La leggenda del Faro

 

 

Su la costa orientale della Sicilia cala rosso il tramonto. La barca fila leggera sul mare liscio e piano, dove trema e s’allunga una striscia vermiglia di luce: mentre i gabbiani.

Errano silenziosi a volo intorno le navi immobili e nere, che ingombrano l'orizzonte solenne con una fitta foresta di cordami e d’alberi in croce. Nuvole d’un color caldo di porpora, che a mano a mano s’avviva d’un bagliore d’oro, salgono sul canale verso il cielo ampio e luminoso. Il tramonto è una festa.
Su la spiaggia dove un’ora a dietro pesava ancora d’ozio caldo del pomeriggio, è un accendersi confuso, un risveglio pieno, un viavai di gente che ha finita la siesta, e va all'aperto a respirare l'aria fresca del mare. Passan gruppi di donne a braccetto, vestite di bianco, di giallo, di rosso, con mazzi enormi di fiori sul petto, dondolando mollemente i fianchi rotondi, con ancor su’ volti floridi e bruni la traccia pigra del sonno; passan gli uomini a due, a tre, chiacchierando, fermandosi a ogni passo come come vinti da una grande stanchezza, ripigliando la via lentamente per andare a finire sur un sedile, dove rimangono fino a sera inoltrata; passan le carrozze, anch'esse adagino adagino, sena furia, come se quella di camminare fosse una fatica intollerabile a tutti.
Di tanto in tanto, veloce come una freccia, a scossoni, con un allegro fragore di di sonagliere, viene un carretto tutto dipinto da' lati; il cavallo, recando sul dorso una barda alta a tre nodi, piena di coccarde rosse, di fronzoli rossi, di banderuole rosse, che s'agita, gira, traballa, ha sotto gli orecchi due mazzi rossi di garofani che balzando gli flagellano la testa: il  carretto attraversa la folla e sparisce. Di tratto in tratto la baracca aperta d'un'acquecedrataia si leva in un sito più alto; e, dietro un monte di limoni grossi come la testa d'un bimbo, la venditrice grassa e fresca, con le maniche bianche rimboccale fino su gli omeri, eretta sotto un quadrettino della Madonna protetto a' lati da un par di corni e da una resta di peperoni rossi contro la iettatura, mesce l'acqua ghiacciata alla gente che le s'affolla dinnanzi.

Ora i monti di Scilla, brulli, ineguali, scoscesi, son quasi a fatto sommersi nell'ombra: alle falde, qualche bianco villaggio si stacca ancor tutto indorato dal sole. In fondo, l’ombra cinerea d’una montagna digrada e si prolunga sul mare in faccia a Cariddi, che s' intaglia a picco, nera ed informe, tutta incoronata da pini. Una nuvola d’un arancione cupo, sale e si stende, e in mezzo il cielo scolora in un viola tenero; e su l'orizzonte del mare accenna un pennacchio di fumo:  qualche nave che arriva. La fortezza torreggia larga e severa  nel golfo: e quattro o cinque antenne le si rizzano dietro, cullate dalla marea.

Il sole è scomparso a fatto: un velo umido e freddo cala da’ monti, confusi in una nebbia tra grigio ed azzurra, sul mare che si fa scuro.  Alla brezza ristoratrice della sera si spalancano le finestre riboccanti di fiori: e, tra’ fiori, qualche bianca figura di donna, nell’ombra, qualcosa di mosso e luccicante; forse il cortinaggio di un letto.
I palazzi sul mare distendendosi a cerchio in una fila ininterrotta, ma solo intramezzata  di tempo in tempo d’arcate  a volte profonde , che lascian vedere a tratti l’interno della città: un viale alberato, una fontana, un giardino d’aranci, la gradinata d’una chiesa, un chiosco, un gruppo di case, due palme, una statua di marmo. Le terrazze son parallele ed eguali: a intervalli, sopra l’arcate, quattro grandi colonne di stile dorico reggon l’edifizio superbo. Qualche loggia si leva più alta nell’aria, come un nido d’uccelli; a foggia di minareto orientale o di pagoda chinese o di tempio greco; un po’ tutto; i vetri schizzan lampi per un istante ancora;  poi tutto annega che cala lenta e continua.

Su la riva, fiancheggiata da due filari d’acacie verdi e fronzuti, cresce la gente, e il passeggio diviene più rumoroso. Ai piedi del molo  s’avvolge con un sospiro fievole  e basso.
L’acqua tranquilla, dove si rispecchian lunghe le cime degli alberi e il dorso bianco d'un Nettuno di pietra, ritto incontro a' palazzi. I terrazzini aperti lascian intravvedere qualche gentile mistero della vita intima: una signora in leggero accappatoio di batista, che legge lunga distesa sur una poltrona, e sorbisce una tazza di moka, fumando la spagnoletta odorosa di Levante; una ragazza alta e svelta, ancor mezzo ignuda, che stira lentamente, innanzi allo specchio, le belle braccia irrigidite dal sonno, e sbadiglia protendendo il seno tra le mobili pieghe della camicia; una coppia di sposi che si rincorrono, tra risa gioconde, intorno ad una tavola.
E dal lido giunge sul mare un ronzio vasto e confuso; un vociar languido a onde; un fracasso di ruote; e da' giardini, un effluvio fresco d'aranci e di rose, Su la spiaggia le barche dormono con le vele ripiegate lungo le antenne, l'acqua, d'un turchino cupo, quasi nero, si snoda in serpeggiamenti agili e molli, lancia bagliori metallici, s'allunga in riflessi mobili e neri, come se larghe macchie nere, d'un nero d'inchiostro, salissero da' fondi e si perdessero tremolanti e agitati verso la riva.  Su le montagne lontane e quasi a fatto perdute in un’ombra violacea il cielo ha una trasparenza rosea, dolce e sfumata che dilegua, dilegua.  D'improvviso, un chiarore sanguigno copre la zona del cielo a occidente: quasi un riflesso d'incendio.
A oriente, la sera è già caduta.
La barca sul mare cheto com'olio; e i palazzi rimangon a dietro con le loro persiane alte, verdi, agili, in arco; co' loro terrazzi che guardano, tra gl'intercolonni, sul golfo; con le loro gradinate larghe, su le quali stanno a guardia due leoni di di bronzo. Ora la spiaggia discende al mare solitaria e tranquilla: i giardini si succedono appena interrotti da qualche palazzina deserta, da qualche capanna di pescatori, da qualche chiesuola abbandonata: lungo il lido, i guardiacoste montano la sentinella. Nel cielo chiaro comincia a palpitare qualche stella; qualche fanale s'accende verso la parte estrema della città.  E il mare, che si frange in lenti fiotti alla spiaggia, ha fischi e rantoli, risa e sospiri; e narra storie dimenticate, leggende antiche ed oscure, le vecchie e meravigliose leggende della patria.

 


C'era una volta un uomo bello e gagliardo: i capelli rossi gli coprivano, come un casco d'oro, la fronte; e dalle braccia vigorose e' poteva arrestare un legno varcante, a gonfie vele, su l'acqua. Egli avea lasciato il consorzio degli uomini; e abile nuotatore com'era, viveva tra' pesci nel mar del Faro; e, perchè passava quasi tutto il tempo nell'acqua, lo chiamavano Cola Pesce. Spariva per mesi e mesi ne' gorghi del golfo; e quando tornava a riva, raccontava cose mirabili di que' fondi ch'ei solo sapeva esplorare: descriveva pianure solitarie dove l'alghe giganti s'abbracciano in lunghi padiglioni cullati a' riflussi della notte; grotte di cristallo, dove i coralli rameggiano torti e rosseggiano in arco su le pareti; conchiglie enormi, dove la perla arde come un occhio nell'ombra; valli fredde e buie dove i mostri deformi posano a sera; città fantastiche e deserte, dove le porte son d'oro, e le colonne di basalto nero si rincorrono in giro, e i portici verdi di marmo accolgono solo l'antenne rotte, le vele lacerate, l'ancore rugginose, malinconici avanzi di legni naufragati.
Ma quella vita nell'abisso lasciava un'ombra di tristezza irrimediabile sul volto di Cola Pesce: egli era sempre pallido e inquieto; parlava raro; e i suoi grandi occhi smarriti cercavan sempre nel vuoto, come in traccia d'un'ombra aerea e crudele, che gli sfuggiva sempre, che l’attirava sempre, che lo faceva impazzire di passione e di desiderio.

Canzoni e risa! Risa e canzoni! La gente accorre in folla sul lido, e re Federigo scende dalla nave ammantata di porpora, e, con a fianco la sua bella figliola mette il piede sul molo.
Ella è bianca come la spuma del mare; i suoi occhi sono azzurri come l'onda del mare; la sua bocca si schiude rosea e fresca al sorriso, come una conchiglia del mare.
Fredda, diritta, severa, incede tra il popolo acclamante, senza anco chinar la testa: l’orgogliosa creatura sente ribollirsi in petto un disgusto amaro per quella plebaglia ch'ella vorrebbe poter far caricare da' suoi be' cavalieri moreschi, che galoppano co' mantelli di lana liberi a' venti e mostrano candidi i denti nella faccia nera com’ebano.
La principessa ha una ruga di perfidia tra cigli biondi e lunghi; e dalla stoffa fiorata che le serra  il torso elegante emerge il suo collo, puro come un ligustro. Ma ella non ama se non i suoi giardini imperiali di Palermo, dove l'aria notturna è pregna dell'odor delle rose, e le vasche s'aprono al plenilunio sorrette da otto leoni di marmo; ella non ama se non il castello di Maredolce, dove le stanze hanno divani larghi come letti e la lampada piena d’olio di palma spande un profumo che induce l'amore; ella non ama se non le navate profonde delle sue chiese, che su' frontoni recano scritte le vittorie de' suoi nobili padri: ella detesta la marmaglia sudicia e rumorosa; e non di meno vuol vedere alla prova cotesto giovine audace che sfida il mare in tempesta, e non ha mai amato alcuna donna nel mondo.


Canzoni e risa! Risa e canzoni! Il molo è gremito di popolo: e sur un palco tutto ornato di sciamiti di seta siede re Federigo, e con la sua figliuola che splende al par del sole, accoglie gli omaggi del popolo e de' cortigiani.
La principessa si leva; e intorno si fa d'improvviso il silenzio. Ella tiene in mano una coppa d'oro, ed esclama:
- Chi, barone o vassallo, vuol andare a ripigliarmi questa coppa nel mare? Essa è d'oro massiccio, opera egregia del nostro artefice più valoroso; è cesellata con arte squisita, e reca su l'orlo il mio nome. Chi, barone o vassallo, vuol andare a ripigliarmi questa coppa nel mare?

E dall'alto del palco lancia ne' gorghi di Scilla la coppa preziosa.
Un mormorio sommesso s'effonde; i baroni si guardano incerti; la folla si leva in punta di piedi, se alcuno non si presenti: nessuno.
- Chi è l'eroe - ripete la principessa - che vuol riportarmi la coppa d'oro? Essa sarà sua!

Ma l'onde muggiscono alte; i cavalloni s'incalzano; il mare sale fino alle stelle.
- Nessuno v’ha dunque – prorompe la superba fanciulla - che abbia l’animo di ripescarmi la coppa? Ei la riceverà dalle mie stesse mani.

Un uomo s’avventa d'un balzo sul palco: il suo bel corpo muscoloso è fiorente e serrato in una maglia di fil di ferro; i capelli rossi fremono al vento; gli occhi ch'ei leva in faccia alla principessa hanno un'espressione di mestizia sicura, ond'ella rimane avvinta e commossa.
Egli tien legata ai fianchi una fusciacca bianca di lana, e, in quella, un corno d’avorio e un coltello: null'altro.  Ei s'inchina al suo re, s'inchina alla fanciulla, mentre il popolo batte le mani a Cola Pesce; poi senza dir molto, si butta in acqua e sparisce.
Le ragazze dagli occhi neri e scintillanti tendon le braccia brune gridando:
- Torna salvo, Cola!

Ma la bianca principessa dagli occhi azzurri come l’onda del mare, rimane muta, fredda, impassibile.
Il mare urla e spumeggia e sferza il lido: i flutti dalle creste canute si rincorrono in furia come greggi di tori: i gorghi di Scilla s’attorcono e gemono, si snodano e minacciano: che importa? Dopo una mezz'ora d'attesa irrequieta una testa si leva su l'onde; un braccio poderoso vince l’impeto de' marosi ribelli, e Cola sale grondante la riva, e reca la coppa alla principessa, che gliela rende con un lampo nelle pupille e con un tremito nella mano piccola e delicata.

Da quel giorno la principessa non ebbe più pace, la passione s'era accesa d'un tratto nelle sue vene, e non le lasciava riposo: la notte, ella rivedeva ne' sogni l'ardita figura del suo bel marinaio; le pareva d'udire il suono del corno chieder soccorso dalle solitudini sterminate del mare; tremava di desiderio e di paura per lui; e con un moto convulso di tutto il corpo s'avvolgeva a' guanciali, chiamando con voce strozzata dalle lagrime l'uomo ch'ella adorava.
Ma quando la rosea striscia dell'aurora tremava a' suoi vetri colorando nell’alcova i lini riversi, ella si rizzava con gli occhi incavati, col viso pallido, con le labbra arse, e aveva vergogna della luce, e si disprezzava per quell'amore infame verso un uomo del popolo, che non era degno neanche di toccare un lembo della sua veste. Ella correva alle feste; voleva torneamenti; radunava i saggi e i poeti per evitar di pensare a lui: invano! Invano! La sua forsennata passione l'accompagnava dovunque, come uno spillo infocato che le stesse fitto nel cuore.

 

 

Una sera, una limpida sera d'autunno, la principessa sedeva sola sotto i platini del giardino sul mare, e sonava il liuto, e cantava.  La facciata del palazzo, illuminata da mille lanterne colorate, parea di lontano l'incendio d'una foresta di fiori. Ma nel giardino tutto taceva nell'ombra: solo il chiaror della luna dormiva su' cespi di mirto e di menta, e tremolava su l'acque d'un lago ove i cigni, i bei cigni di neve, passavan gloriosamente, in fila, col collo eretto, lenti e pomposi.
E il canto della principessa tremava e saliva nella pace sovrana della notte; si distendeva con accenti lunghi di desiderio; si torceva con fremiti di voluttà; moriva con singhiozzi di spasimo e d'ira, Gli alberi, l'acque, i rosignoli pendevano intenti: il mare si frangeva, alla spiaggia con un singhiozzo fievole e soffocato.
D'improvviso, un'ombra apparve alla riva, strisciò dietro platani e fra le rose, e si rizzò innanzi alla principessa sbigottita.  Ella  volle gridare; ma non n'ebbe la forza: il marinaio era cosi leggiadro, e i suoi occhi si chinavan su lei cosi accorati e cosi supplichevoli!
Allora ella sorse, e a voce bassa e vibrata:
- Che vuoi? - gli chiese

- Io t’amo, io t'amo perché sei bella! - rispose Cola con gli occhi accesi dal desiderio.

- E bene, sia! Anch’io t’amo! Vieni!

E sparirono entrambi nel folto del bosco.

Canzoni e risa! Risa e canzoni! Di nuovo la folla è radunata sul molo; e dal palco, coperto d'arazzi, di re Federigo, la principessa, pallida e fiera, si leva. Ella ha in mano un anello piccolo e fino come la sua bocca adorabile, ed esclama:
- Chi, barone, o vassallo, vuol andare a ripigliarmi quest'anello nel mare? Egli avrà il diritto di pormelo al dito, e io sarò la sua sposa.

La folla guard’intorno con ansia: nessuno si muove.
Il mare è chiaro come uno specchio; e le nuvole rosse del tramonto vi gittan, passando, de' riflessi di sangue. La principessa ha lanciato l'anello ne' gorghi di Scilla, e volge la faccia bianca e superba, aspettando chi le riporti l'anello.
E un grido si leva: Cola, grande, svelto, indomabile, con la criniera de' rossi capelli rigettata a dietro su la fronte, s'è rizzato sul palco del re Federigo. Ma egli non ha più il corpo protetto dalla maglia di ferro; e non ha corno e coltello al suo fianco: solo la fascia bianca di lana gli s'avvolge ancora a mezzo il corpo, che appar tutto nudo e muscoloso come quello d'un bel dio antico di bronzo. E s'inchina al re; saluta il suo popolo; e, in fine, si volge alla principessa con uno sguardo triste e rassegnato, e, vinto da un impeto d'amore indicibile, le manda un bacio con le due mani. Poi spicca un salto, e dispare nel vortice oscuro.
Il re, la corte e il popolo aspettaron fino a sera; ma Cola non fu più visto tornare: l'anello era troppo piccolo, e la principessa troppo crudele.

E la barca fila ancora su l'onde nere del canale dormente.  Lontano, i battelli da pesca, con le fiaccole a poppa, tingono l'acque di fiamma viva; su la tolda di un bastimento un cane abbaia; e sul lembo estremo del golfo la lanterna verde del faro si specchia fino in fondo al mare con un fil di luce tremulo e lungo.  E un flauto invisibile sospira da qualche verziere, alla riva. Del resto ora è tutto calma e riposo: la costiera è deserta: sul mare non s’ode una voce: anche i fiotti par che rattengano il loro sospiro lento e monotono.

La riviera dorme accarezzata da' profumi de' suoi rossi giardini, ravvolta nelle spume del suo mare antico cullata dal mormorio dolce e fantastico delle sue leggende orientali


 

 

G.A. Cesareo
Leggende e fantasie
Roma
1893

 

 

www.colapisci.it