'autorità di Galeno, che la causa per cui
nelle affezioni isteriche più gravi le donne restano a lungo senza respirare è
che, durante questa specie di affezione, hanno il cuore molto freddo. Secondo
l'opinione di Galeno, comune anche tra i suoi settari, la respirazione non è
necessaria nella vita degli animali se non per temperare il minimo ardore del
cuore e del sangue. In questa opinione si può ben comprendere che coloro che
sono abituati a vivere nell'acqua, come i pesci per natura e i palombari per
professione, non hanno bisogno di respirare con la stessa frequenza degli altri
animali. L'acqua raffredda il cuore e il sangue e compensa così la mancanza
d'aria.
27. Non ignoro che la sentenza galenica
soffre di gravi difficoltà, e che oggi è più plausibile che la respirazione sia
necessaria, perché l'azoto dell'aria, o spirito nitroso, che risiede nell'aria,
conserva nella sua fluidità e nel suo movimento il sangue, che senza l'aiuto di
questo spirito animatore, o spirito animante, dicono gli autori di questa
sentenza, si coagulerebbe. Il dottissimo Martinez, che nella sua Anatomia
completa segue ed espone copiosamente questa opinione, spiega, secondo i suoi
principi, come i palombari, e molto più i pesci, non abbiano la necessità di una
respirazione frequente. Inoltre, se seguissimo un'altra strada rispetto a quella
seguita da questo Autore, potremmo ipotizzare senza violenza che nel sale
marino, o nelle acque del mare, ci sia un altro spirito equivalente all'azoto
dell'aria, e che serva come contropartita di quello ai pesci e agli uomini che
frequentano molto il mare, allo scopo di prevenire la coagulazione del
sangue. Così, in tutte le frasi, si può spiegare filosoficamente la
particolarità dei nostri due grandi nuotatori nel trascorrere un lungo periodo
senza l'uso della respirazione.
28. Ma diciamo la verità. L'opinione moderna
sull'uso della respirazione è fondata su congetture molto fallibili e, non meno
di quella antica, è combattuta con serie difficoltà. Alcuni particolari, che mi
vengono in mente, li proporrò al dottor Martinez, non come uno che lo contesta
con soddisfazione, ma come uno che lo consulta con riverenza; che per un uomo
così grande possono essere argomentati solo con rispetto. Questo spirito nitroso
aereo, secondo la sua frase, è così sottile che può penetrare le sostanze più
dure (p. 332); da qui deduce: Quindi penetrerà più facilmente nelle membrane
molli del polmone e nei suoi vasi capillari, ecc.
E da questo antefatto deduco quest'altra conseguenza: penetrerà più
facilmente nei pori della pelle, nelle arterie e nelle vene fino a comunicare
con la massa sanguigna; quindi, perché il nitro aereo comunichi con il sangue e
produca in esso l'effetto espresso, o qualsiasi altro, non è necessaria la
respirazione, e quindi tutti gli animali potranno vivere senza di essa.
Ne deduco anche che, nel caso in cui si intenda dire che il nitro aereo, che
entra attraverso i pori, non è sufficiente, ma che è necessaria una copia
maggiore, e per ottenerla è necessaria la respirazione, questa necessità sarà
minore nella stagione calda che in quella fredda. La ragione di ciò è che i pori
sono più aperti e di conseguenza una maggiore quantità di azoto entra attraverso
di essi, per cui la respirazione è meno necessaria o meno frequente. Ma
l'esperienza dimostra il contrario: più fa caldo, più sentiamo il bisogno di
respirare e più frequentemente respiriamo.
Ma se riusciamo a trovare una qualche ragione per sostenere che l'aria nitrosa,
nonostante la sua grande sottigliezza, non può entrare nei pori del corpo, ne
consegue, almeno, che un uomo che si procura una o più piaghe e le tiene
esposte all'atmosfera, non avrà bisogno di respirare.
La ragione è chiara, perché nelle piaghe l'azoto dell'aria trova i vasi
sanguigni aperti; quindi entrerà attraverso di essi come via naturale per
comunicare con il sangue, e in una copia molto maggiore di quanto non comunichi
con la respirazione, poiché entra attraverso porte spalancate, invece di passare
attraverso fessure più strette, che sono i pori delle membrane del polmone.
L'infiltrazione sembra inesorabile.
Tuttavia, non credo, se qualcuno me lo concede, che una persona ferita nel modo
suddetto possa smettere di respirare.
29. Infine, in alcune affezioni, in cui il sangue
diventa troppo fluido, di cui ho visto un caso molto singolare in questo
Collegio in P. de Cuebas, figlio del Monastero di San Benito de Sahagún, il cui
sangue era fluido in modo tale che non solo usciva dalla bocca, dalle narici,
dalle orecchie, dalle vie anteriori e posteriori; ma fu addirittura versato su
tutto il corpo, diviso in più gocce, che apparivano sulla pelle, e secondo me fu
aiutato con ogni tipo di refrigerante, fino ad applicare abbondante neve
all'esterno in varie parti del corpo; dico che in tali affezioni la respirazione
sarebbe non solo inutile, ma dannosa, perché per mezzo del nitro aereo si
liquefarebbe maggiormente il sangue, il che aggraverebbe l'affezione. Quindi
detto nitro non è necessario per far fluire il sangue, quando è già più fluido
del dovuto, la respirazione cesserebbe del tutto, perché la natura, che evita
accuratamente ogni superfluità, cessando alla fine, cessa nell'agire. Ma né
nell'affezione che ho detto il respiro del paziente cessò, né credo che cesserà
in nessun altro simile malato.
30. Ma qualunque sia il fine che rende necessaria
la respirazione (che, a mio avviso, è uno dei misteri che la natura custodisce
nel suo seno più profondo), è sufficiente per il nostro scopo sapere che l'uso
della respirazione non è così assolutamente indispensabile da non mancare per
lungo tempo in certi soggetti, stati e circostanze. Le donne non respirano, o
respirano molto poco, come abbiamo già notato, nelle straordinarie affezioni
isteriche. Lo stesso, come abbiamo notato nel già citato Discorso VI del Volume
V, accade in altre gravi affezioni, comuni a entrambi i sessi. I neonati non
respirano nel grembo materno, e nemmeno dopo esserne usciti, mentre sono avvolti
nella placenta. Da ciò risulta evidente che nel tesoro della natura esistono
alcuni supplementi alla respirazione.
Chi può essere sicuro che alcuni uomini di temperamento straordinario non
abbiano in sé uno di questi supplementi?
31. Ma l'esempio più rilevante per noi,
perché identico, è quello dei subacquei. In questi ultimi c'è molto di più e
molto di meno; e mi risulta che il più e il meno dipendano di solito proprio dal
maggiore e dal minore uso, o almeno l'uso che se ne fa è molto.
I subacquei orientali, che vivono della pesca delle perle, sono quelli che
stanno più a lungo sott'acqua. Si dice che tra loro ci sia chi resiste
all'immersione per più di un'ora, e anche fino a due. Questo non può essere
attribuito al climqa temperato; infatti, in Asia ci sono zone di pesca delle
perle con climi molto diversi e molto distanti. Pertanto, la migliore attitudine
di quei subacquei, rispetto agli europei, può essere plausibilmente attribuita
solo al maggior uso dell'immersione, perché i primi la esercitano continuamente,
mentre i secondi solo in caso di incidente, o comunque con molto meno frequenza.
32. Ma proprio in questo c'è spazio per due argomenti diversi.
Il primo è che il frequente scambio di
acqua apporta al loro temperamento un cambiamento considerevole, grazie al quale
non hanno bisogno di respirare continuamente;
il secondo è che lo stesso esercizio ripetuto di trattenere il respiro consente
loro di trattenerlo sempre più a lungo.
È molto probabile che l'uno e l'altro principio coincidano. Per il primo c'è una congettura filosofica molto fondata.
Nell'ultimo discorso abbiamo visto come siano stati trovati animali marini del
tutto simili all'uomo nella loro organizzazione sensoriale, e quindi dotati
degli stessi strumenti strutturali; quindi il fatto che passino lunghi
intervalli senza respirare, come era necessario, essendo abitanti continui del
mare, deve essere attribuito a un tipo di temperamento, che è influenzato dalle
acque, e quindi è comune per tutti i pesci soffrire di mancanza di respirazione,
o vivere con poca respirazione.
Il secondo è un esperimento del famoso Boyle. Questo celebre fisico, dopo aver
messo vipere e altri animali nella Macchina Pneumatica, estrasse l'aria al punto
di vederli agonizzare per mancanza di respiro. Allora allentò la chiave e fece
entrare l'aria finché non si ripresero perfettamente. Poi tolse di nuovo l'aria
e, misurando il tempo con un pendolo, scoprì che questa seconda volta
resistevano alla mancanza d'aria per un periodo più lungo. Ripeté lo stesso
esperimento una terza volta e vide che sopportavano il difetto di respirazione
ancora più a lungo della seconda volta.
Questa esperienza dimostra invincibilmente che l'esercizio di trattenere il
respiro dispone gradualmente il soggetto a tollerare la mancanza d'aria sempre
più a lungo, in proporzione alla ripetizione dell'esercizio.
{1. Nelle Memorie di Trevoux del mese di luglio 1703, a proposito delle notizie
inviate a Madrid, si dice che in quel periodo si trovava a Corte un Religioso
calabrese, il quale sosteneva di avere la proprietà degli animali anfibi di
poter rimanere a lungo sott'acqua, e che in effetti il Re presentò un foglio, in
cui si offriva di rimanervi sepolto per quarantotto ore.
Colui che scrisse quella notizia agli Autori delle Memorie dice, che
l'esperienza non era ancora stata fatta; né ho avuto alcuna notizia di essa, e
neppure dell'offerta del Calabrese, se non quella che è data nelle dette
Memorie.
2. Nel primo volume delle Osservazioni curiose su tutte le parti della Fisica, a
p. 222, citando il Journal of the Wise,
si racconta di uno Svedese che rimase sedici ore continuamente sott'acqua.
Se questi fatti sono veri, bastano a rimuovere i principali dubbi che alcuni trovano nella storia dell'uomo di
Liérganes}.
§. VIII
33. Finora abbiamo discusso sugli aspetti
comuni ai nuotatori spagnoli e siciliani. Veniamo ora alle particolarità dello
spagnolo. Il nuotatore siciliano trascorreva normalmente le sue notti a
terra, dove riposava come gli altri uomini. Lo spagnolo,
per quattro o cinque anni, ha abitato continuamente le onde, dove non sembrava
poter godere del beneficio del sonno.
34. Aristotele, nel libro che ha scritto su Sonno,
& Veglia, afferma che nessun animale può vivere senza dormire o, ciò che è lo
stesso, essere perennemente sveglio. Ma lascia un po' di dubbio se la generalità
dell'esclusiva riguardi solo le specie o anche gli individui: cioè se intenda
solo dire che non c'è nessuna specie di animale a cui il sonno non sia naturale,
o se si estenda ad affermare che nessun singolo animale, di qualunque specie
sia, possa passare in perpetua veglia. Ma a parte questo, che alcuni uomini, a
causa di certi disturbi del cervello, passassero molto tempo senza dormire, è
attestato da diverse Storie.
Seneca racconta che Mecenate rimase senza dormire per tre anni di seguito.
Fernellius racconta di un uomo delirante, la cui veglia durò quattro mesi. E
Giovanni Heurnius, medico di Leida, di un altro che, senza delirio, rimase senza
dormire per dieci anni.
{Attraverso un illustre personaggio della Corte ho notizia di un famoso
esemplare che vive senza il sussidio del sonno. Don Antonio Gonzalez Brecianos,
nativo di Madrid, contabile dell'Ufficio di Juros, un uomo che rimase molto
robusto, anche vicino all'età di ottant'anni, non dormì, o dormì pochissimo in
tutta la sua vita. Solo nella sua più grande senescenza si assopiva per il breve
spazio di un minuto, poco più o poco meno; ma anche quel breve riposo era più di
veglia che di sonno, perché percepiva qualsiasi parola gli venisse rivolta a
bassa voce.
Mi è stato assicurato dallo stesso illustre Personaggio che questo era un fatto
molto noto in tutta la Corte}.
35. Ammettendo la veridicità di queste Storie, non c'è alcuna difficoltà a
credere che il nostro Francisco de la Vega
sia stato senza dormire per i quattro o cinque anni in cui ha abitato il mare.
L'esposizione del suo cervello alle intemperie era indubbiamente grande, dato
che disorganizzava in modo così straordinario la sua capacità di giudizio. Cosa
c'è da meravigliarsi, allora, che sia rimasto sveglio per quattro o cinque anni?
36. Si tratta di salvare il fatto nella parte che
sembra più difficile; infatti, se si vuole dire che nello stesso tempo egli si
concedeva qualche ora di sonno a intervalli non molto distanti, non c'è alcun
ostacolo: chi potrebbe impedirgli di ritirarsi qualche notte su questa o quella
riva disabitata, una delle tante che il mare bagna, e di riposare lì per tutte
le ore di cui ha bisogno? Forse potrebbe anche dormire nel letto stesso del
mare. Aristotele, nel luogo citato sopra, dove considera il sonno necessario per
tutti gli animali, include espressamente i pesci in questa regola universale, e
riporta la sua stessa osservazione: Pisces enim
omnes, atque adeo, qui Molles appellantur, dormire observavimus.
Si deve supporre che a questo scopo non si ritirino sulle rive, né si mettano
sugli scogli che sovrastano le acque, ma si riposino sul fondo stesso del mare.
Perché non dovrebbe fare lo stesso colui che è stato abituato a vivere nello
stesso elemento dei pesci?
Plinio si opporrà, sostenendo che non si può dormire senza respirare:
Quis enim sine respiratione sumno locus?
dice il lib. 9, cap. 7. Né è necessario controbattere con il fatto che egli
stesso ammette che i pesci dormono: infatti afferma che respirano anche se
gettati sott'acqua, insinuando in modo abbastanza chiaro la stessa dottrina, che
abbiamo riportato nel Volume V, Discorso IX, Paradosso VIII.
Questa respirazione, che i pesci sommersi raggiungono, è chiaro che il nostro
Nuotatore non
potrebbe goderne, perché gli mancano gli strumenti di cui i pesci dispongono. Si
veda la parte citata nel nostro quinto volume.
Ma in verità non vedo che rapporto abbia la respirazione con il sonno, né perché
un uomo, che può stare in fondo al mare due ore senza respirare, non possa anche
dormire lì altre due ore senza respirare. I filosofi che si chiedono quale sia
la causa prossima del sonno (punto molto difficile e su cui c'è una grande
varietà di opinioni), non ricordano mai la respirazione, né come principio né
come condizione.
Io dico che in nessuna delle opinioni su questo argomento la respirazione entra
in alcun modo in considerazione. Allora è evidente che nessun filosofo ha
percepito un nesso tra questa e il sonno. Né la sola autorità di Plinio ci
impone di credere che ci sia.
37. Forse qualcuno vorrebbe opporci l'esperienza
che quando dormiamo respiriamo più pesantemente, il che dimostra evidentemente
che inspiriamo ed espiriamo più aria; e da ciò dedurrebbe che c'è una maggiore
necessità di respirare o di respirare di più nel sonno che nella veglia. Ma io
rispondo che il conseguente non è dedotto. È vero che in ogni respiro si inspira
ed espira più aria nel sonno che nella veglia; ma questo è compensato dal fatto
che nella veglia la respirazione è molto più frequente che nel sonno; così che
nella veglia si esercitano due respiri nello spazio di tempo, rispetto a uno nel
sonno; o poco meno.
§. IX
38. Veniamo ora al capitolo sulla
privazione del giudizio, sul quale non dobbiamo soffermarci, per quanto riguarda
l'incidente, considerato in generale, che vediamo verificarsi in innumerevoli
uomini e per una grandissima varietà di cause.
L'aspetto peculiare del nostro caso è piuttosto notevole, ossia la complicazione
delle facoltà mentali che vengono completamente compromesse per alcune azioni,
mentre rimangono illese per altre.
Quest'uomo obbediva puntualmente e correttamente a ciò che gli veniva ordinato,
ma allo stesso tempo soffriva di una fatuità che arrivava alla stoltezza per
tutto ciò che doveva essere fatto sotto la sua volonta. La sua memoria non era
meno complicata della sua comprensione. Ricordava i luoghi, le strade e le
persone con cui aveva comunicato in precedenza, ma dimenticava ciò che era molto
più difficile da dimenticare, cioè l'uso della voce e di chiedere, anche con
gesti, il cibo necessario alla sua conservazione, cosa che anche i bruti più
stupidi hanno in mente e per la quale è sufficiente quella ragione inferiore che
conosciamo in loro e che i filosofi volgari chiamano istinto.
39. Ma, in realtà, questo non è così
particolare come sembra a prima vista. Una lesione parziale della capacità di
giudizio si riscontra in alcuni di quei pazzi, che i medici chiamano malinconici
e noi comunemente chiamiamo maniaci, che ragionano molto bene in alcune
questioni e vaneggiano con estrema stravaganza in altre.
Anche di lesione parziale della memoria esiste un esempio del genere, anche se
molto più raro. Plinio (lib. 7, cap. 24) racconta di uno che, ferito da una
pietra in testa, dimenticò le lettere dell'alfabeto, ma conservò la memoria di
tutto il resto come prima. Si tratta di una questione degna di essere trattata
con la filosofia, sia per l'estrema difficoltà, che verrà dimostrata in seguito,
di accertare in cosa consista questa strana complicazione di memoria e
dimenticanza, sia perché non mi risulta che nessun filosofo abbia finora
affrontato questo punto.
40. Se considerassimo il cervello, o la
parte del cervello in cui si esercita la facoltà della memoria, come un
complesso di diversi seni in cui sono distribuite le immagini degli oggetti,
capiremmo facilmente come, a causa di vari incidenti, la memoria di alcuni venga
persa, mentre quella di altri rimanga intera. Per esempio, il colpo di un sasso
o una caduta può colpire la testa in una parte o in una direzione tale da
interrompere proprio il seno in cui si trova l'immagine di quell'oggetto; la
memoria di quell'oggetto andrebbe quindi persa, senza che la memoria di altri
venga cancellata. In effetti, questo è il modo in cui molti concepiscono il
deposito di specie nella memoria. Ammetto che questa spiegazione non è molto
precisa (e come può esserlo in una materia così incomprensibile?), ma la ritengo
vera per quanto riguarda il punto sostanziale della collocazione delle specie
divise l'una dall'altra nel cervello, e questo è sufficiente per il nostro
scopo.
41. Io sostengo che: Quelle specie, o
immagini, o sono corpóree, o spirituali. Se corporee, o sostanze, o accidenti:
qualunque cosa si dica, non se ne possono porre due nello stesso luogo. Non sono
sostanze, perché ciò non può avvenire senza la penetrazione dell'una con
l'altra, e la penetrazione di due corpi è naturalmente impossibile. Né possono
essere accidenti, perché questi accidenti possono essere distinti solo
numericamente, poiché, pur rappresentando oggetti diversi, concordano
specificamente ed essenzialmente nel modo di rappresentazione, così come per la
stessa ragione le specie che servono alla potenza visiva, pur riguardando
oggetti molto diversi, sono tutte di una stessa specie. Questi accidenti non
possono quindi trovarsi nella stessa parte del cervello, perché è regola comune
dei filosofi che due accidenti, solo numericamente distinti, non possono
informare lo stesso soggetto.
Se queste immagini sono spirituali,
arriviamo alla stessa conseguenza, perché sono necessariamente accidenti, e
accidenti di una stessa specie, per la ragione indicata.
42. Assumendo la divisione delle immagini
in diverse parti dell'organo, si capisce bene che qualche incidente può
cancellarne alcune, lasciando integre le altre. Se un colpo, una contusione o le
intemperie danneggiano proprio una parte dell'organo, verrà cancellata
l'immagine o le immagini che vi sono impresse.
Così come chi strappa o disfa una parte di una tela, su cui sono disegnate
diverse immagini, distrugge solo quelle che corrispondono alla parte della tela
che è stata disfatta.
43. Se qualcuno si meraviglia che una così grande moltitudine di immagini possa
essere impressa per divisione l'una dall'altra nel breve spazio che serve alla
memoria, rifletta che in uno spazio molto più breve avviene la stessa cosa per
quanto riguarda il potere della vista. Chi da un'altura vicina registra un
esercito di duecentomila uomini, in fondo alla pupilla di ciascun occhio riceve
duecentomila immagini, ciascuna al proprio posto; e se intorno all'esercito c'è
la caduta di una montagna popolata da duecentomila alberi, ne riceverà
duecentomila immagini, tutte impresse nella stessa parte posteriore della
pupilla, con distinzione l'una dall'altra e dalla prima.
§. X
44. Tornando dalle speculazioni filosofiche alla sostanza del fatto su cui
ricadono, per quanto riguarda una cosa che, lasciata al discorso, mi sembra
problematica, vorrei avere informazioni più precise. Nella relazione sopra
riportata, si dice che il nostro uomo, prima della sua vita marina, godeva di un
uso regolare delle facoltà mentali. E per quanto questo possa essere vero,
prendendo il tempo antecedente con una certa ampiezza, sembra difficile che
quando si gettò in acqua sulla riva di Bilbao per non tornare a terra, non
avesse già un giudizio depravato: come è credibile, infatti, che un uomo che era
in sé, decidesse di prendere abitualmente un modo di vivere così estraneo a
quello in cui era stato educato, e di conseguenza così violento? È possibile che
un uomo di buon senso decida di andare senza vestiti, senza un letto, senza
alcuna relazione con tutti gli altri uomini, di nutrirsi solo di pesce crudo, e
questo con mille pericoli che si presentano negli incontri con varie bestie
marine?
45. Se, in effetti, aveva già perso il senno quando
decise di vivere nell'acqua, immagino che la sua follia fosse di quella specie
che i Greci chiamavano, e che i Latini oggi chiamano Licantropia, che consiste
in una particolare lesione dell'immaginazione, per la quale coloro che ne
soffrono si considerano convertiti in una specie di bruto.
La voce Licantropia fu dapprima istituita per indicare quel particolare disturbo
del giudizio per cui gli uomini si immaginano di essere convertiti in lupi,
poiché è il più frequente; ed è composta dalle due voci greche Lycos e
Anthropos, la prima delle quali significa Lupo e la seconda Uomo; ma in seguito
la voce fu resa generica, per indicare la mutazione immaginata in qualsiasi
specie bruta.
Coloro che soffrono di questa strana follia, cercano in ogni modo di imitare le
azioni e il modo di vivere di quei bruti, nella cui specie si ritengono inclusi.
Quelli che si immaginano Lupi, si ritirano sulle montagne, inseguono il
bestiame, lo uccidono e lo mangiano crudo. Quelli che si credono Cani (la cui
passione è chiamata Cinantropia) abbaiano come loro, stanno davanti alle porte
delle case, si gettano avidamente sulle ossa, ecc.
Dico che si può ragionevolmente ipotizzare che, se il nostro uomo era pazzo,
quando si decise per la vita acquatica, soffrì di questa specie di disturbo;
cioè, che immaginandosi un pesce, decise di vivere come tale.
Non ricordo in quale autore ho letto di uno che si credeva un'anguilla.
46. Ma, d'altra parte, se quest'uomo,
prima di gettarsi in mare, avesse sofferto di un tale tipo di follia, o di
qualsiasi altro tipo, in grado di precipitarlo in una follia così stravagante,
non sarebbe stata omessa una circostanza così essenziale nelle relazioni che
abbiamo acquisito, che, lungi da ciò, sono conformi all'integrità del suo
giudizio in tutto il tempo precedente la determinazione fatale, senza alcuna
eccezione o limitazione di sorta.
Né ci si può accontentare di questo, dicendo che le relazioni provenivano dalla
sua terra, dove non si poteva sapere se negli ultimi due anni avesse conservato
il suo giudizio, perché in quel periodo non si trovava nella sua terra, ma a
Bilbao, per imparare il mestiere di falegname. Dico, questa risposta non è
soddisfacente, perché non è credibile che il maestro presso il quale stava
imparando non abbia informato la madre e i fratelli di Francesco della
disastrosa notizia che aveva perso la ragione, se effettivamente l'aveva persa;
e anche se questa novità fosse avvenuta uno o due giorni prima che si gettasse
in acqua, quando la madre fu informata della sua morte, sarebbe stata informata
anche della causa della sua morte, che era la perdita della ragione. Questo è
talmente naturale che non ci possono essere dubbi.
A ciò si aggiunga che se il Maestro e i compagni di Francesco si fossero accorti
che era pazzo, lo avrebbero osservato con maggiore cautela, non permettendogli
nemmeno di allontanarsi dalla riva.
Pensare che, nell'atto stesso di fare il bagno, la sua ragione sia stata
pervertita sarebbe estendere la congettura ai confini più remoti della
possibilità.
47. Ritengo, quindi, molto più probabile
che, nel corso del tempo in cui visse in mare, la sua ragione si sia
progressivamente erosa. Ciò può essere stato influenzato da diversi principi. In
primo luogo, il continuo contatto con l'acqua di mare ha naturalmente indotto
nel suo cervello una grave alterazione, che lo ha reso inutile per le operazioni
razionali.
Nell'acqua di mare ci sono tre sostanze distinte da considerare: la prima è
l'acqua stessa, o ciò che è puramente acqua; la seconda è il sale, che si
mescola con essa; la terza è un'altra sostanza bituminosa o solforosa, che è ciò
che principalmente la rende malsana e fetida. Quindi non è nel sale, come si
pensa comunemente, che si trova la difficoltà di rendere potabile l'acqua di
mare, perché il sale si separa facilmente e con vari mezzi; ma in quest'altra
sostanza bituminosa, le cui particelle sono così impigliate con quelle
dell'acqua che finora non si è trovato il modo di separarle completamente; e
sarebbe un grande vantaggio per il mondo scoprire il segreto per farlo.
Tutti questi tre principi, di cui è composta l'acqua di mare, potrebbero aver
indotto la suddetta alterazione, o almeno alcuni di essi; soprattutto il terzo,
in quanto più estraneo all'uomo, poiché il sale e l'acqua non sono estranei al
nostro uso.
48. In secondo luogo, il cibo a base di pesce
crudo. Non c'è dubbio che ci sono dei cibi dannosi per il cervello, e alcuni
così tanto da compromettere il giudizio. Mangiare un pesce crudo una o più
volte, è certo che non fa tanti danni; ma non è da escludere che un uso continuo
possa creare problemi. E quando non è così, chi può negare che ci sia qualche
specie di pesce che ha questo effetto, e che il nostro nuotatore sarebbe
obbligato, per necessità o per caso, a mangiare qualche volta alcune di quelle
specie?
49. In terzo luogo, la separazione dei
rapporti con tutti i razionali. Non c'è facoltà nell'uomo che non sia
ulteriormente abilitata dall'esercizio e che non sia ostacolata dalla sua
mancanza. L'azione del parlare è qualcosa di faticoso, come chiunque può
sperimentare su se stesso. Perciò, se ci riflettete, scoprirete che
difficilmente ci impegniamo in un discorso se non per una qualche necessità o
interesse. Il necessario rapporto con gli altri uomini ci obbliga a pensare, non
solo quando abbiamo a che fare con loro, ma anche negli intervalli in cui non
abbiamo a che fare con loro, al fine di agire e parlare correttamente, quando si
presenta l'occasione di trattare; correttamente, dico, secondo i fini che
ciascuno ha. Perciò immagino che chi decidesse di vivere sempre in disparte da
ogni società umana si eserciterebbe molto poco nel parlare. I discorsi gli
costerebbero una certa fatica, e nessuno si affatica senza l'attrazione di
qualche comodità. Al massimo, occuperebbe la sua ragione in quel poco che occupa
la sua, così com'è, un bruto selvatico; cioè, nel procurarsi il cibo per la
propria conservazione; e se questo fosse sempre a portata di mano, come il
nostro uomo ha per il pesce, o un altro abitante della foresta per i frutti
selvatici, non lo occuperebbe affatto. Così un solitario del genere,
abbandonando completamente la facoltà discorsiva all'ozio, darebbe occupazione
solo all'immaginazione, alla quale allenterebbe le briglie, così che vagando,
senza ordine, senza concerto, senza progetto, vagherebbe su tutti gli oggetti
che il caso potrebbe presentargli, perché in questo non sente alcuna fatica.
Da questo esercizio dell'immaginazione e dall'ozio dei discorsi, protratti per
lungo tempo, è naturale che derivi una strana confusione di idee, che è un
grande ostacolo all'uso della ragione e che è difficile da cancellare. È vero
che questa causa da sola non basterebbe per la pazzia di cui stiamo trattando;
perché, dipendendo solo da questo principio, il nuovo scambio con il razionale
riporterebbe gradualmente la parola al suo stato naturale; ed è evidente che il
nostro uomo, durante i nove anni in cui rimase successivamente sulla terra,
rimase sempre nello stesso stato di perturbazione. È quindi da credere che,
insieme a questo principio, concorressero i precedenti, o almeno alcuni di essi.
50. Alla difficoltà proposta sopra,
secondo cui non sembra credibile che un uomo, che abbia anche il pieno uso del
suo giudizio, prenda una decisione così strana, solo chi non capisce quanto
siano violente alcune passioni negli uomini, sarà imbarazzato a rispondere.
Quanti, sapendo che le fatiche smodate della caccia accorciano la loro vita, a
parte i rischi fatali a cui quell'esercizio li espone, vanno oltre e si fanno
del male per non perdere il loro piacere! Quanti insistono in un corteggiamento
che a ogni passo li mette in pericolo! Quanti, per ottenere in guerra il vano
fumo degli applausi, affrontano, non una, ma molte volte, nuvole di piombo
fulminante!
Quindi, supponendo nel nostro uomo una passione violentissima per la vita
acquatica, il che è molto conforme alle informazioni che abbiamo, non è affatto
improbabile che prima di perdere l'uso della ragione abbia deciso di vivere
sempre in compagnia dei pesci. Dobbiamo anche supporre che in precedenza avesse
messo alla prova le sue forze per questo modo di vivere: che con l'opportunità
di trovarsi sulle rive di un estuario si esercitasse molto nel nuoto, che
provasse quanto a lungo potesse soffrire per la mancanza di respirazione o di
sonno e che calcolasse gli intervalli che la vita acquatica gli avrebbe
concesso, per godere dell'uno o dell'altro beneficio, il tutto basandosi sulle
sue esperienze.
È anche molto probabile che abbia provato molte volte nel mangiare pesce crudo:
il che non è così straordinario, che senza questo disegno, e anche senza alcuna
necessità, molti non lo pratichino con alcune specie di pesce.
Nelle zone marittime della Galizia ci sono molti che mangiano le ostriche crude
e vive, tanto che appena il pescatore le tira fuori dall'acqua, aprono le
conchiglie e le ingoiano; e dicono che sono molto più deliziose così che
accompagnate con i condimenti più preziosi. È vero che alcuni, anche in questo
stato, li condiscono con un po' di pepe e succo d'arancia; ma per toglierli
dall'acqua, condirli e mangiarli basta meno di un quarto di minuto.
§. XI
51. Finora abbiamo discusso
filosoficamente tutte le circostanze del pellegrinaggio di quest'uomo. Ci resta
ora da dedurre da esso alcune conseguenze congetturali, relative a parte dei
punti essenziali che abbiamo trattato nel discorso precedente. Dico
congetturali, e con ciò intendo dire che non procedo in modo risoluto, ma
problematico, in ciò che sto per proporre. La questione è troppo delicata e la
strada che sto percorrendo è troppo nuova per poter prendere una decisione
affermativa senza una nota di temerarietà. Pertanto, tutto ciò che prudentemente
posso e intendo fare è proporre con distacco le mie congetture agli
esperti, affinché le ammettano o le riprovino, secondo l'opinione che sembra
loro più giusta.
52. Nel discorso precedente abbiamo parlato degli
uomini marini e di quelli che nell'isola del Borneo sono chiamati uomini
selvatici, applicandoci all'opinione universale che i primi sono veri e propri
bruti, e all'opinione, secondo i principi comuni, più probabile, che anche i
secondi lo siano. Ora vedremo come la conoscenza a cui ci siamo riferiti dia
abbastanza motivo di supporre che alcuni e altri siano veri uomini, della stessa
specie di noi, e figli degli stessi genitori comuni.
Comprendiamo che qui si parla non di coloro alla cui figura,
metà uomo, metà uomo e metà pesce,
diamo il nome di Tritoni; ma di altri, che in tutte le loro membra imitano
perfettamente gli uomini.
53. L'uniformità nella configurazione delle membra è per tutti una prova così
certa dell'uniformità della specie, che non c'è nessuno che non deduca dalla
prima la seconda; sicché se un europeo, recatosi in una terra sconosciuta, vi
vedesse un animale simile nella configurazione di tutte le membra ai nostri
cavalli, un altro simile ai nostri cani, un altro simile ai nostri buoi,
affermerebbe senza dubbio che il primo sia un cavallo, il secondo un cane e il
terzo un bue.
È vero che la certezza di questa prova deve ritenersi limitata ai casi in cui
non vi sia qualche difficoltà del tutto insuperabile contro la conclusione in
essa dedotta.
Si pensava che questa difficoltà esistesse, in quanto gli uomini marini erano
veri uomini, perché nessuno immaginava che quegli animali non fossero marini
nella loro prima origine; cioè, la cui prima creazione era stata fatta nelle
acque, come quella di tutti gli altri animali acquatici. Stando così le cose,
non potevano discendere da Adamo: quindi nemmeno veri uomini; perché la Fede ci
insegna che tutti quelli che esistono, discendono da Adamo:
Omnes homines de solo, & ex terra, unde creatus est Adam (Ecclesiast. cap.
33).
Anche se a qualcuno venisse in mente di chiedersi se sia possibile o meno che
quelle creature acquatiche abbiano avuto origine dalla nostra specie, senza
dubbio propenderebbe per l'impossibilità, perché considererebbe una grande
chimera che un uomo nato e cresciuto sulla terra, come gli altri, possa
desiderare o essere in grado di fare una dimora perpetua nel mare come i pesci.
54. Questa difficoltà, che sembrava insormontabile,
è già superata dall'esempio del nostro pellegrino acquatico; con il quale rimane
tutta la forza dell'argomentazione, tratta dall'uniformità di configurazione
negli uomini marini e terrestri, ciò che l'uomo di Liérganes ha fatto, altri,
non solo uomini, ma anche donne, sono stati in grado di fare nei secoli
precedenti, poiché non ripugna in alcuni individui di questo sesso tutta la
forza, l'abilità, l'inclinazione e l'esercizio del nuoto che aveva il nostro
uomo.
E poiché un uomo e una donna potevano unirsi di comune accordo (cosa che poteva
accadere per innumerevoli casi), da questi, con varie successioni, potevano
avere origine tutti gli uomini e le donne marini che sono stati visti in diverse
parti dell'oceano.
55. Potrebbe essere difficile, forse, capire come i rapporti sessuali, il parto
e anche l'educazione dei bambini possano essere esercitati all'interno delle
acque. Ma in tutto questo non trovo alcuna difficoltà, che non sia superabile
con facilità; per tutti questi attività, infatti, potrebbero essere utili
diverse isolette deserte e gli stessi scogli, che sono un ostacolo per i
navigatori, e persino molte coste disabitate dell'uno o dell'altro continente;
non è impossibile che le prime due operazioni possano essere esercitate in acqua
e, per quanto riguarda la terza, il padre e la madre potrebbero alternarsi nel
tenere il neonato al di sopra della superficie dell'acqua per il tempo
necessario a respirare, finché non sarà in grado di nuotare come loro.
56. Sono anche convinto che il non pensare che gli
uomini marini siano veri uomini derivi in parte dal vederli privi dell'uso della
parola e con poca o nessuna apparenza di razionalità: ma anche questa difficoltà
è perfettamente appianata dall'esperienza di abbrutimento e della quasi totale
mancanza di parola dell'uomo di Liérganes.
È da credere che, stando più tempo in acqua, abbia perso l'uso anche di quelle
poche voci che articolava di proposito. Quindi, supponendo l'uniformità di
configurazione di tutti i membri, attestata dalle storie, tra uomini marini e
terrestri, tutto concorre a convincerci che i primi siano discendenti dei
secondi.
Sono innumerevoli gli incidenti possibili per cui un uomo e una donna, o alcuni
uomini e donne, si arrendono allo stesso destino del nostro Francisco de la
Vega. Quanto è probabile che in uno o molti luoghi marittimi, in tempi antichi,
l'uno o l'altro sesso fosse dominato da una violenta passione per il
divertimento del nuoto?
Posto ciò, il molto esercizio e l'emulazione di superarsi l'un l'altro
renderebbero alcuni uomini e donne a quel grado, in cui consideriamo il
siciliano Nicolao e lo spagnolo Franciso.
Così abilitati, quale impossibilità, né tantomeno quale inverosimiglianza c'è
che il folle amore di un uomo e di una donna, ai quali era impossibile ottenere
sulla terra il desiderato consorzio, li spinga a cercare perpetua compagnia
nella libera Repubblica dei pesci? Quale impossibilità, né tantomeno quale
inverosimiglianza c'è che molti uomini e molte donne di un Popolo, complici di
qualche atroce delitto, non trovando altro mezzo per evitare la morte che
meritavano, ricorrano allo stesso asilo? In questo modo si possono discernere
altri motivi. Forse la favola dei Navigatori Tirreni, trasformati da Bacco in
Delfini, ha avuto origine da un fatto del genere.
57. L'argomento tratto dall'uniformità
della configurazione, che da solo è molto forte, acquista molta più forza dalla
conformità nell'anatomia o nella disposizione delle parti interne; e tale
conformità, che si riscontra tra uomini marini e terrestri, è provata dall'esame
anatomico, fatto dal medico del Viceré di Goa, e di cui abbiamo dato notizia nel
discorso precedente, degli uomini marini
e delle donne della costa di Ceylon.
58. Per quanto riguarda i Tritoni e le Nereidi, o mostri, la cui figura è per
metà superiore a quella umana e per metà
inferiore a quella dei pesci, si può ipotizzare
che siano nati dall'enorme concubito di individui delle due specie, come nel
discorso precedente abbiamo sospettato rispettivamente dei Satiri.
§. XII
59. Il suddetto caso citato sopra lascia
spazio anche alla possibilità che i selvaggi dell'isola del Borneo siano veri
uomini. Tutto ciò che viene trattato perché non lo siano è la loro natura
feroce, le abilitàù ridotte e la mancanza di parola. Forse quest'ultima è
l'unica cosa che li scredita come razionali, perché, nel sentire comune, l'uso
della locuzione è ritenuto un carattere che distingue infallibilmente l'uomo dal
bruto.
Ma a ciò che abbiamo sostenuto nell'ultimo Discorso, cioè che l'uso e
l'intelligenza delle parole possono estinguersi in una famiglia o stipe di
razionali, aggiungiamo ora, per dimostrare la stessa cosa per una via diversa,
l'esempio dell'uomo di Liérganes.
Quest'uomo perse la parola, perché era stato brutalizzato dalle con dizioni
provocate nel suo cervello dall'elemento acqua e dal suo strano modo di vivere e
di alimentarsi. Una vita totalmente silvestre è poco meno strana per l'uomo di
una vita acquatica. In tutte le sue operazioni è diverso, si nutre in modo
diverso, pensa in modo diverso. Una nudità continua e contemporaneamente
l'inclemenza dell'aria, a cui è sempre esposto, è altrettanto potente, rispetto
alla vita acquatica, per rovinare la tempra del suo cervello. Pertanto, non sono
solo i figli del primo, che supponiamo si siano ritirati nelle giungle, che
possono, nel modo che abbiamo spiegato nell'ultimo discorso, mancare di
locomozione, ma anche il primo può averla persa, essendo abbrutito
dall'influenza della vita della giungla.
60. Il grande Dizionario Storico ci
fornisce un esempio efficacissimo a riprova di questa questione.
Nell'anno 1661, alcuni cacciatori nelle foreste della Lituania scoprirono tra un
branco di orsi due bambini, il cui colore e i cui tratti non li facevano
assolutamente passare per umani. Gli orsi furono scacciati, ma riuscirono a
catturare solo uno dei due bambini, dopo che questi aveva opposto una grande
resistenza, usando le unghie e i denti. Lo presentarono al re di Polonia. Era in
tutto e per tutto perfettamente proporzionato, la carnagione bianchissima, i
capelli pure e il viso bellissimo, tanto che non ci fu alcuna difficoltà a
decidere di battezzarlo; alla sacra cerimonia la Regina fu la sua madrina e
l'Ambasciatore di Francia il suo padrino. Gli diedero il nome di Giuseppe e il
cognome Ursino, in allusione all'educazione che aveva avuto; ma non mostrò mai
alcun segno di ragione.
Per quanta cura si sia posta nella sua educazione, non si riuscì mai a domarlo
del tutto, né a insegnargli a parlare, sebbene non ci fosse alcun difetto
nell'organizzazione del suo linguaggio. Non è mai stato in grado di indossare
vestiti o scarpe. Mangiava anche la carne cruda, oltre che cotta. A volte
fuggiva nelle giungle, dove si dilettava a strappare la corteccia degli alberi
con le unghie e a succhiarne il succo. Infine, tutte le sue inclinazioni erano
selvagge; e sebbene fossero stati fatti studi speciali per istruirlo nelle
materie religiose, non dava alcun segno di aver raggiunto l'istruzione, tranne
il fatto che quando veniva nominato Dio, alzava gli occhi e le mani verso il
cielo; il che non poteva assolutamente essere considerato una prova di
intelligenza, perché anche i bruti sono abituati a imitare certi movimenti in
cui sono costretti a sentire tali e quali voci. Aveva nove anni quando lo
catturarono.
61. Non è facile, né importa per il nostro
scopo, indovinare per quale accidente il bambino e il suo compagno siano
cresciuti tra gli orsi.
Ciò che più facilmente si offre al discorso è che fossero figli del concubinato
di una donna infelice con uno di quei bruti, da cui subì inizialmente violenza
carnaledal quale, ma, dopo aver perso la paura e l'orrore, fu in grado di
acconsentire volontariamente ai rapporti sessuale più volte e per lungo tempo.
Potrebbe anche essere che il padre e la madre fossero della nostra specie. È
abbastanza probabile che un uomo e una donna, dopo aver commesso qualche grave
crimine, si siano rifugiati nelle asperità di una montagna all'interno di una
grotta; che vi abbiano vissuto per qualche tempo e abbiano procreato due figli;
che, mentre questi erano ancora in tenera età, uno o più orsi abbiano fatto a
pezzi i genitori o li abbiano costretti a fuggire precipitosamente da
quell'asilo, impedendo loro, a causa del terrore, di tornare in un luogo così
rischioso per accudire la prole: che gli angeli custodi di questi ultimi li
preservassero dalla crudeltà delle bestie selvatiche e che addirittura, grazie
ad un istinto parentale, li spingessero a prendersi cura di loro e a nutrirli:
se già per l'uno o per l'altro non fossero sufficienti quei tratti di sapienza e
di inclinazione benevola, che a volte sono stati sperimentati anche in bruti
feroci.
62. Comunque sia, si deve dare per scontato che il
bambino di cui stiamo parlando appartenesse alla specie umana. La sua perfetta
configurazione elimina ogni dubbio; così come non c'era alcun dubbio nel
battezzarlo, né c'è mai alcun dubbio tra i teologi in casi simili. Eppure quel
ragazzo si era talmente abbrutito da essere a malapena distinguibile per
stupidità, inclinazioni e abitudini dagli stessi orsi tra i quali era stato
allevato. A cosa si deve attribuire questo?
Non dubito che per quanto riguarda le inclinazioni e le abitudini avrebbe fatto
la maggior parte o tutto l'esempio di ciò che aveva visto eseguire dagli orsi,
la cui specie, a causa della sua tenera età, era rimasta fortemente impressa nel
suo cervello; ma per la stupidità è necessario cercare una causa non puramente
intenzionale, come quella espressa, ma rigorosamente fisica.
E cos'altro si può pensare se non il temperamento perverso del cervello,
contratto dall'irregolarità della vita selvaggia, del tutto contraria alla
costituzione naturale dell'uomo?
63. È in questo modo che i selvaggi
dell'isola del Borneo potrebbero aver avuto origine e aver contratto dalle
stesse cause la loro stupidità, la loro condizione di ferinità e la loro
mancanza di locuzione. Per quanto riguarda le altre peculiarità di questi
selvaggi, cioè che hanno una carnagione molto pelosa, un viso abbronzato e sono
molto più forti e agili di noi, nessuno negherà che tutto ciò deriva
naturalmente, e persino necessariamente, dalla vita nella giungla.
64. In effetti, i bruti stessi, che per qualche accidente passano da domestici a
selvatici, acquisiscono una tale mutazione, sia nel corpo che nella mente, che
sembrano diventare due volte bruti, e difficilmente possono essere considerati
come fratelli di razza da coloro che rimangono sempre domestici.
Sono più feroci, più stupidi, più lanosi o ispidi, più agili e più forti. Sono
della stessa specie dei domestici e si discostano da loro nell'aspetto, come gli
uomini selvaggi da quelli che vivono nella società politica. Per questo motivo,
si deve dare a questi lo stesso giudizio che ai primi, per quanto riguarda la
difformità della specie. E non ometterò che su questo punto l'autorità di
Aristotele è chiara a favore della nostra congettura, il quale (lib. 1. de
Partib. Animal. cap. 3), dopo aver sentenziato che è un errore ridurre a specie
diverse quegli animali che sotto lo stesso nome si distinguono per gli attributi
di urbani, o domestici, e selvatici:
Atque etiam silvestris, urbanique ratione ita dividere, quod error est;
dice che della stessa specie di tutti gli animali domestici se ne trovano altri,
che sono selvatici, e tra questi include anche gli uomini:
Cum omnia, quae urbana sunt, eadem silvestria quoque reperiantur, ut homines,
equi, boves, canes in terra Indica, sues caprae, oves.
In queste terre non conosciamo alcuna specie di animali, che si dividono in
domestici e selvatici, tranne il maiale. In altre regioni ce ne sono molte. Ciò
che può suscitare una certa ammirazione è che Aristotele conoscesse gli uomini
selvatici. In effetti li conosceva, e la sua opinione è che siano della stessa
specie della nostra; così come i maiali selvatici, comunemente chiamati
cinghiali, sono della stessa specie di quelli domestici.
65. Forse le nostre congetture potrebbero
essere estese fino a quelle specie scimmie agilissime, di cui abbiamo dato
notizia nell'ultimo discorso, citando Plinio, che ne ha parlato, e Padre Le
Comte, che le ha viste.
È certo che tra i vari tipi di animali, compresi sotto il nome comune di
scimmie, ve ne sono alcuni in cui brilla una così squisita sagacia,
un'imitazione così vivace dell'intelligenza e persino delle inclinazioni e degli
affetti umani, che sono necessari principi più certi di quelli della filosofia
comune per distinguere la loro razionalità dalla nostra. È divertente, a questo
proposito, l'illusione o l'imbroglio di un vecchio Morabuto (un sacerdote o
religioso maomettano), di cui parla padre Labat nella sua nuova Relation of West
Africa, in occasione della trattazione di alcune scimmie estremamente astute e
maligne, che si trovano nel Paese di Tuabo.
Il suddetto Morabuto, parlando con un mercante europeo, gli disse con tutta la
serietà e la saggezza di un uomo perfettamente istruito sulla storia di quelle
scimmie, che la loro origine derivava da un Popolo selvaggio, i cui abitanti, a
forza di camminare continuamente esposti all'aria e sugli alberi, si erano
sfigurati fino ad assomigliare più alle bestie che agli uomini; ma senza perdere
nulla del loro antico portamento. Aggiunse (questa è la cosa più divertente),
che comprendevano molto bene la lingua del paese e la parlerebbero perfettamente
se volessero; ma fingevano ingannevolmente di non capirla, per evitare che i
signori dei luoghi li facessero schiavi e li costringessero a lavorare, o li
vendessero per lo stesso scopo ai mercanti francesi, e perciò usavano tra loro
un'altra lingua, sconosciuta agli abitanti di quella terra.
66. Ho detto che i principi della
filosofia comune non sono sufficienti a distinguere la razionalità di alcune
scimmie da quella umana. Il motivo è che la filosofia comune non trova, né
esiste, una via di mezzo tra un impulso cieco, che chiamano istinto e che è
destinato alla gestione dei bruti, e la perfetta razionalità, o discorso,
propria dell'uomo. Ma è più chiaro della luce del giorno che un impulso cieco è
insufficiente per le innumerevoli operazioni delle scimmie, nelle quali sono
evidenti una destrezza e una sagacia ammirevoli; così che non resta altra
soluzione che attribuire loro una razionalità perfetta, pari a quella dell'uomo.
Ma nella nostra Filosofia particolare non c'è questo imbarazzo, perché
attribuendo una razionalità o un linguaggio inferiore ai bruti, secondo le
limitazioni che abbiamo proposto nel Volume III, Discorso IX, rimane aperto il
terreno per ampliare o restringere rispettivamente questa razionalità nelle
diverse specie di bruti a seconda delle maggiori o minori apparenze di industria
che si scoprono in loro; ma senza mai toglierla dalla classe in cui queste
limitazioni la collocano.
67. Quindi, per quanto si possa osservare una certa
sagacia in alcune caste di scimmie, ciò non implica affatto, nemmeno in via
congetturale, che esse abbiano avuto origine dalla nostra specie. Ma nelle
scimmie viste da Padre Le Comte si aggiungono la somiglianza di configurazione
con la nostra e altri segni che abbiamo accennato nel discorso precedente.
Ciononostante, dobbiamo convenire che si tratta essenzialmente di veri bruti. Il
motivo è che se con questa somiglianza con l'uomo li abbiamo fatti rientrare
nella nostra specie, per la legge delle buone conseguenze questa nobile
prerogativa dovrebbe essere estesa anche a bruti molto diversi da noi, facendo
una progressione discendente per quanto riguarda la somiglianza tra le varie
specie di bruti. Mi spiego: se quelle scimmie sono della nostra specie per la
loro somiglianza con noi, allora saranno della loro specie anche altre scimmie
che, pur essendo meno simili a noi, sono più simili a loro che a noi: allora
anche questa seconda casta di scimmie avrà origine nella specie umana,
supponendo che la prima casta di scimmie appartenga a questa stessa specie.
Passiamo a una terza casta, i cui individui sono molto simili alla seconda, ma
più diversi dagli uomini rispetto alla seconda. La stessa conseguenza si
verificherà in queste; e in questo modo si procederà all'ibridazione con alcune
specie di bruti, con i quali non abbiamo la minima somiglianza, né nella figura,
né nelle inclinazioni, né nelle operazioni.
68. Non mi sfugge che lo stesso argomento potrebbe essere
ritorto contro i selvaggi del Borneo, né mi manca una risposta per questa
ritorsione. Ma in un argomento che tratto in modo problematico, non è
necessario spingere la questione fino ai suoi ultimi termini, in cui sarebbe
inevitabile anche l'inconveniente della prolissità.
Abbiamo filosofeggiato abbastanza sulla storia pellegrina del nostro
Nuotatore.
D. Fr. Benito Jerónimo Feijoo y Montenegro
Nueva impresión,
en la cual van puestas las adiciones del Suplemento en sus lugares
Madrid
MDCCLXXVIII
www.colapisci.it
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