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[...] Scilla si ferma poiché lì è al sicuro. Non sapendo se è un mostro o un Dio marino, ammira il suo colore e quella chioma che gli scende sugli omeri e sul dorso: si stupisce del fatto ch’esso emerga con l’inguine di un pesce sinuoso. Ne avverte lo stupore Glauco e dice: "Io non sono uno prodigio né una belva; sono, vergine, un Nume delle acque. Né Proteo né Palemone o Tritone mi vincono in potere, qui nel mare. Tuttavia fui mortale, prima d’ora: amavo l’alto mare e pure allora esercitavo l’arte in mezzo ai flutti; ritiravo le reti con i pesci, o, stando su uno scoglio, regolavo la lenza con la canna. C’è una spiaggia che delimita un prato tutto verde, della quale una parte scende in mare e l’altra è ricca d’erba, non strappata a morsi da giovenche, né brucata da pecore mansuete e capre irsute. L’ape non succhia il nettare dai fiori, né i fiori fanno serti nuziali; mai nessuno le falcia. Sto seduto sopra le zolle erbose, mentre asciugo le mie reti inzuppate, per contare ed ordinare i pesci catturati: o finiti per caso nella rete o, creduloni, penduli dall’amo. Sembra cosa non vera, ma a che serve narrare cose false? La mia preda, al contatto dell’erba, già si muove cambia posizione, e poi si rizza come se fosse in mare. Stupefatto io rimango in attesa, mentre i pesci fuggono ad uno ad uno dentro l’onda e lasciano la spiaggia ed il padrone. Io li guardo basito e mi domando se ciò viene da un Nume o da quell’erba. E dico fra me stesso: – Quale forza può avere questa erbetta? – Con la mano ne strappo un ciuffo e mordo con i denti il ciuffo che ho strappato. Non appena quel succo sconosciuto mi entra in gola, sento uno strano fremito nel petto e un impulso improvviso a trasformare la mia natura in altra. Dura poco. Io mi tuffo sott’acqua mentre dico: – O terra, ti saluto: sono certo che ti lascio per sempre –. Ed ora i Numi mi degnano, accettato, dell’onore comune a tutti, al punto da pregare ed Oceano e Teti che ogni forma mi tolgano mortale: da costoro vengo purificato con un carme cantato nove volte e liberato d’ogni mia nefandezza. Poi si vuole che affondi il petto cento volte in acqua. Subito, da ogni parte, a precipizio si riversano i fiumi, da ogni parte, ravolgendomi il capo interamente. Questo ti posso dire e raccontare ed è ciò che ricordo, poi che dopo ogni mio sentimento venne meno. Ritornato in me stesso, ben compresi ch’ero un altro nel corpo, tutto quanto, non più com’ero prima, e differente mi sembrava il pensare. Vedo prima questa barba verdastra, arrugginita, la chioma che mi vado trascinando lungo i flutti marini, e spalle immense e braccia tutte azzurre e strane gambe ricurve come pinne. A che mi giova questa forma diversa, a che mi giova l’esser piaciuto ai Numi delle onde, a che l’essere un Dio, se tutto questo non t’importa neppure?" Mormorando queste parole ed altre, lascia Scilla e, furibondo per la sua ripulsa, va negli antri di Circe prodigiosa. [...]
Ovidio
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