Colapesce

 

La tempesta

 

 

Sdegnosi i venti d’ogni riposo
van turbinando di Scilla il mar;
e sopra un mare sì procelloso
solo un naviglio errante appar.

Tinto in vermiglio è il cielo intorno
Né ancor fra i nembi si affaccia il giorno;
solo la fiamma del vigil Faro
dà un lume all’onde pallido e raro.

Chiuso in profondo nugolo nero
Dei nembi il demone sull’onde è già:
di quel naviglio chi avrà l’impero,
chi più quei remi mai reggerà?

Spira d’intorno gelata brezza
Il fulmin solo sul mar si spezza,
nell’onde mute d’ogni splendore
rompe in scintille, balena e muore.

E tuoni a tuoni, e lampi a lampi,
metton di morte ribrezzo al cor:
imporporati del cielo i campi
son di sanguigno fiero splendor.

Ahi del naviglio rotte ha le vele
L’empia procella che imperversò;
ahi lo sommerge l’onda crudele,
preda di morte ognun restò

Solo un fanciullo bianco vestito
Sopra quei flutti andò smarrito:
pregò con voce già moribonda,
Che la madonna chetasse l’onda.

E a lui sol vista fu un’alta donna,
che d’aurea sfera luceva ai piè;
stelle alle tempie, stelle alla gonna,
dirgli, fanciullo, son io per te.

E un uom fratanto lascia le sponde,
in sua difesa corre per l’onde,
in braccio il toglie, sei salvo
dice sei salvo alfine, pargol felice.

Lo sferza il nembo, l’onda lo irrora,
fra il nembo e l’onda pur certo ei sta:
 finchè coi primi rai dell’aurora,
col fanciulletto in terra è già.

Candida fascia ai fianchi il serra,
piena di gente appar la terra:
viva Niccola, Niccola viva,
s’ode un concento lungo la riva.

V’è chi di fiori l’ha redimito,
v’è chi lo asciuga del salso umor.
Fra tanti plausi ei sol romito
Al tempio vola del redentor.

E col fanciullo votiva appende
Mistica face, che bacia e accende;
al casolare natio poi torna,
dove la vecchia madre soggiorna.

 

La coppa d’oro

 

 

Chi è colui che dell’elmo è precinto,
che una croce purpurea ha sul core,
che di lieti giullari è ricinto?
È dei sicoli regni il signore.

È lo Svevo Fedrico, seduto
Su d’un bel pomellato destriere:
dei giullari accompagna il liuto
ogni passo del buon cavaliere.

Stella d’oro nei giorni di pace,
brezza amica che spira al mattino,
ma nei campi è fiammigera face,
è scintilla del fuoco divino.

Ei si ferma; vicino ai suoi piedi
Chi son quei dal piumato cimiero?
I suoi figli - son Ezio e Manfredi -
I due figli del re cavaliero.

Ma squillare una tromba si ascolta,
una tromba d’argento, che indice
gran silenzio alla turba raccolta,
alla turba plaudente e felice.

E d’un rozzo gabbano coperto,
con sul capo una ruvida lana
ecco l’uomo dell’acque più esperto,
ecco innanzi alla corte sovrana.

Cola Pesce lo chiaman devoti
Al prodigio gli scalzi fanciulli,
Cola Pesce i veglianti piloti,
e i prodigi per lui son trastulli.

Re dell’onda il suo trono è nell’onda
E di nivee conchiglie ha corona,
d’alga il manto; e nell’acqua profonda
solo il curvo suo corno risuona.

Preso a tanto prodigio a lui dice
Lo scettrato, di Scilla vogl’io
Ti sommerga nell’imo, e felice
tu sarai, te lo giuro con Dio.

Ed orlata una coppa di gemma
Già si lancia nel vortice antico
Dalle cupe tonanti maremme,
ad un cenno del re Federico!

S’ode un fiotto… indi fiera una pace
Siede sopra il giacente Peloro…
Poi si innalza dal gorgo vorace.
Una mano col calice d’oro.

Egli è Cola, egli è Cola, oh contento!
Diero allor nei tamburi i soldati;
ed in plauso di tanto portento
furon nembi di fiori gettati.

 

Morte

 

 

Quel che siede di frassini accesi
Asciugandosi al pallido fuoco,
mentre i membri di freddo ha compresi,
in solingo ma placido luoco,
egli è Cola, che muto riposa
fra gli amplessi di madre amorosa.

Ed un ruvido desco ha vicino,
e le reti con l’amo da costa,
mentre fuma ripiena di vino
l’aurea coppa che in mano si ha posta;
E il tracanna, e ripensa quel giorno,
che dai gorghi scillei fè ritorno.

Quando batte alla porta un scudiere
Che gli tuona, e il resistere è vano,
che lo aspetta il gran re cavaliere
pria dell’alba il temuto sovrano.
Ed infiorasi l’alba e il buon Cola
Al palagio del Prence rivola;

Che gli dice, in quel gorgo ti affonda,
nuovamente o prodigio terreno,
e una coppa ti getto nell’onda,
ma il suo fondo di gemme fia pieno,
e di gemme sia cinta – ten prego
e se il neghi fia colpa il tuo nego

Una prece è sui labbri già lascia
Rattamente la riva tranquilla;
e coperto di candida fascia,
ecco entrar la vorago di Scilla.
Ecco entrar… ma lo scocco di un’ora
È passato… né sorge egli ancora.

Un femineo ululato si ascolta,
lo domandano al mare i fratelli,
e la madre canuta va in volta,
lacerando i suoi bianchi capelli;
e gridando per tutte le vie,
maledette le viscere mie!

Cade il sole… alla sera soltanto
pescator che ramingo passava,
su di Scilla udì l’aura di un canto,
vide un lume che Scilla indorava;
forse un angel mandato da Dio
trasse al cielo lo spirito pio.

Pescatori che i remi agitate,
rallumando le tremule spume,
o pregate, pregate, pregate,
del buon Cola allo spirito un lume!
Dite requie passando da Scilla,
poi tornate alla riva tranquilla.

 

 

 

Felice Bisazza
Leggende e ispirazioni
Messina, G. Fiumara
1841

 

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