Prometeo incatenato

Tifeo sorregge la Sicilia
(Tifone)

[...]

Promèteo:
Ahimè, che avviene? A contemplar mie doglie
ancor tu giungi? E come ardisti mai,
lasciando il flutto che da te si noma,
e le volte di roccia, onde Natura
i tuoi spechi inarcò, sopra la terra
madre del ferro, il pie' muovere? Giungi
a veder le mie pene, a pianger meco?
Ecco ciò che veder tu puoi: l'amico
di Giove, quei che seco estrussi il regno,
sotto che strazi, sua mercè, mi fiacco.


Ocèano:
Prometèo, ben lo veggo; e consigliarti
vo' pel tuo meglio, benché tu sei scaltro.
Rientra in te: nuovi costumi adotta,
ché il Signore dei Numi anch'egli è nuovo.
Se parole cosí scabre e taglienti
tu scaglierai, t'udirà certo Giove,
se ben tanto alto siede, e allora, un gioco
ti parrà da fanciullo, il mal presente.
Su' via, tapino, bandisci la furia
che t'empie il seno, e alle tue pene cerca
qualche riscatto. A te forse parranno
triti vecchiumi le parole mie;
ma della lingua tua troppo superba
è questa, Prometèo, la triste mancia.
Ma tu non sai farti umile, non sai
cedere ai mali; ed altri procacciartene,
oltre ai presenti, vuoi. Se un mio consiglio
ti piace udir, non calcitrare al pungolo:
vedi che aspro, che assoluto è Giove.
Adesso io vado, e tenterò la prova
se ti posso scampar da queste pene.
Tu rimani tranquillo, e audace troppo
il tuo labbro non sia. Sempre il castigo
s'appiglia a troppo temeraria lingua:
sei tanto sapïente e questo ignori?

Promèteo:
Felice te, che la mia doglia ardisci
partecipare, e fuor di colpa resti!
Ma lasciami or, di me cura non darti.
Modo non v'è che tu possa convincermi.
Bada a te stesso, fa' che il tuo viaggio
non ti debba fruttar qualche cordoglio.

Ocèano:
Molto piú vali a dar consiglio a quanti
ti son vicini, che a te stesso. I fatti,
non le parole, me ne dànno prova.
Accinto io sono già: né trattenermi
ti piaccia: io mi lusingo, io mi lusingo
che Giove il dono di mandarti libero
da queste pene a me voglia concedere.

Promèteo:
Io ti son grato, e sempre ti sarò,
che del tuo buon voler nulla risparmi.
Ma pur, non affannarti: affanno vano
il tuo sarebbe, e senza utile mio.
Sta tranquillo, e da me tien lunge il piede.
Non perché sono io misero, vorrei
che sciagura incogliesse ad altri molti.

No, che mi rode anch'essa il cuor, la sorte
d'Atlante fratel mio, che ritto sta
nelle contrade d'Espero, e con gli òmeri
la colonna del cielo e de la terra
sostiene, immane pondo. E il cuor mi pianse,
quando il figlio di Gea, l'abitatore
degli spechi Cilicî, orribil mostro
che spira furia da cento cerèbri,
mirai domato da la forza. Ei stette
a faccia a faccia contro i Numi tutti,
sibilando terror da le mascelle
spaventevoli; e vampo mostruoso
folgoreggiavan gli occhi, e a viva forza
prostrar credea di Giove la tirannide.
Ma di Giove su lui l'insonne dardo,
il folgore piombò, che dal ciel cade
spirando fiamma; e dai superbi vanti
giú l'abbatté. Colpito entro nei visceri,
ei fu converso in cenere, e disfatto
il poter suo fra l'ululo dei tuoni.
Ed or, salma disutile, rovescio
giace nei pressi del marino stretto,
e le radici d'Etna su lui gravano.
E sta sopra le cime ultime Efèsto,
e batte il ferro incandescente; e quindi
fiumi di fuoco eromperanno un giorno,
con selvagge mascelle, e struggeranno
le piane valli e gli opulenti frutti
de la Sicilia, coi roventi strali
d'un implacabil turbine di fiamma.
Tanto furor, se bene dalla folgore
converso in bragia, ebollirà Tifone.
Ma tu ciò non ignori, e non hai d'uopo
ch'io t'ammaestri. Or, come tu sai, sàlvati:
io la sciagura mia sopporterò,
sin che di Giove non declini l'ira.

Ocèano:
O Prometèo, non sai che le parole
son medicina all'animo che soffre.

Promèteo:
Quando in buon punto un cuor molci, non quando
reprimi a forza un animo che scoppia!

Ocèano:
Nel prevedere, nel tentar, tu scopri
che ci sia qualche danno? E quale? Mostralo!

Promèteo:
Superflua pena e vana dabbenaggine.

Ocèano:
Lasciami pur tal morbo. È gran vantaggio
sembrar privi di senno, ed esser saggi.

Promèteo:
Sembrerà mio retaggio un tal difetto!

Ocèano:
Chiaro è! Le tue parole mi congedano.

Promèteo:
La tua pietà potrebbe inviso renderti.

Ocèano:
A chi sul trono sommo or ora ascese?

Promèteo:
Bada che il cuor di lui mai non si crucci!

Ocèano:
La sorte tua, m'è, Prometèo, maestra!

Promèteo:
Va', torna, serba questi tuoi propositi.

Ocèano:
Parli a chi sta già sulle mosse. I tramiti
schiusi dell'aria questo augel quadrupede
rade con l'ali già. Nei suoi presepî
il ginocchio piegar lo farà lieto.

(Ocèano parte)

[...]

 

Eschilo
Traduzione Ettore Romagnoli

 

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