Numer dofinansowany - przez - KOMITET BADAŃ NAUKOWYCHVol. VI  •  2003

PAOLO EMILIO CARAPEZZA

IL GRAN TEATRO DEL MONDO
[Ed. in: Guttuso e il teatro musicale, a cura di Fabio Carapezza Guttuso, Edizioni Charta, Milano 1997. Za wyrażenie zgody na wykorzystanie tekstu redakcja serdecznie dziękuje Panu Fabio Carapezza Guttuso, Edizioni Charta di Milano oraz Archivi Guttuso di Roma]

 
a Mariangela, con i suoi lampi
anche qui illuminanti

 

Il dramma, l'azione, è sonoro e corporeo: spirituale e materiale.

Secondo le più grave antiche cosmogonie, come quella vedica, il Suono crea il mondo. Questa concezione ritroviamo in Eraclito: “Essendo create tutte le cose con questo Suono”. Più grave; grave chiaramente la dispiega san Giovanni: “In principio era il Suono, e il Suono era presso Dio, e il Suono era Dio. Tutte le cose furono create col Suono, e senza di lui neppure una delle cose create è stata fatta” (2).
Dopo duemila anni questa prospettiva viene scientificamente convalidata da Albert Einstein: da un unico punto inesteso l'energia pura esplode in ogni direzione (bigbang) dando luogo agli astri luminosi; l'energia sonora cioè, allontanandosi dalla fonte vitale, decade in materia: si distribuisce negli astri luminosi e da questi nei pianeti e negli altri corpi opachi. Ma secondo i Brâhmana vedici la luce, vibratoria e corpuscolare, è tramite della trasformazione: i primi uomini erano suoni luminosi che, nutrendosi d'acqua e frutti terrestri, divennero opachi e pesanti. Rimase però in essi la sonorità della voce.
Ma Pitagora sposta l'attenzione dal Suono ai rapporti tra i suoni, agli intervalli espressi da rapporti numerici. Contro Pitagora insorge Eraclito: “Escogitò una sapienza sua propria, nient'altro che nuda erudizione e artificio meschino!”(3)
L'elemento sostanziale nella concezione pitagorica non è più il Suono, ma il Numero: il mondo è composto da rapporti numerici; e i suoni diventano effetti del movimento (regolato dai numeri) dei corpi costituiti secondo rapporti numerici. Vi sono dunque tre generi di musica, spiega Boezio: “Quella cosmica o mundana dapprima (che regola i rapporti astronomici), seconda la humana (la composizione stessa dell'organismo umano animato), e terza quella insita in alcuni strumenti, quali la cetra, i flauti e gli altri”(4), ma soprattutto la voce umana.
Il Corpo numerico insomma produce i suoni, secondo Pitagora; il Suono ritmico invece i corpi, secondo Eraclito. Così nella pittura demiurgica di Guttuso vediamo corpi sonori, ma anche suoni corporificati: “Lavorare nel mio modo consueto: ascoltare i dischi dell'opera e leggere 'bene' il libretto e la descrizione delle scene”. Così egli stesso scrisse nel programma di sala de La forza del destino, ch'andò in scena al Teatro alla Scala il 10 giugno 1979:(5) una delle tante (almeno trentatré) musiche ch'egli corporificò in immagini dipinte, bozzetti e figurini e costumi, che vivi in scena le facessero a lor volta rivivere.
Guttuso è così grande e versatile pittor da teatro, perché tutta la sua pittura è immediatamente teatrale: un unico lunghissimo dramma attraverso i tre quarti di secolo della sua vita (Bagheria, 26 dicembre 1911 - Roma, 18 gennaio 1987). “Tra gli acquarelli di mio padre, lo studio di Domenico Quattrociocchi, e la bottega del pittore di carri Emilio Murdolo prendeva forma la mia strada. Avevo sei, sette, dieci anni”(6). Il padre Gioacchino agrimensore, un pittore aulico di quadri bucolici ed un pittore di carre tti siciliani furono dunque i suoi maestri: il dominio dello spazio fondato sul concreto, la pittura colta e la sua storia, la pittura popolare in sequenze sceniche.


Le prime grandi opere di Guttuso sono gli affreschi nella chiesetta dell' Aspra, la marina di Bagheria, ch'eseguì non ancor diciottenne su richiesta della madre; ed un grande paravento a più pannelli del 1937 per la Kalesa, il palazzo dei marchesi De Seta alla marina di Palermo. Due grandiosi drammi mitici ascensionali: negli affreschi dell'Aspra sono i pescatori di quel borgo con le loro donne ad esser assunti in sacre conversazioni ad interpretare angeli e apostoli (pescatori d'uomini) e la Beata Vergine Maria e Gesù Cristo; nel paravento emerge dall'acque profonde tra spuma d'onde Afrodite. Amor sacro e amor profano, due capolavori perduti e ritrovati: gli affreschi sotto la bianca calce d'intonaco che li copriva; tre dei sette pannelli fortunosamente recuperati da Fabio Carapezza Guttuso, altri due incorniciati in una casa milanese.
Se queste due prime grandi opere di Guttuso eran destinate a una chiesa, a una casa, l'ultima e forse la più grandiosa colora tutto il soffitto del maggior teatro di Messina.
Su tre dozzine di quadrati di legno ben stretti e connessi (1985) vediamo il famoso gran tuffo di
Colapesce: una discesa, un'immersione profonda e definitiva, di contro a quelle ascensioni.
Tre scene mitiche: le prime due fresche, aurorali, piene di luminosa speranza, l'ultima in pieno conflitto di luce e tenebre repentino finale inabissarsi. Le scene iniziali e la conclusiva del gran theatro del mondo: tra d'esse tutte le altre grandi e piccole, lunghe e brevi, concrezioni o suggestioni di suoni. Lì i miti puri del mondo giovane, quando convivevano e conversavano uomini e dei: i pescatori dell'Aspra si riconoscevano angeli e santi, le loro donne Madonne in cielo; Afrodite dormiente sull'acque, bellissima tra i delfini, ha le sembianze della marchesa Maria de Seta, e mentre Stromboli fuma sullo sfondo, dalle altre isole e dall'Isola a lei accorrono irresistibilmente affascinati tritoni e centauri, e giovinetti si tuffano e cavalieri tirandosi appresso il cavallo; chiari i colori, limpida l'aria, gravida di felicità la vita. Qui invece s'è incrinato il mito, si spalanca l'abisso tra la terra franta, dove irrompe il mare, e fra la sorpresa delle sette sirene, dei delfini e dei gabbiani, vi s'immerge l'uomo travagliato ed arso, per andar a sorreggere la sua patria cadente, ad impetrarsi sottomarina cariatide; livida luce e morte tra tenebrose sponde brulicanti di perigliosa vita.
Il tuffo di Colapesce viene vissuto da Guttuso e rappresentato come un'opera teatrale. Il gran balzo verso l'eternità, che nella tomba di Posidonia vediamo tra canti d'uomini e suoni di lira e d'auloi, avviene qui tra canti e incanti di sirene, le sette sirene del mar della sua vita: “E il naufragar gli è dolce in questo mare”. Ulisse, alla fine del suo ultimo viaggio, ormai solo, non vuol e non può più legarsi all'albero maestro.
Quella che vediamo sul soffitto del Teatro Vittorio Emanuele di Messina è la scena centrale e saliente; nei numerosi bozzetti possiamo vedere le precedenti con i vari stadi del tuffo e i movimenti delle sirene, e la conclusiva con l'uomo ormai in fondo all'acque, invano seguito dai delfini, e il soprassalto delle sirene sbigottite di non vederlo più risalire. Guttuso soleva condurre a termine i drammi dei suoi soggetti, anche dopo d'averne compiuto la grande scena culminante.


Pittura come scene di un dramma sacro. Prima della grande Crocifissione del 1941, vediamo nella cosiddetta Crocifissione in una stanza, dell'anno precedente, ancora soltanto i due ladroni e la donna d'uno di loro, mentre i carnefici hanno ancora i fucili, armi moderne, ma giocano già a dadi. Poi nei tanti studi seguiamo i movimenti convulsi dei ladroni e l'aggirarsi dei soldati a cavallo: uno alla fine ne scende per infilzare sulla punta della lancia la spugna impregnata d'aceto e fiele, e raccolta la tunica di Gesù la stende sul dorso del suo cavallo e prepara i dadi. La Maddalena piange e si dispera e si straccia i capelli e le vesti, ed è ormai tutta nuda col viso tra le mani, prima d'abbracciare per l'ultima volta le ginocchia di Gesù.

Pittura come dramma mitologico attraverso le ere: dall'antichità al Rinascimento ai giorni nostri. Guttuso dà vita e moti alla Primavera del Botticelli. Dapprima, nella sua trascrizione, esce di scena Hermes, mentre Borea ha ormai tolto a Clori la veste trasparente e la trascina al centro del prato, e invano quella vorrebbe ricoprirsi col drappo rosso che Afrodite le porge. Flora ha già sparso tutti i suoi fiori e discopre i frutti del suo corpo. Eros ha scagliato tutte le sue frecce d'oro e si nasconde sornione tra il folto degli alberi, che hanno mutato i loro frutti da melagrane piene di chicchi acerbi (le promesse) in arance mature e piene di succo. L'alba è diventata mezzogiorno e le tre Grazie, “ille consertis manibus in se redeuntium chorus”(7), già cominciano a sciogliersi.

La scena finale sarà Il bosco d'amore: le tre Grazie ormai separate hanno già accanto ciascuna il suo amante. Castitas stringe il suo che la protegge dal serpente (che verso lei dal tronco si protende) e spera forse ch'ella neppur se ne accorga: Adamo ed Eva prima del peccato! Un giovinetto innamoratissimo offre a Pulchritudo una rosa senza spine. Ma Voluptas, velata le cluni di diafano azzurro e con una blusa aperta a grandi ali di farfalla viola, civetta seducendo sia Caino, acceso d'odio e di fosca gelosia, che Abele. Flora siede sull'erba, come la Melancholia di Dürer, e tiene in mano la chiave della vita. Borea ha steso a terra Clori, che verde non è più ma bianca come neve e invano con la sinistra cerca ancor di proteggersi: “Amor igitur in Voluptatem a Pulchritudine desinit”(8). Ma Afrodite, denudata e invecchiata, giace con la faccia contro l'erba, tra le bianchissime gambe di Clori, sporgendo sul proscenio la gran sfera delle cluni, ch' ancora ecciterebbe lo scudiscio di Napoleone terzo. E infine appoggiato al tronco un vegliardo canuto e barbuto: Mercurio ch'è tornato e s'è fatto Saturno, il vecchio Palermo, san Gerolamo in bosco, autoritratto del pittore stesso che guarda e s'affissa sulla sua malinconia, sulla chiave della sua vita.
Ma prima di questa grandiosa scena finale il dramma mitologico s'era sdipanato attraverso una lunga serie di scene allegoriche (1978-79), variazioni e sviluppi dello stesso tema: in San Gerolamo o le tre età dell'uomo troviamo già, seduto s'uno scoglio, il giovinetto Adamo, l'amante di Eva-Castitas, ed Afrodite nuda e distesa ma ancor giovane; ne Il sonno della ragione produce mostri Clori è già preda d'un Borea imbestialito e avvampa il suo volto di capelli in fiamme; il vegliardo canuto e barbuto, come l'affamato suggente de Le sette opere di misericordia corporale del Caravaggio, lo troviamo ne Il viaggio. Ivi e anche ne La visita mattutina la civettuola Voluptas; e qui pure, ma in altro atteggiamento, la malinconica Flora. Questi incubi s'erano infine concentrati e chiusi nella misteriosa tigre che s'aggirava nel giardino della casa romana di Guttuso ne La visita della sera (1980). S'aprono completamente, trovando così compiuta catarsi, ne Il bosco d'amore (1984).
Invano la ragione brandiva ne La visita mattutina il suo lume acceso. Perché si sciogliessero le bende che coprivano gli occhi del vegliardo, perché svanissero gl'incubi, doveva risplendere allo zenith il sole del mito: “Ogni mitologia spande chiarezza: chiarezza su ciò che è, avviene e deve avvenire”(9). “Un fiume d'immagini mitologiche”(10) scorre nella pittura di Guttuso: essa non risale alle cause (aitia) ma rivela le origini (archai). La narrazione dei miti offre fondamenta alla vita degli uomini; non spiega il perché, ma rivela donde essa fluisca. Il narrator di miti in concrete immagini visibili è come “un suono riecheggiante con un'intensità mille volte superiore, mentre l'origine è il Suono intonato la prima volta”(11). Ma da questo egli sempre riattinge: per questo Guttuso, “prima di agire” fa “sempre un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo mortale”(12). La sua è una grande creazione mitologica, offerta all'umanità alle soglie del terzo millennio, che “per profondità, durata e universalità è paragonabile soltanto alla natura stessa”(13). Dà fondamenta alla vita degli uomini con le opere d'arte e la mitologia sonora. “La natura musicale della realtà” si manifesta “nella materia più immaginifica, la grande pittura”(14).

Per questo Guttuso è anche il più grande scenografo, il massimo pittor da teatro della nostra età, e specialmente di teatro musicale. Dalle scene e costumi dipinti nel 1940 per L'histoire du soldat d'lgor Stravinski a quelli del 1987 per Foresta-radice-labirinto di Francesco Pennisi, almeno trentatré volte, lungo quasi mezzo secolo, ha corporificato musiche soprattutto del XX secolo (di Stravinski, Šostakovič, Szymanowski, Ghedini, Prokof'ev, Malipiero, Peragallo, Pizzetti, Tommasini, Casella, Musco, Mulè, De Falla, Theodorakis e Nono, Lizzi, Berio, Rota, Petrassi, Pennisi), ma anche del XVIII (Boccherini) e del XIX (Verdi, Beethoven, Bizet, Mascagni).

Per il Re Ruggero di Szymanowski ha ritrovato le vive sembianze del gran re nel meraviglioso mosaico della Martorana di Palermo, ma nel primo atto l'ha rivestito proprio del suo vero manto, che l'imperatore Enrico sesto, genero postumo di quello, prese per sé, e che si conserva oggi a Vienna. Per la figura del Pastore, che si rivela infine Dioniso in persona, ha ridato vita al bronzeo Efebo di Selinunte, ch'aveva allora visto a Castelvetrano, dove oggi è ritornato, ma rivestendolo di un vello come san Giovanni il Battista: e l'abbiamo visto divinamente vivo al Politeama nel 1992, interpretato dal danzante Leszek Rosolek per la regia di Krzysztof Zanussi.
Per le Menadi ha resuscitato quelle dei vasi attici che aveva potuto vedere in quantità al Museo Nazionale di Palermo. Per le scene, così suggestive e precise nelle descrizioni dello stesso Szymanowski, aveva attorno a sé i modelli originali: la Cattedrale di Cefalù e la Cappella “Palatina per il primo atto; Maredolce, I'Uscibene, la Zisa, la Cuba e lo Steri per il secondo; i teatri di Segesta e di Taormina per il terzo(15).

La diversità delle musiche da corporificare consente a Guttuso di dispiegare una stupefacente varietà di stili:

– naïf per Lady Macbeth di Minsk e Chout,

– cubista per Jeu de cartes,

– realista per La gita in campagna,

– tra il folklorico e l'impressionista per Pulcinella,

– alla Chagall per L'histoire du soldat.

Ma per La figlia di Jorio spazi a in una gamma amplissima, tra il realismo spinto alla caricatura e al grottesco e l'idealismo angelicato: Mila di Codro, la protagonista, rossa di chiome e vesti, è bellissima, affascinante e disperata; Ormella, vestita di bianco e azzurro, candida, graziosa e affranta; Favetta, Splendore e l'altre fanciulle leggiadre angiolette. Di contro aspri e duri Lazaro di Rojo e Candia della Leonessa; spaventosi e ributtanti la Vecchia delle erbe e l'Indemoniato.
Nell'Amor brujo e in Carmen, memori di Goya, la femminilità sensuale irresistibilmente affascina: Candela benefica e Carmen rovinosa seducono chiunque le veda muoversi e parlare. Non c'è bisogno di scagliar loro il pennello perché lo facciano: i loro corpi bianchi ardenti e flessuosi si slanciano tra le braccia di chi le guardi.
Nel siparietto de La forza del destino, sintesi dell'opera, troviamo le allegorie coeve (1978-79) che andranno finalmente a decantarsi nel Bosco d'amore, con reminiscenze da Botticelli, Dürer, Cranach, Goya, Van Gogh, Picasso e dello stesso Guttuso. Invano anche qui la ragione irrompe a squarciare le tenebre con il suo lume: Afrodite non si risveglia; un uomo è già ucciso e tiene ancora in pugno la su a spada spezzata; la tenebrosa Calunnia incombe di spalle, mentre la Verità rimane coperta e impietrita; il giovinetto amante abbraccia appassionato la sua Grazia, ma i suoi fratelli s'affrontano in duello mortale. L'autore s'aggira "mendìco, tende languore di mani per l'elemosina", come re Ruggero nell'ultimo atto, mentre la sua Malinconia, che ha già assunto la posizione del Bosco d'amore, lo guarda; e due fanciulle giocano con un cannone.

Come può la musica ripagare Guttuso d'aver tante volte meravigliosamente dato corpo ai suoi personaggi? Ci sarà chi metta in musica qualcuna del suo “fiume d'immagini mitologiche”?
Almeno la forza delle sue scenografie induca uno dei grandi teatri italiani, magari il Massimo, a rappresentare il dimenticato capolavoro del più grande compositore italiano della prima metà del XX secolo, il Torneo notturno di Gian Francesco Malipiero, che nacque nel 1882 così come Stravinski e Szymanowski, altrettanto da Guttuso illustrati, né fu da meno di loro.

Palermo,
23 luglio 1997

Przypisy

1  - Eracliti Fragmenta: Diels-Kranz 22B1, Marcovich l, Diano l, Colli 14A9; seguendo Marius Schneider, traduco “Logos” con “Suono”.
2  - Giov. I, 1-4.
3  - Eracliti Fragmenta: Diels-Kranz 22B129, Marcovich 17, Diano 88, Colli 14B3.
4  - A.M.T. Severini Boetii De institutione musica; edizione antologica a cura di Adelmo Damerini: Boezio, Pensieri sulla musica, Fussi, Firenze 1949, cap. IV, p. 34. Traduzione nostra.
5  - Cit. in Renato Guttuso al Teatro alla Scala, a cura di Erich Steingräber, Amici della Scala, Milano 1992, p. 26.
6  - Cit. in Fabio Carapezza Guttuso, “Biografia”, in: Guttuso, catalogo delle mostre di Londra e di Ferrara, Novecento, Palermo (ed. it.) e Thames and Hudson, Londra (ed. ingl.) 1996, pp. 157-164: 157.
7  - L.A. Senecae De beneficiis, I, 3.
8  - Marsilii Ficini De amore, II, 2.
9  - Károly Kerényi, “Introduzione”, in: Carl Gustav Jung und Károly Kerényi, Einführung in das Wesen der Mythologie, 1940/41, trad. it. di Angelo Brelich: Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri, Torino 1948, rist. 1964, pp. 13-43: 20.
10 - Ibid.,
p. 16.
11  - Ibid.,
p. 23.
12  - Ibid.,
p. 18.
13  - F.W.J. von Schelling, cit., p. 13.
14  - K. Tolnay, cit., p. 91.

15  - Paolo Emilio Carapezza, “Re Ruggero tra Dioniso e Apollo”, in: Studi in onore di Cesare Brandi (= Storia dell'arte, n. 38-40), La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 471-479; nuova ed. nel programma di sala per la rappresentazione dell'11 febbraio 1992 al Teatro Massimo di Palermo, pp. 7-24, con l'aggiunta d'una nota sul “Re Ruggero a Palermo coi colori di Guttuso”, pp. 25-27.

 

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