Un sociologo
tra Scilla e Cariddi
Ripensando al mito di Colapesce ed al sacrificio immaginario di questo
eroe, mezzo uomo e mezzo pesce, che non può fare ritorno perché deve
per sempre reggere la colonna debole della Sicilia esposta ai
terremoti, ancora una volta riscopro la lezione che il mito ci
trasmette. Come un messaggio in bottiglia attraverso la deriva del
tempo i miti ci consegnano un sapere: le intuizioni dei nostri padri e
delle nostre madri che possono essere per noi sorgenti di nuova
coscienza.
Perché i nostri antenati hanno immaginato questa bizzarra storia? Chi
è il personaggio Colapesce?
Non è completamente un essere umano ma
ciò gli fornisce poteri divini che provengono dalla sua natura
animale, dal suo essere parte della natura: la leggenda lo immagina
figlio del dio Nettuno e fratello delle sirene ed egli ha il potere di
vivere nel fondo del mare come un pesce e di conoscerne i segreti e le
minacce. Da ciò nasce la sua capacità di vedere i limiti della
natura, in questo caso matrigna, e così scopre uno dei pericoli che
nasconde il mare: il sisma. Ci restituisce così l'immagine di un
territorio debole e ferito, che necessita di interventi di protezione
e sostegno, per i quali alla fine l'eroe si sacrifica, giungendo a
rinunciare alla sua vita umana sulla terra.
Ecco cosa possiamo
apprendere dalla leggenda di Colapesce: l'eterno monito, l'eterno
ricordo delle numerose ferite sismiche che la nostra terra ha subito.
Evidentemente i nostri antenati avevano una sensibilità ecologica
ante litteram che noi oggi rischiamo di perdere, abbagliati dai nuovi
miti della tecnologia e del potere economico, ed anziché elaborare
questa sensibilità in forma di coscienza moderna, come riflessione
sul senso del limite, alimentiamo illusioni prometeiche, di cui il
progetto del ponte sullo Stretto costituisce un ultimo attardato
esempio.
Invece coscienza del limite vuol dire pensare a noi razza
umana come parte della natura e dei suoi equilibri e non come padroni
incontrastati che possono capovolgere le leggi interne, modificare con
arroganza e megalomania ciò che migliaia di anni di lavoro geologico
hanno prodotto sulla faccia del pianeta, illuderci di diventare
"chirurghi del pianeta", non per sostenere e proteggere i
punti geologici più deboli ma per mutilarli, applicando orribili
protesi e cambiandone i connotati.
La saggezza antica di cui Colapesce è un esempio, ritorna in forma
moderna e scientifica tra gli scienziati e gli ambientalisti dei
nostri giorni che in vario modo si sono espressi contro il progetto
del mega-ponte sullo Stretto di Messina.
Da molte voci si sono levati
moniti contro il rischio sismico, si sono moltiplicate le critiche a
proposito della inutilità e degli svantaggi economici di un'opera
pubblica ciclopica come questa, ennesima riproposizione di un vecchio
paradigma già fallito per lo "sviluppo del Sud". E non sono
mancate le analisi e gli appelli degli urbanisti e degli ambientalisti
che segnalano l'irrimediabile guasto all'ambiente naturale ed ai
centri urbani dell'area dello Stretto che dalla costruzione della
mega-infrastruttura deriverebbe.
Ma adesso abbiamo un nuovo Colapesce: il sociologo Osvaldo Pieroni ci
offre uno sguardo nuovo, il punto di vista di chi studia l'impatto
sociale e antropologico di un'opera di questo genere ed elabora una
nuova espressione del "pensiero meridiano" (Cassano).
Richiamandosi ad una visione alternativa della modernità, ovvero ad
una modernità riflessiva, cosciente dei costi e dei rischi dello
sviluppo tecnologico ed economicistico (U. Beck), Pieroni produce un
saggio di sociologia dell'ambiente che analizza l'area dello Stretto
come luogo e mondo vitale.
Partendo dal concetto di "colonizzazione del mondo vitale"
di Habermas, Pieroni scrive:
"Lo spazio in quanto paesaggio
significativo, in quanto ambiente vissuto - ovvero luogo dell'azione,
il luogo della dinamica del corpo - ed il tempo come storia evolutiva
e delle generazioni che in quei luoghi o in riferimento ad essi si
ripetono e si formano (si socializzano) sono parte del mondo della
vita come sfondo della comunicazione e come riferimento della
coscienza collettiva. Le emozioni ed i sentimenti che un luogo
suscita, che dalla esperienza di un luogo emergono, attraverso
l'intersoggettività linguistica ed il suo ripetersi, si tramutano in
enunciati, ovvero in aspettative normative, in valori. E questi
ultimi, in quanto tali, hanno pretese universalistiche. In questo
senso, se consideriamo il luogo tra Scilla e Cariddi, in quanto luogo
fisico e naturalistico, in quanto campo di emergenza emozionale ed in
quanto simbolo linguisticamente costruito, come dimensione del mondo
della vita, possiamo parlare della opposizione al progetto del ponte
come resistenza alla colonizzazione del mondo della vita".
Una resistenza al passaggio dall'attuale luogo, in senso
antropologico, al non-luogo emblematico. Da questa attenzione al
sociale, alla memoria, all'antropologia dello Stretto, Pieroni deriva
la particolare cura con cui analizza l'unicità di quel mondo
fisico-spaziale e antropologico costituito dallo scenario di acque e
terre di Scilla e Cariddi.
L'analisi mette in evidenza le eccezionali
caratteristiche ecomorfologiche e mitologiche dell'area: le correnti
marine ed i gorghi acquatici da cui i miti di Scilla e Cariddi; il
paradiso zoologico costituito dalla fauna ittica, che dagli abissi
viene in superficie e dal crocevia del volo degli uccelli
rappresentato dallo Stretto; le particolarità geosismologiche
derivanti dall'intersezione tra i terminali dell'arco eoliano e
l'incisione italiana della grande faglia mediterraneo-orientale;
l'interessante geografia simmetrica dei due versanti peloritano e
aspromontano; l'estrema bellezza paesaggistica dello Stretto derivante
da un capolavoro geologico della natura che ha unito due differenti
mari ed ha diviso in due parti la stessa terra.
I miti di una natura pericolosa fino al rischio mortale per i
naviganti divorati dal mostro di Scilla o ingoiati dal gorgo di
Cariddi, ma nello stesso tempo affascinante e magica come il canto
delle sirene, capace di rapire ed ammaliare: questi miti esprimono
l'ambivalenza tra rischio ed estasi, contemplazione e catastrofe e ci
indicano come "stare" in questo luogo. Ci mostrano l'unico
rapporto possibile con questo ambiente: guardare e godere, navigare e
riposare, ma allo stesso tempo difendere e difendersi con i tappi di
cera nelle orecchie come Ulisse e gli occhi vigili per prevenire i
maremoti (o la "rema" troppo forte), gli uragani di vento ed
i terremoti.
Come non capire che in un'area in cui si sono succeduti ben 36
terremoti catastrofici negli ultimi 2000 anni, l'unico mezzo
ragionevole per i collegamenti deve essere il mare e che non possiamo
affidarci ad una infrastruttura sospesa ad immense torri d'acciaio con
i piedi ballerini ed esposta allo scirocco che da queste parti corre a
più di 120 km all'ora. E quando il mare e il vento dicono no, che non
si passa, è sempre possibile fermare i motori del traghetto e
fermarsi a guardare, con poco danno economico, tutto sommato. Il fermo
dovuto ad una notte di tempesta non ha mai mandato in rovina nessuno!
Pieroni ci racconta tutto questo ed altro ancora, argomentando
un'altra visione dello sviluppo locale e sembra ci dica: Prometeo non
abita più qui.
Pieroni infatti compie una rassegna critica dei modelli di sviluppo e
di modernizzazione proposti per il Sud negli ultimi decenni di cui il
ponte sullo Stretto costituisce parte integrante ed insieme esempio
emblematico. Modelli già ampiamente fallimentari in cui il
Mezzogiorno è visto come una periferia dell'Occidente, in una spirale
di dipendenza in cui non contano le risorse endogene e le
compatibilità ambientali ma solo lo spazio da riempire con grandi
opere e poli di sviluppo. Modelli che rimandano ad un pensiero unico e
colonizzatore rispetto a cui il tentativo, riuscito, di Pieroni è
quello di rifiutare l'ennesima omologazione culturale che l'ipotesi
ponte rappresenta. E invece occorre fare attenzione ai soggetti locali
che possono valorizzare il proprio "mondo della vita" e
diventare sempre più consapevoli della immensa risorsa di bellezza
ambientale oltreché di memoria, di letteratura e di mitologia che lo
Stretto rappresenta. Dunque un modello alternativo a quello che
rappresenta il ponte, che offra per l'area dello Stretto non una
crescita (?) economica insostenibile, coi danni irreversibili che
comporterebbe, ma un "giardino mediterraneo".
Il bilancio tratteggiato dal libro, sul progetto attualmente in
discussione di ponte a campata unica, conclude che questo ponte
sarebbe inutile e dannoso sotto il profilo delle economie locali e
delle economie generali di trasporto, pericoloso sotto i profili
sismico e della sicurezza, nocivo e distruttivo sotto l'aspetto
ambientale, denso di conseguenze negative sotto il profilo
urbanistico, regressivo e omologante sotto il profilo culturale.
Così tra la Scilla del sottosviluppo e della disoccupazione e la
Cariddi della tecnologia distruttiva e del modello economico obsoleto
e diffuso, il sociologo indica un'altra via più sicura, praticabile e
sostenibile e soprattutto aperta alla bellezza, grande bisogno sociale
e risorsa della memoria e del futuro.
Nella
Ginatempo
Settembre 2000
Ora Locale
www.colapisci.it
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