La leggenda di Colapesce
La leggenda di Colapesce -
Opera di Stefano Caruano - Link a
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Una delle leggende, che più mi colpirono nei miei
primi anni in Napoli, fu quella di Niccolò Pesce. A documento parlante dei fatti (che
lo riguardavano) il narratore (era il cocchiere di casa) mi additava il
"ritratto" di Niccolò Pesce, che si vedeva scolpito in un bassorilievo
incastrato nella casa allangolo delle "strettole di Porto", di fronte al
vico Mezzocannone, e accanto al grande atrio o supportico.
Quel bassorilievo rappresentava un uomo velloso, con un lungo pugnale
nella mano destra: cioè (spiegava il narratore) il coltello di cui Niccolò Pesce si
valeva per tagliare il ventre dei pesci dentro i quali viaggiava. E lo si ritrova ancor
oggi nellantico luogo, sebbene questo sia stato tutto trasformato dal risanamento
edilizio della città; ma il bassorilievo, tolto dalla casa abbattuta, è stato
ricollocato sul muro di una casa di nuova costruzione, nel vano di un balcone a primo
piano, riaggiustandovi sotto la vecchia iscrizione del Settecento. La quale attesta che
esso fu ritrovato nel cavare le fondazioni del sedile di Porto; il che affermano altresì
tutti i topografi napoletani, soggiungendo che il ritrovamento accadde al tempo del primo
Carlo DAngiò.
E già sulla fine
del Cinquecento, tra i letterati napoletani, si manifestò lopinione che esso
provenisse da un tempietto del porto della Napoli greco-romana, e rappresentasse Orione:
ne so che altri labbia mai più contraddetta, quantunque, per dir la mia
impressione, si potrebbe perfino muover dubbio se il bassorilievo sia veramente antico o
non piuttosto medioevale. Ma i topografi, tutti dietro alla loro ermeneutica classica, non
prestarono orecchio o non si degnarono riferire linterpretazione del volgo, che
certamente già ai loro tempi lo teneva per leffigie di Niccolò Pesce. Pure, il Capaccio, ai principii del Seicento, accenna di passata che il popolo lo credeva "un uomo
selvaggio", e il Celano nella seconda metà del secolo, "un uomo
marino", il Sigismondo, nel Settecento, dice infine determinatamente che "il
volgo lo crede immagine di Niccolò Pesce napoletano, celeberrimo nuotatore e
marinaro".." Mi persi molte volte, fanciullo, con limmaginazione nei fondi del mare che lardito
esploratore frugava, e per un pezzo mi rimase in un cantuccio dellanima il fascino
di quella figura e di quelle imprese; finché parecchi anni dopo, essendomi dato a
maneggiare libri, appresi che la leggenda di Niccolò o Cola Pesce o del Pesce Cola era
originaria del Faro di Messina, dove viveva in molteplici versioni e donde era agevolmente
passata a Napoli, localizzandosi presso il Porto, in quella vecchia pietra scolpita, con
la quale così bene si legava.
E appresi anche che essa avevano narrata, o vi avevano allusione, innumerevoli scrittori, dal medioevo ai
giorni nostri: che era stata trattata in poemi, liriche e drammi; e che aveva formato
oggetto di dotte dissertazioni. Le quali io non solo lessi, ma per mia parte mi compiacqui
di accrescere, rintracciando, tra laltro, le sorti della leggenda nella letteratura
spagnuola (la ricorda il Cervantes nel Don Quijote) e scoprendo una sconosciuta
storia popolare spagnuola in versi, del Pece Nicolao, che era stata pubblicata in
Barcellona nel l608 e si serbava in unico esemplare nella biblioteca
dellorientalista Don Pascual de Gayangos.
In questa storia o
Relacion la leggenda viene localizzata nella piccola borgata di Rota sul mare, a due
leghe da Cadice, dove Niccolò sarebbe nato e dove sarebbero vissuti ancora, ai principii
del Seicento, i suoi discendenti; e vi si narra come il Pesce Niccolò ancora abitasse i
mari, e di tanto in tanto riapparisse per discorrere coi marinai e informarli delle
scoperte che tuttodì compieva e istruirli intorno a segreti di navigazione.
Pure, le dissertazioni degli eruditi non hanno recato nessuna luce sulla genesi della leggenda,
sebbene abbiano assodato che essa era già narrata, come leggenda particolare del Faro,
sulla fine del secolo dodicesimo, quando la riferisce Gualtiero Mapes nelle sue Nugae
curialium, scritte fra il 1188 e il 1193; e che dopo il Mapes, fu rinarrata da
Gervasio da Tilbury nei suoi Otia imperialia; circa il 1210; e che vi accenna un
poeta provenzale, denominando leroe "Nichola de Bar", e che la
raccontarono ancora fra Salimbene nel Dugento e fra Pipino e Fazio de li Uberti e
Ricobaldo da Ferrara nel Trecento, e moltissimi altri nei secoli appresso.
Ma che essa avesse
origine da un famoso nuotatore o palombaro di Messina, è una congettura come
unaltra; e non è certo comprovata dalle asserzioni degli scrittori più antichi, i
quali tutti danno il caso come storico, ma ciascuno come accaduto ai tempi suoi propri o
prossimi ai suoi: Gualtiero Mapes lo pone agli anni del secondo Guglielmo di Sicilia;
Gervasio da Tilbury, a quelli di re Ruggiero; Salimbene, a quelli di Federico II. E se fra
Salimbene cita come informatori i frati di Messina, grandi suoi amici, e un suo fratello
consanguineo, il Mapes pretende addirittura di averlo appreso da taluni, che conobbero di
persona Niccolò: il che fa il paio con laffermazione del cantastorie spagnuolo che
a Rota vivevano ancora i discendenti di Niccolò, o con quella del padre Kircher, che nel
Seicento riferiva la storia di lui "prout in actis regiis descripta fuit, a
secretario archivii mihi communicatam". Né potrei dar peso, come a prova di
storica realtà, al cognome di Pipem o Pipam o Papam, che gli editori
del Mapes e di Gervasio assegnano a Niccolò, perché sospetto che si tratti di cattiva
lettura o di errore di amanuense per "piscem" (il gruppo sc
scambiandosi per una p).
Meno felice ancora,
ossia affatto cervellotica, e linterpretazione mitica, che tentò della leggenda lo
Steinthal, mettendola in relazione con la figura di san Nicola di Bari, protettore del
mare, e, attraverso il santo cristiano, col dio pagano Poseidon. Né alcuna connessione
sussiste tra la storia del Pesce Niccolò e la canzone popolare, precipuamente francese,
dellanello che la donna lascia cadere nel mare, e che il pescatore per amore o per
mercede di un bacio si tuffa a riprendere, tornando salvo o morendo secondo le varie
versioni.
Ma non sono dubbi i motivi che concorsero a formare, a nutrire, a dare popolarità e lunga vita alla leggenda
del Pesce Niccolò: la tendenza a immaginare uomini e animali con virtù diverse da quelle
naturali, uomini-pesci, uomini-uccelli, centauri o bue marino, pesce monaco, sirene,
arpie, e via discorrendo; i sentimenti che desta il mare, così quelli di attrattiva e
curiosità per lignoto, come quelli di cupidigia per le ricchezze che sommerse
chiude in se; le paure dei marinai con le congiunte immaginazioni su mezzi miracolosi di
vincere i pericoli; lesemplare effetto della maledizione materna; e altrettali. I
quali motivi sono vivi nelle varie forme in cui anche oggi il popolo narra la leggenda; ma
si perdono nella nota ballata dello Schiller Der Taucher, che tratta la leggenda di
Cola Pesce, immeschinendola in avventura erotica, e svolgendola in forma, più che
artificiosa, meccanica.
Se mai dovessi abbandonare le semplici parole del popolo per le elaborazioni letterarie della leggenda,
preferirei sempre, alla poesia dello Schiller e ad ogni altra, i belli esametri dellUrania
di Gioviano Pontano, nei quali Niccolò Pesce ridiventa un fratello degli eroi mitologici,
di Ercole, di Teseo, di Perseo.
Alta Pelori
saxa virum genuere, aluit quoque sicilis Aetna,
et puer humanos hausit de matre liquores,
instructusque hominum curis et ab arte magistra.
Sed tamen, ut paulatim aetas tulit, avia montis
nulla petit, nuIla ipse feris venabula torquet;
Littoribus tantum assistit, neptuniaque antra
sola placent, solis gaudet piscator arenis.
Ed egli visita il mare; entra nei talami ascosi delle Nereidi, nelle case dei Tritoni e di Glauco, e batte
alle porte di Nereo, e sorprende Galatea ed Aretusa. E torna sulla riva come trionfatore:
laetus spoliis, tantoque labore
summa petit, summae nanti famulantur et undae,
et pelagus posito praestat se ad iussa tumultu.
Occurrit Laeta ad litus Messenia turba:
gratantur matres reduci, innuptaeque puellae
mirantur: stupet egusum per littora vulgus.
Quando il re lo costringe con minacce a discencendere nel gorgo di Cariddi, il giovane eroe teme, conscio
del pericolo; ma
vincant fata (inquit), fato et rex durior;
haud me degenerem aspiciet tellus mea!
E in una tragica lotta a corpo a corpo col mostro, nella quale si sente fremere il mare, tremare
l'Etna e vacillare le città dell&'isola nativa, egli soccombe:
Ille igitur coelo impulsus, tellure relicta,
in ponto degit vitam, et fatum aequore clausit.
Tornano qui a mente i versi, nei quali il Boiardo (II, 8) canta di Orlando che precipita col gigante in fondo
al lago incantato:
Cominciò l'acqua a farsi chiara e pura,
e comincirono di vedersi intorno:
un altro Sol trovarno e un altro giorno.
Come nasciuto fosse un novo mondo,
se ritrovarno al sciutto in mezzo a un prato,
e sopra se vedean del lago il fondo,
il qual, dal Sol di suso alluminato,
facea parere il luogo piu iocondo;
et era poi dintorno circondato
quel loco d'una grotta marmorina,
tutta di pietra rilucente e fina.
Nel mare sopra richiuso perisce anche l'Ulisse dantesco (Inferno, XXVI), il
cui ultimo verso vedremo riecheggiato dal Pontano.
Benedetto Croce
1919
Revisioni 1923-1942-1949
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