STORIA VERA
Libro I Libro II
6)
... venimmo sbattuti dalla tempesta per settantanove giorni.
L'ottantesimo, apparso d'un tratto il Sole, scorgiamo lontano
un'isola alta e boscosa, alle cui rive mormoravano lievemente le
onde: la furia della tempesta ormai s'era andata calmando.
Approdammo e, sbarcati, saremmo a lungo rimasti per terra , scampati
com'eravamo ad un sì grande travaglio; tuttavia ci rimettemmo in
piedi e scegliemmo trenta di noi per restare a guardia della nave,
mentre venti, con me, sarebbero saliti ad esplorare l'isola.
In questa strana isola i nostri avventurieri poterono trovare
ristoro presso le acque di un fiume che traeva la sua origine, non
da sorgenti, bensì da viti cariche d'uva,
(7)
... le cui radici stillavano
gocce di vino puro. I molti pesci che vi nuotavano avevano il colore e il sapore
del vino, tanto che una volta mangiati provocavano ubriachezza. Oltre il guado
del fiume, Luciano e i suoi compagni, trovarono altre viti, ma del tutto
insolite:
(8)
...nella parte che usciva di
terra, nel tronco, erano rigogliose e grosse, nella parte superiore, invece,
erano donne, perfette dai fianchi in su, come nel nostro mondo dipingono Dafne
in atto di trasformarsi in albero mentre Apollo la sta afferrando.
Dalla punta
delle dita nascevano i tralci, pieni di grappoli, e viticci, foglie e grappoli
avevano per capelli.
Ma l'affabilità dimostrata da queste strane creature in
principio, celava il pericolo di rimanere intrappolati nelle loro radici, come
accadde a due dei suoi compagni.
Fatto rifornimento d'acqua e di vino, fuggirono
di corsa da quel luogo, ma una volta salpati il pericolo li attendeva di nuovo
in mare; infatti un terribile uragano li sollevò dalla distesa d'acqua e li
tenne sospesi per ben sette giorni e sette notti.
L'ottavo riuscirono ad
ancorarsi ad un isola e vi scesero.
Mentre esploravano il paese, furono
catturati dagli Ippogrifi, uomini che si servono di grandi uccelli come cavalli,
e da essi condotti al cospetto del re.
Quest'ultimo, Endimione, era stato
strappato dalla terra un giorno mentre dormiva, per giungere poi in quel paese
che noi chiamiamo Luna.
In quei giorni, egli stava combattendo una guerra contro Fetonte, il re del Sole, che da tempo lo infastidiva. Luciano e i suoi folli
navigatori vennero coinvolti nella spedizione militare del giorno seguente,
accettando di buon grado di aiutare il sovrano, anche per sdebitarsi della sua
cortese ospitalità.
(13)
... Restammo dunque lì, suoi
ospiti, ed il giorno dopo, all'alba ci alzammo e, poiché le vedette annunziavano
che i nemici erano vicini, ci schierammo. Senza i salmeristi, i genieri, i fanti
e gli alleati di altri paesi, il numero degli armati era di 100000: di questi
80000 erano ippogrifi, 20000 i soldati su Ali d'erba (anche questi sono uccelli
grossissimi, coperti in tutto il corpo di erbaggi anzichè di penne, con le ali
proprio simili a foglie di lattuga). Accanto a questi erano schierati i Lancia-miglio e gli Agli pugnanti. In aiuto di Endimione erano venuti alleati
anche dall'Orsa, 30000 Pulci-saggittarii e 50000 Corri-col-vento. Di questi i
Pulci-saggittarii cavalcavano pulci grossissime, (e da questo appunto prendono
il nome), grosse ciascuna circa dodici elefanti; i Corri-col-vento sono fanti e
vengono portati dal vento, senza ali, a questo modo: si legano ai fianchi delle
tuniche lunghe fino ai piedi e, facendole gonfiare dal vento a guisa di vele,
sono trasportati come navi. Per lo più tali combattenti hanno in battaglia il
ruolo di truppe leggere.
Si diceva anche che dalle stelle che stanno sopra la Cappadocia sarebbero venuti 5000 Cavalli-gru, ma, siccome non vennero, io non li
vidi e per questo non oso descriverne la natura: si raccontavano infatti su di
loro cose prodigiose e incredibili.
(15)
... Quando venne il momento si
disposero a battaglia così: gli Ippogrifi e il re coi i suoi migliori uomini, e
noi con questi, tennero l'ala destra, gli Ali-d'erba l'ala sinistra : al centro
stettero gli alleati, ciascuno col proprio contingente di armati. I fanti circa
60000 furono schierati a questo modo.
ascono presso quella gente molti e grossi
ragni, molto più grandi ognuno, delle isole Cicladi: a questi Endimione ordinò
colla loro tela lo spazio di cielo fra la Luna e Lucifero. Appena ebbero
compiuta l'opera e fatta la pianura, vi dispose la fanteria, al comando di
Notturno, figlio di Sereno, e di altri due. Così il piccolo regno della Luna si
preparava alla battaglia.
La battaglia fu lunga e sanguinosa, e si concluse con
la sconfitta di Endimione, e la cattura dei nostri eroi da parte di Fetonte.
Questo non distrusse la città, come sarebbe lecito aspettarsi da un crudele
vincitore, ma innalzò un irto muro di nuvole nello spazio di cielo tra il Sole e
Luna, cosicché quest'ultima sarebbe vissuta per sempre nell'oscurità.
Trovatosi
allora in tale disperata situazione, Endimone mandò i suoi ambasciatori sul Sole
per domandare il ritiro di quella pena, mostrandosi disposto anche a pagare
tributi a Fetonte, il quale acconsentì a queste condizioni e così il muro venne
abbattuto e i prigionieri liberati, ciascuno secondo il prezzo stabilito.
Inoltre
i Lunari si impegnarono a non impugnare più le armi contro i solari, ma ad
essere loro alleati in caso di attacco, e il re dei lunari pagherà ogni anno al
re dei solari, un tributo di 10000 anfore di rugiada e come garanzia darà 10000
dei suoi in ostaggio. Liberati definitivamente, i nostri eroi ripresero il loro
viaggio.
(22)
... Voglio ora dire le cose
strane e meravigliose che vidi nella Luna durante il tempo che vi restai. Prima
di tutto non nascono dalla donna, ma dall'uomo: si sposano infatti tra maschi e
della donna non conoscono addirittura neppure il nome. Fino a venticinque anni
ciascuno fa la parte della femmina, da quest'età in poi quella del maschio.
Portano non nel grembo ma nel ventre delle gambe. Il polpaccio infatti,
concepito l'embrione, ingrossa, e dopo un po’ di tempo, mediante un'incisione,
ne estraggono dei feti morti, che rendono vitali esponendoli al vento a bocca
aperta.
(23)
... Quando un uomo invecchia
non muore, ma dissolvendosi in fumo, diventa aria. Il cibo è uguale per tutti:
acceso il fuoco, arrostiscono sui carboni delle rane (ce ne sono tante nel loro
paese e volano nell'aria) e, man mano che vengono arrostite, seduti in cerchio
come intorno ad una tavola, leccano il fumo che ne esala, e banchettano. Questo
è il loro cibo; per bevanda hanno aria spremuta in un calice, dalla quale esce
un liquido simile a rugiada....Bello presso di loro è ritenuto chi è calvo e
senza capelli, mentre hanno addirittura orrore per chi è fornito di
chiome.
(24)
... Sgorga dal loro naso,
quando se lo soffiano, un miele di sapore molto acre e, ogni volta che compiono
qualche sforzo o fanno ginnastica, il loro corpo si irrora di latte: sicché
facendovi gocciolare un po' di quel miele, ne fanno anche formaggio. ...
Hanno
molte viti, che danno acqua: infatti gli acini dei grappoli sono come chicchi
di grandine e io credo che, quando il vento piomba su quelle viti e le scuote,
allora quegli acini si staccano e cade sulla terra la grandine. Della pancia poi
ne servono come una bisaccia, riponendovi, poiché si può aprire e chiudere,
tutto ciò di cui hanno bisogno. Internamente non si vedono né intestini né
fegato né alcun'altra cosa, se non pelame tanto folto che i bambini, quando
hanno freddo, vi entran dentro.
(25)
...I ricchi hanno vestiti di
morbido vetro, i poveri di tessuto di rame, di cui quel paese è molto ricco, che
lavorano spruzzandolo d'acqua a mò di lana. Provo ritegno adire che occhi hanno,
per timore che qualcuno creda che io racconti frottole....Hanno occhi
asportabili e, chi vuole, se li toglie e resta cieco finchè non abbia necessità
di vedere : allora se li rimette e vede.
(26)
... Nella reggia vidi anche
un'altra meraviglia. C'è, sopra un pozzo non molto profondo, un grandissimo
specchio; se uno scende nel pozzo sente tutto quello che si dice da noi sulla
terra, se poi guarda nello specchio vede tutte le città, tutti i popoli, come se
ci stesse sopra ...
Se mai qualcuno non crede che queste cose stiano così, nel
caso che giunga lassù saprà che dico il vero.
Salutato il re e salpati dalla
Luna, la nostra compagnia passò davanti a molte città, fino a giungere al calar
della sera in quella di Lucernaria, che si trova tra le Pleiadi e le Iadi, molto
più in basso dello Zodiaco.
Qui non trovarono esseri umani, ma un popolo di
lucerne animate, che come gli uomini, avevano ognuna un proprio nome, e una
propria casa, e che li accolsero benevolmente, offrendogli ospitalità per la
notte. La reggia della città è posta al centro di essa, e il re siede sul trono
per tutta la notte chiamandole un ad una, e se qualcuna risponde, è condannata
a morte: cioè essere spenta.
La mattina seguente ripartirono, e non poterono
distinguere l'oceano prima di tre giorni, a causa del loro incessante navigare
nell'aere. Il quarto giorno, dalla gran gioia di essere finalmente stati deposti
in mare, Luciano e la sua compagnia si diedero a nuotarvi dentro.
Ma, una balena
d'incredibili dimensioni e di terribile aspetto, si avvicinava verso di loro.
Terrorizzati e atterriti, tutti aspettarono di essere inghiottiti, cosa che
accadde anche per la nave. Nella pancia della balena lo spettacolo era di morte
e desolazione, pesci e mostri marini maciullati, vele di navi ed ancore sparse
per ogni dove, e la luce scompariva ogni volta che la balena chiudeva la bocca,
sprofondandoli nel buio più opprimente.
Dapprima i nostri eroi si fecero
prendere dallo sconforto, ma poi abituatisi a quel soggiorno, scoprirono persino
di non essere soli; nella pancia dell'orribile mostro, infatti, c'era anche un
altro uomo, costretto a vivere come un essere marino. Questo li ospitò nella
casa che si era incredibilmente costruito nella pancia della balena, e gli
raccontò la sua storia.
Egli era stato inghiottito ventisette anni prima,
insieme ai superstiti dell'equipaggio della sua nave, e dopo aver costruito un
tempio a Poseidone, e resi gli onori necessari ai morti, si erano rassegnati a
vivere dentro la balena. Infatti erano più di mille ad abitare l'orribile
animale, e, sebbene gli altri fossero inospitali e di orribile aspetto,
sconfiggerli sarebbe stato possibile, in quanto erano disarmati, ed avrebbe
significato poter risieder per il resto della loro vita, nella pancia della
balena, senza essere disturbati da nessuno. Così, tornati alla loro nave si
prepararono all battaglia. Il giorno seguente sconfissero i Testa-di-tonno, i
Mani-di-granchio, e i Tritonocapri, in una sanguinosa battaglia che fece
risuonare la balena come una spelonca.
I nostri eroi non vollero stringere
alleanza con i sopravvissuti dei due popoli, e così, vedendosi a mal partito,
questi fuggirono attraverso le branchie, preferendo buttarsi in mare.
Così
passarono un anno e otto mesi, senza che nessuno li disturbasse, e nel quale
poterono dedicarsi alle attività più disparate, come la ginnastica, la caccia o
il lavoro della vigna. Ma ben presto non sopportarono più di vivere dentro la
balena, ed escogitarono di darle fuoco, per costringerla a farli uscire. La
balena cominciò a soffrire il calore solo dopo sette giorni, ma fu nel
sedicesimo che si resero conto che avrebbero rischiato di morire nella sua
carcassa se non le avessero impedito di chiudere la bocca. Così, posizionate
delle travi tra i suoi denti, allestirono una nave piena di acqua e viveri, e
uscirono di lì.
Ma una volta ripresa la navigazione, un forte vento da Nord
ghiacciò tutto il mare, e furono costretti ad aspettare che tornasse il caldo
per proseguire. Il vagabondare li condusse in un mare di latte, nel quale
sorgeva un'improbabile isola che in realtà era un cacio gigante, e nella quale
crescevano numerose viti da cui non si ricavava vino, ma latte. Qui trascorsero
otto giorni, e poi ripresero a navigare non più nel latte, ma nell'acqua salata;
la stranezza questa volta, stava in alcuni uomini, simili a loro nell'aspetto,
tranne che per i piedi; erano infatti chiamati Piè-di-sughero, e questa
diversità gli permetteva di camminare sul pelo dell'acqua.
Furono loro compagni
di viaggio per un piccolo tratto, e poi li salutarono dirigendosi verso al loro
patria Sugheria, un isola costruita su un grande pezzo di sughero, di fianco
alla quale sorgevano altre piccole isole. Una di queste emanava un profumo così
gradevole, mandava nell'aria cinguettii di uccellini, creando un'atmosfera così
invitante che i nostri eroi decisero di sbarcarvi. Ma avvicinandosi sentirono
voci concitate, come di alcuni litiganti. Sull'isola trovarono dei guardiani che
li condussero dal signore di quel luogo: Radamanto, infatti erano giunti nella
mitica isola dei beati.
Non si erano comunque sbagliati, e Radamanto
stava cercando di dipanare alcune contese. La prima riguardava Aiace Telamonio;
si discuteva se dovesse o no essere ammesso tra gli eroi, perché accusato di
pazzia. Radmanto dunque decise che fosse affidato alle cure di Ippocrate, ed in
seguito ammesso al banchetto degli eroi.
La seconda era sorta intorno ad Elena,
per decidere se dovesse vivere con Teseo o con Menelao; e in questo caso
Radamanto decise che stesse con Menelao, poiché aveva tanto sofferto per quel
matrimonio.
La terza ed ultima causa fu per dare la precedenza ad Alessandro,
figlio di Filippo, o ad Annibale, il cartaginese, e a spuntarla fu il primo dei
due, a cui fu posto un trono vicino al re di Persia, Ciro. Ma anche i nostri
eroi furono processati, e quasi di buon grado, visto che c'era tra i giurati
anche Aristide l'ateniese, il Giusto.
La risposta fu che avrebbero dovuto render
conto della loro eccessiva curiosità dopo la morte, e che pertanto potevano
restare sull'isola e godersela per non più di sette mesi.
(11)
... Ci caddero automaticamente
i serti di rose e, resi da quel momento liberi, venimmo condotti in città, al
banchetto Beati. La città è tutta quanta d'oro, le mura che la cingono sono di
smeraldo; ha sette porte, tutte di cannella, d'un sol pezzo; la pavimentazione
e il suolo entro le mura sono d'avorio. I templi di tutti gli dei sono costruiti
con berillo, e vi sono altissimi altari d'ametista, sui quali fanno le ecatombe.
Torno torno alla città scorre un fiume di essenza profumata, squisita, della
larghezza di cento cubiti regali e profondo cinquanta, sicché lo si può
facilmente navigare. Hanno per bagni edifici grandissimi, di vetro, riscaldati
con cannella: nelle vasche, anziché acqua, c'è rugiada calda.
(12)
... Usano per vestirsi sottili
ragnatele, di colore porporino. Privi di corpo, sono impalpabili e senza carne;
hanno, e lo si vede, solo figura e forma, tuttavia, pur senza corpo, stanno
fermi, si muovono, pensano e parlano: insomma sembra che l'anima vada in giro
nuda, rivestita di un qualche cosa che somiglia al corpo.
Senza toccarli non si
potrebbe dimostrare che non è corpo quello che si vede. Sono come ombre che
stanno dritte, però non di colore scuro. Nessuno invecchia, ma ognuno resta in quell'età che ha quando ci giunge.
Non c'è né il buio della notte né la
luminosità del giorno; avvolge bensì la terra una luce simile all'albore
dell'Aurora, quando non è ancora sorto il sole. Conoscono in tutto l'anno una
sola stagione; è sempre primavera e spira un solo vento, zefiro.
(13)
... Il paese è ricco di fiori
d'ogni genere di ogni sorta di piante, da giardino e ombrose: le viti mettono
germogli dodici volte all'anno e danno frutti ogni mese, i melograni, i meli, e
le altre piante danno frutti tredici volte, mi dicevano, perché in un mese,
quello che chiamano di Minosse, fruttificano due volte. Anziché grano le spighe
producono, sulla loro cima, pani bell'e pronti, come funghi.
Intorno alla città
ci sono 365 fontane d'acqua, e altrettante di miele, 500 di profumo, più piccole quest'ultime, 7 fiumi di latte e 8 di vino.
(17)
... Voglio dirvi anche quali
personaggi illustri vidi lassù: tutti i semidei e gli eroi che mossero contro
Troia eccetto Aiace di Locri; lui solo dicevano che era punito nel paese degli
empi. Tra i non greci vidi i due Ciri e lo scita Anacarsi e il tracio Zalmoxis e
l'italico Numa e poi anche Licurgo spartano e Focine e Tello ateniese e i
sapienti, eccetuato Periandro.
Vidi anche Socrate, figlio di Sofronisco, a
conversazione con Nestore e Palmede; intorno c'erano Giacinto spartano, Narciso
di Tebe, Ila molti altri e bei giovani.
(19)
Questi dunque erano i più
illustri dei presenti. Sopra ogni altro onorano Achille e, dopo di lui, Teseo.
Circa i rapporti sessuali e le faccende d'amore, la pensano così: si
congiungono apertamente, alla vista di tutti, con uomini e donne, e questo non
sembra affatto sconveniente. Solo Socrate giurava di accostarsi ai giovani senza
secondi fini, ma tutti pensavano che spergiurasse; lui negava, ma spesso
Giacinto e Narciso confessavano. Le donne sono comuni a tutti e nessuno è geloso
del vicino: in questo sono quanto mai seguaci della dottrina di Platone.
I
ragazzi si offrono a chi li desidera senza, obbiezione alcuna.
Luciano, nel
periodo che trascorse sull'isola dei beati, spesso si dilettò ad interrogare
Omero sui grandi misteri che ottenebravano la sua vita presso gli antichi. E in
questo modo venne a sapere che presso i suoi concittadini era chiamato Tigrane,
anche se non specifica il nome della sua contestata patria, e che i versi a lui
attribuiti erano realmente tutti suoi. E così trova anche il modo di farsi beffa
dei grammatici dell'epoca, (scopo col quale aveva cominciato a narrare le sue
inverosimili avventure) che sostenevano diverse congetture sui questi punti
cardine.
Tra i Beati si tenevano dei giochi detti Tanatusie, che Achille stesso
organizzava per la quinti volta e Teseo per la settima. I giochi descritti
sembrano del tutto simili alle Olimpiadi, e per tutti il premio era uguale: una
corona intrecciata di penne di pavone.
Ma nemmeno l'isola dei Beati poteva dirsi
immune dai conflitti, e appena finiti i giochi fu annunciato che i detenuti del
paese degli empi si erano liberati dalle catene e si dirigevano minacciosamente
verso di loro.
Così Radamanto schierò gli eroi sulla spiaggia, comandati da
Achille, Teseo e Aiace Telamonio, ma fu soprattutto grazie agli sforzi del primo
che i Beati ebbero la meglio. Catturati i vinti li ricondussero nuovamente a
scontare la pena, resa però più grave. Omero descrisse in un poema anche
quest'ultima battaglia, e lo consegnò a Luciano e ai suoi compagni, perchè lo
portassero agli uomini, ma durante le loro peripezie andò perduto.
Ma durante il
sesto mese delle loro permanenza accadde un fatto interessante. Il figlio di Scintaro, Cinira, si era innamorato della bella Elena, e lei pareva ricambiarlo
di buon grado. Così progettarono il rapimento della stessa Elena, servendosi
dell'aiuto di tre dei compagni di Luciano, con l'intenzione di rifugiarsi in una
delle isole vicine.
Una notte dunque, atteso che Menelao si addormentasse,
Cinira e i tre audaci navigatori si introdussero nelle stanze di Elena e al
rapirono. Verso mezzanotte Menelao svegliatosi e avendo trovato il letto vuoto,
si recò dal re Radamanto e venne organizzata in tutta fretta una spedizione di
navi che in poco tempo avvistò i fuggiaschi e li catturò trascinando la loro nave
nel porto legandola con una catena di rose. Cinira e gli altri tre vennero
fustigati e condotti nel paese degli empi, e a Luciano e i suoi fu intimato di
andarsene entro il giorno seguente.
Colto dallo sconforto Luciano chiese a Radamanto di predirgli il futuro dei suoi viaggi, e seppe che avrebbe dovuto
affrontare molte altre difficoltà, ma prima o poi sarebbe ritornato in patria e
non molto lontano nel tempo un trono posto tra quelli dei più grandi eroi, lo
attendeva sull'isola, dunque lo salutò consegnandogli una radice di malva a cui
indirizzare le sue preghiere nel momento del bisogno.
Prima della loro partenza
Omero dedicò a Luciano un'iscrizione, e Ulisse, di nascosto a Penelope, gli
consegnò una lettera da portare a Calipso. Quando finalmente salparono, appena
allontanatisi dall'isola, il profumo fu sostituito da un forte e disgustoso
odore di zolfo, di bitume e di pece, come bruciassero insieme, e i canti degli
uccelli dalle grida e dai pianti di molti uomini. Essi provenivano da un isola
vicina: l'isola degli empi.
Sbarcati sull'isola si accorsero che il terreno era
arido e scosceso, nella desolazione del paesaggio si incespicava solo in folti
rovi, e presso il luogo di tortura crescevano aculei e spade come erba, e
scorrevano tre fiumi: uno di fango, uno di sangue e uno di fuoco. Per tutti e
tre c'era un solo passaggio sorvegliato da Timone ateniese. Riuscirono a passare
guidati da Naupilo, e riconobbero molti re e molti comuni cittadini, tra cui
anche Cinira, puniti per aver ingannato dicendo e scrivendo menzogne, come
Ctesia di Cnido ed Erodoto.
La vista di quei tormenti atroci divenne così
insopportabile che abbandonarono l'isola, e ripreso il mare giunsero di lì a
poco nell'isola dei sogni.
(33)
Si erge intorno ad essa una
selva: le sue piante sono papaveri e mandragore, dove stanno appollaiati un
gran numero di pipistrelli (è questo l'unico uccello che nasce nell'isola).
Nei
pressi scorre il fiume chiamato dagli abitanti Vaga-di-notte; vicino alle porte
ci sono due fontane, che hanno esse pure il loro nome, l'una Sonneterno, l'altra
Nottintera. La cinta delle mura della città è alta e di vari colori, proprio
come quelli dell'arcobaleno. Le porte non sono due, come ha detto Omero, ma
quattro, e guardano due verso la pianura dell'indolenza (una di ferro, l'altra
di mattoni, attraverso le quali si diceva che uscissero i sogni paurosi,
micidiali, funesti), due verso il porto ed il mare (una di corno, per la quale
passammo noi, l'altra d'avorio).
Sulla destra di chi entra in città si trova il
tempio consacrato alla Notte che, insieme al Gallo, il cui tempio è costruito
vicino al porto, è venerata in sommo grado tra tutti gli dei; sulla sinistra c'è
invece la reggia del Sonno.
Questi detiene il potere coadiuvato da due
governatori e sottocapi, Turbatore, figlio di Nativano, e Soldi-e-fama, figlio
di Fantasione. In mezzo alla piazza c'è una fontana detta l'Assonnata, e vicino
a questa due templi, uno di Inganno e uno di Verità: qui è il loro sacrario e
il loro oracolo a cui sovraintende facendo profezie Antifonte, interprete dei
sogni, al quale questo ufficio è stato concesso dal Sonno.
Alcuni dei sogni, tra
quelli più delicati e piacevoli, accolsero benevolmente tutti loro, e facendoli
addormentare, promisero cariche importanti, e ricchezze d'ogni sorta, e
condussero alcuni in patria, nella loro casa; ma tutti furono improvvisamente
svegliati da un tuono, e salparono in fretta e furia. Dopo tre giorni giunsero
nell'isola di Ogigia, dove furono benevolmente accolti da Calipso, a cui fu
consegnata la lettera in cui Ulisse diceva quanto rimpiangesse di averla
lasciata.
Il soggiorno sull'isola di Ogigia fu molto breve e il mattino
seguente, in mare, incontrarono le Zucche-pirati, che esercitavano la pirateria
in quei luoghi. Erano così detti perchè navigavano su grandissime zucche, e li
attaccarono ferendoli con i semi delle zucche stesse, ma il combattimento fu
presto interrotto dall'arrivo dei Nocenauti, uomini che navigavano su gusci di
noce, che a loro volta attaccarono gli Zucche-pirati.
I nostri avventurieri
levarono in fretta le vele da quel luogo, e proseguirono il viaggio. Nella notte
urtarono senza accorgersene contro un enorme nido di alcione che covava uova
contenenti pulcini di prodigiose dimensioni. Ma, allontanatisi da questo, una
serie di strani prodigi non lasciava presagire nulla di buono: il papero della
prora cominciò ad animarsi, il loro pilota, da tempo calvo, a riavere i capelli,
e l'albero della nave a germogliare.
Proseguendo si trovarono di fronte a quella
che sembrava una foresta d'alberi, e quindi la terraferma, ma gli alberi
galleggiavano sulla superficie dell'acqua e dunque pensarono di attraversarli
issando la nave sulle cime degli alberi, fino a che non fossero di nuovo giunti
nel mare. Ma vennero travolti da una voragine d'acqua, che si era formata a
causa della divisione delle acque, e riuscirono fortuitamente a valicare un
ponte d'acqua che collegava i due mari, giungendo in un isola dimora di selvaggi
chiamati Testa-di-bue, simili al Minotauro. Questi subito li attaccarono e
uccisero tre di loro, ma anche gli avventurieri navigatori fecero dei
prigionieri che barattarono con del cibo. Lungo il cammino incontrarono uomini
con uno strano sistema di navigazione consistente nell'utilizzare il loro corpo,
ed altri che si facevano trainare da delfini su zattere di sughero.
Approdarono
in un'isola abitata solo da donne, che li accolsero fin troppo benevolmente per
non sospettare. Infatti esse si nutrivano degli ospiti che approdavano sulla
loro isola, e Luciano, accortosi di ciò, pregò la malva di aiutarli a scampare
tutti quei pericoli imminenti.
Così fu, e radunati salparono di nuovo. Giunsero
poi, finalmente sulla terra ferma, e pensarono che fosse il continente opposto a
loro, ma le avventure che capitarono da quel momento in poi, sono narrate in
altri libri.
LUCIANO DI SAMOSATA
Luciano naque a Samosata, città della Siria posta
sulle rive dell'Eufrate, verso il 125 d.C., da una famiglia di modeste
condizioni.
Per la sua particolare propensione per la
scultura, i suoi genitori, al termine degli studi elementari, lo misero a fare
l'apprendista presso uno zio materno, scultore di professione. Ma la sua inesperienza causò numerosi danni a
quest'ultimo, e Luciano decise di riprendere gli studi.
Dove e con chi li abbia compiuti non lo sappiamo;
forse nelle scuole di retorica della Ionia. Verso i 25 anni esordì come avvocato ad Antiochia,
ma per obbedire al suo spirito critico ed insofferente, lasciò presto la
professione per la vita da sofista.
Compì lunghi viaggi in Asia Minore, in Grecia, in
Macedionia,in Gallia dove tenne anche una cattedra di retorica.
Quando poi tornò ad Antiochia stabilì contatti con
Lucio Vero, durante la guerra coi Parti, poi da Samosata si trasferì ad Atene,
dove rimase per vent'anni, fino a quando, forse per desiderio di una vita più
tranquilla, si stabilì ad Alessandria d'Egitto, dove morì verso la fine del
secolo.
Le sue opere si compongono di ottantadue scritti,
dei quali non tutti autentici, tra i restanti ricordiamo: l'autobiografico
Sogno,la monografia Come si deve scrivere la storia, i Dialoghi
dei morti, i Dialoghi degli Dei, i Dialoghi marini, i
Dialoghi delle cortigiane, il Gallo, le Sette all'incanto,
Sulla morte di Peregrino.
Luciano di Samotata
Originale in
comune.bologna.it
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