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Giancarlo Di Simone
Gli occhi di Cola Pesce tra i fondali di Sikelé Batiscafo d’un io segreto che si appalesa e si cela con gioco sapiente di stratificazioni e scomposizioni (a volte appena additate da esoterici geometrismi di squarcio delle servostrutture espressive, quasi a mostrarci – come ammonimento di agatodémone al terzo occhio delle nostre coscienze – tragitti d’insospettabili cilici sciabolanti sull’anima con impietoso rigore) l’arte di Giancarlo Di Simone (Maestro che proprio in questo 2003 celebra "i suoi primi 40 anni" di produzione polivalente ai più alti livelli, gratificata, in Italia ed all’estero, da innumerevoli presenze in personali e collettive e da autorevolissimi consensi critici) diviene amniotica agorà di convivenze tra fulminanti agguati di Mistero e straordinarie folgorazioni di cromìe imprigionate in amplessi materici, tra perlustrazioni di Dolore e ricognizioni d’Angoscia, tra razionali teorie di forme (da individuare e trascrivere, con magistrale inimitabilità, in polivalenti equilibri segnici) e ragionevoli slanci verso ammalianti emergenze informali (sulla tela, su altre servostrutture dell’espressività attraverso il dipingere, sul tufo e sul bronzo di una scultura che riprende i temi della pittura ricavando calligrafie e simboli da segnaletiche e tracce di fondali e persino da significanti residui di esistenze, quali, ad esempio, gli ossi di seppia, dagli echi montaliani, direttamente utilizzati come calco di suggestioni tridimensionali): il tutto a riconsegnare libertà ai toni ed ai tratti, alle sonanze e ai silenzi, ai bagliori ed al buio, alle iperumane ed estenuanti estasi della Creazione.
"- Voi amate il mare, non è vero, capitano?
Un collegamento tutt’altro che casuale. Ascoltiamo, ancora, il racconto del professor Aronnax. "D’improvviso ricomparve la luce ai due lati del salone, attraverso due aperture oblunghe. Le masse liquide apparvero vivamente illuminate dalle effluescenze elettriche. Due lastre di cristallo ci separavano dal mare. Nel primo momento rabbrividii, pensando che quella fragile parete poteva rompersi; ma forti armature di ottone la mantenevano e le davano una resistenza quasi infinita. Il mare era distintamente visibile nel raggio di un miglio intorno al Nautilus. Che spettacolo! Quale penna lo potrebbe descrivere? Chi saprebbe dipingere gli effetti della luce attraverso quelle masse trasparenti, e la dolcezza di quelle successive degradazioni fino agli strati inferiori e superiori dell’oceano? ". Vorremmo rispondere a Jules Verne che Giancarlo Di Simone è riuscito a farlo, ormai da anni; e che, per nostra fortuna, prosegue – conferendo lustro all’arte contemporanea italiana – in questo difficilissimo ma esaltante tragitto attraverso profondità marine che catturano, con impareggiabile maestrìa tecnica ed espressiva, le luci e le ombre di una dimensione atlantidea individuata e perimetrata come luogo dei luoghi di un sogno, luogo vivificato da un "genius loci" (quello del suo polivalenmte, proteiforme intuire e creare) che accomuna la fisicità, quasi palpabile, di siti finalmente colti da un occhio attento e acutissimo, all’incorporeità – oscillante fra levitazione metafisica ed itinerante introspezione attraverso i fondali della coscienza – d’un cogitare che individua e travalica, al tempo, forme ed essenze colte nel loro improvviso appalesarsi ed eternate, grazie ai segni dell’Arte, in rapide e rapite presentificazioni strutturali.
Ed è proprio questa fulmineità d’intuizione, di scoperta e di tratto a coniugare, in Giancarlo Di Simone, l’attimo fuggente del vedere fisico (e del simultaneo intravedere etico e raziocinante) alle scaturigini compositive d’una visualità abilissimamente abilitata a far trasmutare i dinamismi della visione in affabulanti equilibri di sequenze (spesso concatenate, anche propositivamente, da intenzionale uniformità; ed ecco, allora, gli occhi / oblò che distribuiscono, in egual misura, sapienza di teorie serenatrici ed estro di inaspettati geometrismi secanti: questi ultimi come rapidissimi colpi di bisturi nel corpo e nel cuore di tale apparente omologazione sequenziale, a decriptarvi sofferenze ed ansie non sempre lastricabili entro il tessuto strutturale e formale). Eppure, in Giancarlo Di Simone, questa seducente, estenuante, impagabile esplorazione degli abissi, fra rivelazioni di geografie sottomarine e denudamenti di cartografie della coscienza, questo viaggio intorno all’Uomo e alla Vita che, di antropomorfo e zoomorfo, possiede soltanto – ed in modo del tutto intenzionale: qui il rivestire di genialità l’ingannevole evidenza di un paradosso – echi di presenze, fughe d’ombre, evocazioni di proteiformi cromìe, pulsazioni di grumosità materiche, inopinate luminescenze di ectoplasmi. Ed è proprio questa celebrazione di nozze alchemiche fra presenze assenti ed assenze presentificate ad appalesarsi cerimoniale d’un rito d’Arte e d’Intelletto in cui, con linguaggio dal fascino antico e inquietante, umano e iperumano, Giancarlo Di Simone va ad evocare liturgie esoteriche in cui Acqua, Aria, Terra, Fuoco – i quattro elementi fondamentali su cui ebbero convergenza e concordanza il pensiero occidentale e la sapienza d’Oriente, i presocratici ed i taoisti, Empedocle e Lao Tze, la teurgia greca dei pitagorici e la divinazione cinese de "I Ching" – divengono protagonisti di liturgie incrociate ad altissimo impatto significante. Liturgie di elementi, dicevo: liturgia dell’Acqua che domina i luoghi e gli ambienti, le apparizioni e le dissolvenze formali; liturgia del Fuoco che arde e rosseggia in mille tonalità di cromìe, a far ribollire i fondali e a donar loro eruzioni di luce vivissima; liturgia dell’Aria che trasporta, attraverso ogni stratificazione della materia ed ogni sua incorporea corporeità, liquide sonanze d’armonia su partiture sublimi di silenzio; liturgia della Terra che si offre all’occhio dell’artista ed a quello del fruitore con aggregazioni fossili apparentemente inanimate ma, in realtà, gravide di pulsazioni e vibrazioni nella loro epifania formale e materica. Liturgie, quindi; e ad intuizione, a raffigurazione, a celebrazione di quello che, per dirla con il grande scrittore siculo – americano Nat Scammacca, appare veramente (e la definizione risplende nella sua genialità di sintesi) come "un mondo sotto il pavimento di un altro mondo", quantunque si tratti di una pavimentazione di cristallina trasparenza come le pareti di vetro del Nautilus spalancate sugli straordinari orizzonti dell’oceano, nascosti a chi, abituato a vivere (o a sopravvivere) "sopra", non può nemmeno immaginare quale e quanta sia la bellezza, da mozzare il fiato, di ciò che, "sotto", vive – dai primi giorni della Storia, da quando la Luce della Creazione modellò il Caos – un’esistenza parallela ma non sacrificata (almeno in larga parte) alla disumanità di quel genere umano da sempre disponibile, "sopra", a violentare e distruggere, a calpestare ed incenerire, a snaturare. Ed in questo senso, la liturgia dell’Acqua diviene anche sommesso canto penitenziale, volto ad impetrare il Perdono: acqua lustrale sulle nostre colpe, acqua di purificazione, di rinnovate promesse fra l’Uomo e Dio, Acqua che bagni la Terra per tornare a fecondarla di Speranza, Acqua che divenga vapore d’incenso al contatto con il Fuoco della Conversione, acqua che, divenuta Aria, si ricongiunga al Cielo, a riconquistare Paradisi perduti. Fra serenità ed inquietudine, fra nostalgia dell’Eden e palpabile angoscia, fra Eros e Thànatos, fra Ordine e Caos, l’inimitabile arte di Giancarlo Di Simone scandisce il desiderio di un Tempo da rivisitare "in toto" per riconsegnarlo, nettato dalle scorie del vivere, all’Uomo che vive "sopra" ed alla sua Storia fin troppo adusa a barattare l’"humanitas" con il cinismo; e lo ri / crea, questo Tempo nuovo per nuovi uomini e nuovi giorni da vivere in modo realmente vivibile, attraverso le lancette di uno Spazio di sequenzialità cronografiche – tra cui gli oblò, dicevo, come severe finestre sulla coscienza – che non ha bisogno di geografie, fisicamente intese, ove collocarsi ma che non può e non vuole prescindere dal rapporto con i propri luoghi, ed anzi vi si abbarbica con ogni diramazione di radice, in una simbiosi totale, in un amplesso di amate amarezze, in un indistricabile viluppo di passioni. "Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato", disse quel J. L. Borges acutamente citato da Leonardo Sciascia preliminarmente al testo del suo "Occhio di capra", viaggio straordinario attorno alla sicilitudine, ai suoi siti, ai suoi cuori: e Giancarlo Di Simone va a muoversi, con altrettanto straordinaria coerenza, sulle coordinate che portano alla dimensione sottomarina ed atlantidea di una Sicilia – Trìskeles identificata nelle sue fondamenta mitologiche e mitografiche, quantunque, queste ultime, mai pittoricamente definite come soggetti protagonisti dell’idea creatrice. Sappiamo tutti quale sia il simbolo della nostra Sicilia (il cui toponimo, ricorda il sommo cultore della sicilianità e mio carissimo amico, prof. Santi Correnti, va a significare "terra della fertilità, terra della fecondità", al di là di altre interpretazioni che lo vorrebbero come unione dei due termini greci "sik" ed "èlaia", cioè il fico e l’ulivo, due piante tipiche della macchia mediterranea e, quindi, della nostra amata Isola): e cioè la "Trinacria", la terra "dai tre promontori", detta anche "Triskelès", cioè terra "dai tre piedi" (abbiamo tutti presente il suo simbolo per eccellenza, cioè il volto alato, dalla chioma ricciuta di serpenti – ma l’iconografia la inquadra più come Kore gentile, Kore / Proserpina, figlia di Cerere e sposa di Plutone, protagonista di un altro grande mito siculo, che nelle orride fattezze di Gorgone Medusa – e viso da cui vanno a dipartirsi tre gambe: un simbolo antichissimo e misterioso, che, pensate un po’, ritroviamo, sebbene stilizzato, nell’iconografia e nella mitologia irlandese, nonché nello stemma dell’Isola di Man; il che mi convince, tra le altre cose, dell’esattezza di certi miei studi, in materia di esoterismo, volti a collegare, ad esempio, incredibili ed inquietanti analogie fra la cultura celtica e druidica ed alcuni rituali della grecità classica: pensate, ad esempio, alla forma di croce celtica dell’altare delle divinità ctonie accanto al Tempio di Castore e Polluce nella splendida Valle dei Templi di Agrigento (quel Tempio ricostruito con quattro colonne e fotografato come se ne avesse tre, quel Tempio contrassegnato dalla "rosa di Rodi", sigillo dei coloni greci che fondarono la città e simbolo nel mondo di Akràgas la magnifica, quel Tempio che vedo, mentre scrivo, dalla mia finestra – ed è, lo sottolineo non troppo incidentalmente, una Valle sostanzialmente incontaminata, malgrado le zoomate e i fotomontaggi che moltiplicano lontane ed "esterne" case private e ignorano, altrettanto "ad arte", vicinissimi ed "interni" scempi dello Stato, Viadotto Morandi in testa, a suo tempo costruito sopra una necropoli nell’indifferenza di antichi e nuovi "giustizialisti" e persino con la benedizione di tutti, ivi compresi ministri e sottosegretari, prefetti e questori, magistrati e sovrintendenti, amministratori ed oppositori): analogie, ritornando al tema – e pur non pentendomi della suddetta "incidentale ma non troppo", per rispetto della verità, ma di quella vera, che si valuta e si giudica "de visu" e con i fatti, non con le zoomate deformanti e i servizi speciali scritti, "more solito" e non solo nei riguardi della Velle dei Templi, con gli occhi, il cervello e il sedere in qualche redazione a duemila km. di distanza dai luoghi – il cui approfondimento richiederebbe parecchio spazio, per cui mi limito, al momento, a darvene accenno, invitandovi, peraltro, ad approfondirne autonomamente i contenuti, invitandovi a visitare Agrigento per vedere e toccare quell’altare o iniziando, nell’attesa, con qualche immediato riscontro fotografico ed iconografico che vi confermerà un fascinoso "fil rouge" fra i culti di due civiltà, quella greca e quella celtico – druidica, apparentemente lontane e senza punto alcuno di intuibile o plausibile collegamento). "Triskelès", dicevo, quindi terra "dalle tre gambe": immagine mitologica collegata direttamente anche ad una leggenda i cui contenuti – che, non a caso, ricorderemo adesso – appariranno immediatamente abilitati a riportarci all’arte di Giancarlo Di Simone. Riferisce, ancora, Santi Correnti che la leggenda più popolare di Sicilia, stavolta riferita al periodo del "regnum" aragonese (dal 1282 al 1412) e nata sotto re Federico III o re Federico IV, quindi tra il 1296 e il 1377 (identificazione cronologica molto attendibile: benchè altri studiosi la collochino fra il 1194 e il 1250, sotto il "regnum" di Federico II di Svevia, o attorno al 1140, sotto Ruggero II, grazie ai riferimenti presenti nell’opera "Nugae curialum", scritta dall’inglese Gualtiero Map verso la fine del XII secolo e riportata da Salvo Di Matteo nella sua "Historia siciliana") è quella che riguarda un marinaio catanese, dalle meravigliose qualità di sub, chiamato "Cola Pesce" a Catania, dove abitualmente risiedevano i re aragonesi, ed anche a Messina e a Siracusa, e "Piscicola" nel resto della Sicilia. Una leggenda, questa del marinaio siciliano, diffusa in tutta l’area mediterranea e con importanti riflessi europei, come dimostrano gli studi di Benedetto Croce per le versioni napoletane e mediterranee della leggenda, la celebre ballata di Schiller intitolata "Der Taucher" (il palombaro) e gli accenni che troviamo in Cervantes e ne citato Jules Verne di "Mattia Sandorf" (romanzo scritto dopo il suo viaggio in Sicilia del 1889, ed in cui scrive di un "Nicolò Pesce che portò dispacci da Napoli a Palermo, traversando a nuoto il mare Eolio") e del già non a caso citato "Ventimila leghe sotto i mari", in cui lo descrive in piena attività nell’arcipelago greco e lo definisce "ben noto in tutte le Cicladi come un ardito palombaro, il cui elemento è l’acqua, dove vive più che nella terra, andando senza riposo da un’isola all’altra, e perfino a Creta". Prescindendo, per ragioni di spazio, dalle varianti schilleriane e da quelle cervantesiane del "Don Chisciotte" (ma è interessante riferire, anche se solo per sommi capi, sul fatto che il mito di Cola Pesce era conosciuto, nell’antichità, anche in Giappone, ed appariva raffigurato anche in una pittura della scuola di Yamamoto, operosa fra l’XI e il XIV secolo d. C.; che, tra coloro che hanno scritto su questa leggenda vi sono Salimbene da Parma, Francesco Pipino da Bologna – che per primo riporta il soprannome di "Pesce" – Giovanni Junior, Fazio degli Uberti, Alessandro D’Alessandro da Napoli, Tommaso Fazello, Giulio Filoteo degli Omodei, Felice Bisazza e il tedesco Kirken; e che, in ultimo, il musicista di San Giorgio Monforte, in provincia di Messina, su libretto di Giacomo Vaccaro musicò l’opera lirica in due atti "Cola Pesce", eseguita, per la prima volta, al teatro Mastroeni di Messina il 18 dicembre 1919) la leggenda di Cola Pesce (che, peraltro, nella tradizione orale siciliana, ha ben più di diciotto versioni leggermente differenti l’una dall’altra) si presenta nei termini che adesso vado a riferire, sulla base di quanto riportato anche da Giuseppe Pitrè nei suoi dottissimi studi ed, in specie, in "Studi di leggende popolari". "C’era una volta a Messina un ragazzo di nome Cola – Nicola, n. d. r. –, che stava quasi sempre in mare, dove passava intere giornate, facendo vita comune con i pesci. La madre, seccata per questo comportamento del figlio, lo maledisse, lanciandogli questa imprecazione: 'Che tu possa diventare pesce!'. E subito la pelle di Cola divenne squamosa, e le dita delle mani e dei piedi diventarono come quelle delle anatre o delle oche, e tutti lo soprannominarono Cola Pesce. Una volta il re di Sicilia andò a Messina; e, venuto a sapere delle straordinarie qualità di questo marinaio, lo volle mettere alla prova: buttò un anello in mare, e Cola pesce dovette ripescarlo, e dovette descrivere quel che aveva visto sul fondo del mare. Cola pesce parlò di quel che aveva notato, e disse che la Sicilia poggiava su tre colonne, di cui la prima era ben salda, la seconda era già rotta, e la terza stava per rompersi; e poi riferì di mostri spaventosi, di vallate immense, di grandi caverne, e il re gli credette; ma quando Cola disse che sotto il mare c’era pure il fuoco, il re non volle credergli. Allora Cola pesce disse: ‘Maestà, vedete questo pezzo di legno? Io mi tufferò con esso, e se lo vedrete rimontare a galla bruciato, vuol dire che il fuoco c’è davvero, come io dico; ma vorrà anche dire che io sarò morto, perché il fuoco brucerà anche me’. Al re tutto ciò parve una smargiassata, e gli ordinò di tuffarsi; ma Cola Pesce non tornò più a galla: ritornò invece soltanto il pezzo di legno, bruciato". Santi Correnti prosegue affermando che "la leggenda di Cola Pesce è, in definitiva, squisitamente siciliana per l'elemento del fuoco sotto il mare: ed è nata dalla costante preoccupazione popolare di rendersi conto della solidità della propria terra, così frequentemente scossa da terremoti", e sottolineando che "l’elemento delle tre colonne su cui poggia l’isola è veramente significativo al riguardo; ed è ugualmente importante il rilevare come la leggenda di Cola Pesce si sia originata e sviluppata nella costa orientale della Sicilia, particolarmente provata dai terremoti". La leggenda di Cola Pesce, prosegue Correnti, "in ultima analisi, resta legata all’esistenza stessa della terra siciliana, nei suoi elementi caratteristici di mare e di fuoco; e Cola Pesce rimane giù nel fondo del mare, da vero eroe nazionale dell’isola, per sostenere, a prezzo del suo eterno sacrificio, la colonna corrosa dal fuoco etneo, per impedire che essa crolli, facendo inabissare per sempre l’amata terra di Sicilia". Fin qui la leggenda e la sua principale, fondamentale interpretazione: ma averla citata, avervi incarnato quelle liturgie elementali di cui si è precedentemente parlato, ci è sembrato anche il miglior modo di concludere questo nostro intervento su un artista, Giancarlo Di Simone, riuscito, con esiti di grande significazione e rara bellezza, a trasmetterci – attraverso gli oblò dell’introspezione morale e della strutturazione materico / pittorica – le immagini, d’incomparabile bellezza, che sicuramente riuscirono a vedere, lacrimando di commozione e di gioia, di sgomento e d’estasi, gli occhi di Cola Pesce: visioni magicamente riconsegnate, travalicando il Mito e la Storia, all’Arte di Giancarlo Di Simone, grande Maestro della creatività siciliana contemporanea, riuscito – con la passione del cuore, l’estro dell’intelletto, la sapienza del tocco, il fascino dell’iridescenza, l’eleganza della definizione strutturale e formale, l’appassionata sincerità del proporre e del proporsi al fruitore – a far fruttare i talenti di questa magnifica ed impagabile eredità riuscita a far brillare di luce, a fare ardere di fuoco, a dar compattezza di terra, liquidità d’acqua marina e soffio d’aria purissima ai sereni fondali atlantidei di Sikelè del sogno, dove tutto è purezza, dentro e fuori, nei luoghi e nelle anime che vi dimorano, dove non esiste – se non come incubo occasionale, subito scacciato da linimenti di quiete e d’armonia – quel "mondo di sopra" ragionevolmente ripudiato (e come avrebbero mai potuto aver torto?) dal Capitano Nemo e dal suo manipolo di fedeli, da Cola Pesce ucciso dall’impietosità dell’uomo e resuscitato dalla benevolenza del mare, e dal nostro Giancarlo Di Simone, riuscito, senza soccombere alla titanicità dell’impresa, a sostenere – con la potenza espressiva derivatagli dalla caparbietà di un impegno artistico fuori dal comune – anche quella colonna chiamata a reggere un’arte siciliana spesso lesionata, altrove, da improvvisazioni e subordinazioni, da manierismi ed infingimenti. Vi è riuscito, il Maestro Giancarlo Di Simone: e Cola Pesce non s’è sacrificato invano, perché sono anche suoi gli occhi che guardano commossi, assieme ai nostri, adesso, la magnificenza dei giardini segreti, dei paradisi nascosti, dei luoghi perduti di Sikelé.
Occhi
senza pupille
Articolo pubblicato l'11 settembre 2003 |