Bolle e ribolle e sibila e si alza
come acqua che al fuoco si consuma
e fiotto a fiotto senza posa incalza
sprizzando verso il cielo la sua spuma;
sembra che non si possa mai svuotare
e il mare partorisca un altro mare.
La ballata di Schiller s’ispira alla versione siciliana, ma il tuffatore del titolo non è il famoso Colapesce, bensì un paggio coraggioso che, a fronte della pavidità dei cortigiani, accetta la sfida del re. Orgoglioso e abbacinato dal brillio della coppa d’oro che il re getta nel gorgo di Cariddi, esca per chi oserà recuperarla dal fondo, il ragazzo è poi convinto a ripetere il tuffo dalla promessa della mano della principessa, che invano cerca di trattenerlo. E non farà mai ritorno. Schiller quindi non pensa al prodigioso uomo-pesce, ma ad uomo qualunque, armato solo del suo coraggio e della sua volontà, a fronte della cieca e torbida violenza degli elementi; il tuffatore ha paura del gorgo e ribrezzo dei mostri in agguato, ma in effetti l’essere più mostruoso è il re, che gioca cinicamente con la vita altrui, fatuo più che crudele.
“L’uomo d’acqua” di Ludwig Tieck
Tutti questi aspetti sono richiamati in gioco nel «L’uomo d’acqua» (Der Wassermensch) di Ludwig Tieck, novella in forma dialogica, pubblicata nel 1835. Si tratta della conversazione in un gruppo di amici, di ritorno dall’aver assistito ad una versione teatrale della ballata di Schiller.
La motivazione di fondo del testo è politico-letteraria, in quanto vi si contrappone un intento rivoluzionario tipico della Junges Deutschland e impersonato dal giovane Florheim, ad una posizione –che è quella di Tieck- di conciliazione tra passato e presente, e di una creatività aperta, non settaria, attenta a cogliere la ricchezza della tradizione. Florheim vorrebbe fare della storia di Colapesce un testo “di lotta”, in cui il protagonista sarebbe un ribelle contro la tirannide. Tieck vi contrappone una visione aperta e dinamica, in cui la tradizione (la leggenda popolare) è materia e stimolo per nuove ricerche fantastiche e formali. E lo dimostra nel dialogo stesso, ove gli interlocutori ipotizzano quattro diverse varianti della ballata di Schiller: dalla variante “marinaresca”, coi traffici marini napoletani e siciliani; a quella “rivoluzionaria” in cui si assiste ad una rivolta in cui il tiranno viene buttato in mare; a quella “erotica”, sorta di storia d’amore a lieto fine; infine a quella “gotica”, dove è il destino e tenebrose potenze a decidere la sorte del protagonista. In questo modo Tieck si ricollegava al filone romantico (i Grimm, Arnim, Brentano) di raccolta e studio delle fiabe e leggende, da non considerare come un patrimonio antiquario, ma come una fonte inesauribile d’invenzione fantastica e riflessione morale.
Un poema, un sonetto, una fiaba
Danno conferma di tale tesi e della fortuna della leggenda di Colapesce nella letteratura in lingua tedesca, due testi, tra loro assai diversi, per lunghezza e atmosfera. Si tratta di un poema di Franz von Kleist, del 1792, Nikolaus der Taucher (Nicola il tuffatore), in cui l’autore sviluppa il tono epico della leggenda, ponendo di fronte l’uno all’altro, in un dimensione eroica e teatrale, l’imperatore Federico e il prodigioso nuotatore, sullo sfondo dei luoghi mitici di Scilla e Cariddi.
All’altro estremo sta un sonetto del poeta svizzero Conrad Meyer (1825-98), il quale porta la leggenda ad una dimensione domestica, ironica ed insieme simbolica.
Qui Colapesce è diventato tale per un battibecco con la moglie e la noia e il disgusto degli esseri umani: il mare, il nuoto, il viaggio, sono tutte metafore della libertà; della leggenda è rimasto il nucleo essenziale e l’intuizione di uno stato originario, felice, dell’uomo nella natura.
Quello stesso che troviamo nella versione che Raffaele La Capria scrisse nel suo Colapesce (1975): rivolgendosi specificatamente ai bambini, lo scrittore si avvalse del finale aperto e misterioso del racconto tradizionale, per immaginare una fuga occulta del ragazzo, che con l’aiuto di una saggia tartaruga, inganna il re e i cortigiani, e riconquista in mare aperto la sua libertà, «lontano dalla terra, dagli uomini e dai re».
In questa immagine, il racconto torna forse al suo spunto originario, da ricercarsi nel mito, più che nel patrimonio di fiabe e leggende, nelle quali il tema del mare è prevalentemente legato alla navigazione, alle creature misteriose, alle isole incantate. Nel mito l’invenzione di Colapesce s’incontra non solo con le sirene e le divinità marine, ma con una radicalità del rapporto uomo-natura, e con l’idea del limite, rappresentato nella narrazione omerica dal gorgo inghiottitore; del quale il profondo significato, nella percezione dell’ordine cosmico, darà Dante per bocca di Ulisse:
e la prora ire giù com’altrui piacque,
infin che il mar fu sovra noi richiuso.
È da Nicola/Niccolò/Nicolaus Pesce che vengono Colapesce (che qui scegliamo di usare), Cola Pesce, Pescecola, ma anche Cola Pipe, Colan o Colano Pesce, ed altre varianti nelle varie lingue e dialettali.
Per la parte riguardante la letteratura tedesca, mi sono avvalsa delle traduzioni e ricerche sui testi originali, di Marisa Fadoni Strik.
L’intera ballata è stata tradotta in rima e pubblicata in Il Covile n. 645 20/9/2022