La leggenda di Colapesce

 

Da San Nicola a Cola Pesce: mito, agiografia e folklore
intorno alla leggenda  del prodigioso nuotatore siciliano


E tu chi resti

e canti li me jorni

diccillu a tutti

chi Colapisci un dormi.

Dicci  ca la Sicilia

nun finisci

nzinu a quannu

nun mori Colapisci. 

 

Ignazio Buttitta, Colapisci



I - Il marinaio di Messina

Come l'essere ontologicamente contraddittorio a cui si riferisce, il concetto di Uomo del Mare appare a prima vista ondeggiante e diversificato, difficile da afferrare e variabile nelle definizioni e contestualizzazioni che sono state proposte a turno dalle culture colte e dalle tradizioni popolari.

1. Gli enciclopedisti e i compilatori eruditi del Medioevo e del Rinascimento credevano in lui come se fosse una creatura reale e sappiamo che, fino al XVIII secolo, alcuni autori continuarono a considerarlo come un caso provato di "filosofia naturale".

Tuttavia, l'immagine fornita dalla cultura accademica, che non ha mai smesso di considerare l'Uomo Marino come una curiosità scientifica, o addirittura un prodigio della Creazione, è generalmente incerta e ambivalente. A lungo dipendenti da una rappresentazione medievale, di origine mitica, dell'universo marino come una sorta di doppio invertito del mondo terrestre, studiosi e scrittori hanno spesso confuso e talvolta implicitamente confondono uomini marini totalmente antropomorfi e ibridi neotritoniani con un ittiomorfismo più o meno marcato. Hanno anche esitato, nei loro sistemi esplicativi, tra l'idea di una razza specifica, intermedia, come quella delle sirene, tra l'umanità e l'universo marino (i cui rappresentanti possono essere anfibi o esclusivamente pelagici) e l’immagine più o meno anedottica di individui isolati che, a seguito di questa o quella circostanza,  avrebbero adottato l’habitat marino e, secondo un’altra rappresentazione leggendaria  d’origine medioevale già applicata al tipo tradizionale dell’Uomo selvaggio, avrebbero visto il loro habitus e anche la loro fisiologia “marinizzarsi” ed acquisire, sotto l’influenza dell’ambiente acquatico, caratteristiche vicine a quelle dei pesci.

Lettori di Plinio e di Solino, i nostri studiosi hanno ereditato le loro incertezze e le loro convinzioni, e le loro speculazioni parascientifiche non sono radicalmente separate dalle favole che alimentano la fantasia dei “geni dell'acqua” e non solo. E altri "spiriti elementari" della cultura folclorica. Questi personaggi, che appartengono esplicitamente al dominio del soprannaturale e del meraviglioso nelle leggende topografiche, sono fluttuanti come gli "uomini marini" delle enciclopedie e delle miscellanee. Anch'essi possono apparire più o meno antropomorfi e/o zoomorfi, solitari o sociali, anfibi o incompatibili con il mondo extra-acquatico. Le loro affinità e radici mitiche sono però molto più esplicite, come dimostra l'insistenza delle tradizioni che li riguardano sul loro carattere amichevole e benefico, o al contrario sulla loro natura ostile e pericolosa, e sui loro poteri soprannaturali o sulla loro connivenza con credenze e riti magici. Spesso viene avanzata l'ipotesi che alcuni di questi "geni" derivino, in forma "folcloristica", da questa o quella antica divinità marina.

Qualunque sia la verosomiglianza, a seconda dei casi, delle opere più o meno recenti hanno stabilito con chiarezza la realtà di alcune cose tramandate e la relativa continuità, dall'antichità al Medioevo, di credenze e storie tipiche legate a questo genere di personaggi. Il caso più evidente è quello degli antichi “dei proteiformi” (in particolare dei “Vecchi del Mare” mediterranei) delle culture indoeuropee, la cui configurazione si ritrova nelle tradizioni medievali sui luitons (o nuitons), lontani discendenti di Nettuno, di cui si trovano tracce nella letteratura epico-cavalleresca e nelle tradizioni orali raccolte ancora nei secoli XIX e XX dai folcloristi.

Dipendente da strati culturali e da molteplici vettori di trasmissione, la tipologia dell'Uomo Marinaio appare quindi oggi primariamente attinente al genere della leggenda, di cui condivide lo statuto instabile e intermedio, addirittura vago e talvolta contraddittorio: la credenza generalmente affermata nella realtà effettiva della sua esistenza è controbilanciata dalla natura manifestamente favolosa del materiale narrativo e immaginario utilizzato per stabilirlo come protagonista di una storia o di un'altra, e dal fatto che fa parte della realtà concreta del mondo in cui vive. La sua collocazione nella realtà concreta di un determinato contesto topografico sembra essere smentita dalle affinità dei racconti che lo utilizzano con un particolare tema mitico migratorio o con un particolare tipo di racconto meraviglioso.
 

2. La leggenda siciliana di Cola Pesce, alcuni aspetti della quale sono oggetto di questo lavoro, è una buona descrizione delle incertezze e delle ambivalenze del tipo di Uomo Marino di cui ho appena citato. Questo personaggio probabilmente immaginario, che non è altro che uno dei più illustri rappresentanti di questa tipologia leggendaria, e che ha dato origine, fino a tempi molto recenti, a numerosi studi, sia storici che letterari. Si trova infatti all'incrocio tra cultura accademica e tradizione orale: Entrambe sono rappresentate in una serie di testi (prima in latino, poi nelle lingue volgari), i primi dei quali, di Walter Map e Gervais de Tilbury, risalgono alla fine del XII e all'inizio del XIII secolo, e in una collezione di versioni orali siciliane raccolte da G. Pitrè negli ultimi decenni dell’Ottocento. Si tratta quindi di un personaggio letterario e di un tipo folcloristico, di un caso di "filosofia naturale", commentato ad nauseam da numerosi studiosi e altri autori di miscellanea, e di un protagonista di storie d'avventura più o meno favolose (persino meravigliose),
Questi racconti erano narrati da contadini e pescatori analfabeti del messinese e i loro temi si ritrovano in canzoni popolari e racconti folkloristici, oltre che in exempla e, come vedremo, in leggende agiografiche.

Alla complessità derivante dalle molteplici genealogie di questi racconti, dalla molteplicità degli strati culturali a cui si riferiscono e dalla fluttuazione dei registri generici e discorsivi a cui appartengono, va aggiunto un altro fattore di labilità: tradizione locale a priori, saldamente radicata (nonostante la sua forte componente pugliese) nella regione dello Stretto di Messina, la storia di Cola Pesce è diventata una leggenda migratoria: veicolata oralmente da marinai e pescatori, ha trovato la strada per Napoli - dove è stata raccolta da B. Croce, si diffuse in Spagna e giunse fino alle coste bretoni, dove il prodigioso nuotatore siciliano si unì al luiton francese medievale e divenne "l'allegro folletto Nicole"; quanto alla sua trasmissione scritta e alla sua diffusione europea, queste beneficiarono prima della diffusione medievale delle raccolte di aneddoti leggendari e prodigi di W. Map e G. de Tilbury, e poi, in epoca moderna, di quella delle grandi miscellanee in latino e in volgare, che hanno incorporato la tradizione siciliana nel repertorio dei "luoghi comuni" della Docta Varietas.

La definizione dei contorni del personaggio non poteva non risentire di questa esplosione delle sue registrazioni di eventi e della diversità dei media che veicolavano la sua leggenda.  Ciò che rimane costante è che Cola è sempre presentato come realmente esistito, che è fondamentalmente un membro della razza umana, (parla) che è tuttavia, in quanto uomo che abita i mari (più in particolare le profondità dello Stretto di Messina), un caso unico nel suo genere: non appartiene a nessuna comunità e non rappresenta nessuna razza specifica.
È nato sulla terraferma e ha avuto la normale infanzia di un ragazzo costiero, che si distingue solo per l'idrofilia esacerbata e le straordinarie capacità natatorie. La sua vita è stata stravolta da una sconsiderata maledizione lanciatagli da uno dei genitori (di solito la madre), esasperato dal suo incessante nuotare: stai in mare se ti piace così tanto! Il bambino ha fatto suo questo desiderio involontario, che porta con sé una forza magica vincolante. Una sorta di destino, unito all'influenza dell'ambiente, sembra aver alterato la sua natura e avergli trasmesso l'incapacità dei pesci di vivere fuori dall'acqua. Queste costanti eziologiche e narrative sembrano essere state più o meno fissate a partire dalla fine del XIII secolo, quando la storia completa e la tipologia definitiva del personaggio sono legate insieme per la prima volta nella Chronica de Salimbene di Adam. I testi successivi non hanno fatto altro che ripetere e sviluppare questi dati stabili. Tuttavia, solo nel XIV secolo (Chronicon de Pipino de Bologna) compare il nome di Piscis, un nome che sarà per sempre associato a Cola, e che sembra contraddire la ripetuta affermazione che il nostro eroe appartenga alla specie umana.
 

3. Questa contraddizione evidenzia chiaramente, malgrado le costanti sopra ricordate, l'ambivalenza e l'instabilità statutaria del nuotatore siciliano, di cui alcune disparità tra le versioni esistenti della sua leggenda tradiscono le incertezze e gli interrogativi che queste ultime potrebbero aver suscitato.
Incertezze sulla sua origine - a volte ritenuta pugliese, più spesso siciliana - così come sulla sua sorte finale: annegò mentre si tuffava nelle profondità dello stretto per recuperare la coppa (o il gioiello) gettata lì dal re di Sicilia (Federico o altro, a seconda dei testi), come sostengono più o meno esplicitamente la maggior parte delle versioni, oppure la sua scomparsa si spiega con la scelta di immergersi definitivamente in un mondo sottomarino inaccessibile, forse paradisiaco, come suggerisce la Relación spagnola del 1608? Sebbene “meravigliosa”, questa seconda possibilità sembra più logica perché non si capisce come un essere umano che ha acquisito tutte le caratteristiche dei pesci per quanto riguarda la respirazione e l'adattamento all'ambiente marino possa “annegare”.

La variabile più notevole, però, riguarda la costituzione fisica del personaggio. Se è generalmente accettato che si tratti effettivamente di un uomo e non di un animale, di un genio marino o di uno spirito elementare, alcune versioni della sua leggenda, in particolare quelle che provengono dalla tradizione orale, lo rendono semi-zoomorfo e gli danno, con la parte inferiore metà del corpo, la forma di una coda di pesce, somigliante a un mitologico Tritone. Questo ittiomorfismo parziale compare solo dopo l'abbandono della propria vita terrena a causa della maledizione dei genitori, il che tende a far pensare che quest'ultima abbia avuto un effetto magico di metamorfosi simile a quelli menzionati negli antichi miti relativi alla Dea Siria e al suo catapontismo (dovuto anche a una maledizione a seguito di una trasgressione).

La contraddittorietà del personaggio è allora massima: senza essere assimilato alla categoria delle sirene o dei tritoni, pur rimanendo un essere umano, capace in particolare di parlare, Cola Pesce appare come un essere indefinibile. Quando conversa con i marinai - ai quali è solito informare sulle correnti e sugli scogli della zona dello stretto - vediamo emergere solo la sua metà antropomorfa, mentre la parte inferiore del corpo rimane nascosta sotto la superficie delle acque dello stretto. Non abbandonando mai più il suo habitat marino, non appare nemmeno, come certi Tritoni, come un anfibio: l'autore del popolare romanzo spagnolo del 1608, ricamando sull'idea della sua incompatibilità con gli spazi non acquatici, immagina che Pece Nicolao, quando vuole scendere a terra per partecipare al matrimonio della sorella, debba essere trasportato lì in una botte piena d'acqua...

Alcune versioni tendono anche a dissociarsi, parzialmente o completamente, dall’idea che Cola sia siciliano, ipotizzando che la sua origine possa individuarsi, essendo la storia in continua diffusione, in tutti gli oceani del pianeta, oppure individuando Cola come abitatore delle acque del Golfo di Napoli, di quello di Cadice o delle coste atlantiche della Francia.

Da notare anche che le storie che lo rendono pugliese - senza spiegare come o perché ci sia arrivato in Sicilia -  riconoscono implicitamente e forse inconsciamente il legame con San Nicola di Bari, come il nome   del prodigioso nuotatore messinese sembra implicare. Essendo egli stesso un santo pugliese immigrato dall'Asia Minore sin dalla traslazione delle sue spoglie da Myra a Bari nel 1087 (un'altra traslazione alternativa e rivale a Venezia fu effettuata nel 1100), si tratta di un panorama geografico ampio che apre speculazioni sulle origini dellla nostra leggenda ed è infatti, da Oriente a Occidente, un vasto viaggio solare quello che sembra aver compiuto il suo strano protagonista. È proprio su alcuni aspetti inesplorati della sua affinità con san Nicola che mi propongo ora di focalizzare la mia attenzione.

 

II – Folclore e mitologia dell'Oro sommerso

1. Benché smentita da alcuni, in particolare da B. Croce, la parentela di Cola Pesce con San Nicola fu ammessa dalla maggior parte degli esegeti della sua leggenda, che in ciò non fecero altro che confermare quanto già assicuravano le primissime versioni medievali, poiché W. Map riportò il suo “Nicholas Pipe” dalla Puglia e lo trovò Raimon Jordan lo chiamò “Nicola de Bar”.

Tuttavia, l’enorme differenza tra il nostro tuffatore e il santo greco sembra aver messo molto in imbarazzo la critica: pur essendo benevolo verso gli uomini, Cola Pesce, a priori, somiglia ben poco a un santo: non compie miracoli e apparentemente non c’entra niente con la religione. San Nicola, invece, pur essendo protettore dei marinai e autore di miracoli marini, non ha nella sua leggenda canonica alcun episodio di immersione o di residenza subacquea e certamente non appare mai come un uomo-pesce.

Anche l'analogia onomastica è generalmente considerata imposta più o meno artificialmente, dal momento che il culto di San Nicola, rafforzato dalla conquista normanna, si impose nell'Italia meridionale e in Sicilia, su una tipologia leggendaria che non aveva nulla in comune con la leggenda agiografica.

A. Seppilli osserva con una certa confusione questo cosiddetto fenomeno senza saperne dare ragione e asserisce perentoriamente che “se il nome Nicola è conseguente all'imporsi di un culto di San Nicola taumaturgo, protettore dei naviganti [.. .] pure nulla della sua leggenda sacra è penetrato nella nostra leggenda siciliana di Nicola Pesce, che è rimasta intatta”.

Senza negare che la leggenda siciliana comprende elementi provenienti da molteplici strati culturali e presuppone una contaminazione tra dati eterogenei, proporrò qui di mettere in discussione il postulato formulato da A. Seppilli. Sembra infatti che nessuno si sia preso la briga di esaminare i punti di contatto tra le due leggende. Tuttavia, uno studio comparativo ci permette di identificare alcune analogie, anche se relative e puntuali, e di intravedere su quali basi possa essere avvenuto il processo di folclorizzazione, trasposizione e spostamento immaginario e narrativo che ha consentito di porre in essere alcuni degli elementi strutturanti della leggenda siciliana, dati su cui si sono poi cristallizzati i contributi allogenici.

2. Esaminerò qui solo uno di questi punti di contatto, che riguarda proprio la sequenza narrativa principale della leggenda di Cola Pesce, ovvero quella che evoca il suo fatale tuffo alla ricerca dell'oggetto d'oro gettato in mare dal re di Sicilia, nel punto più profondo e pericoloso dello Stretto di Messina.
Questo episodio, che sfocia nell'annegamento, o almeno nella definitiva scomparsa del prodigioso nuotatore, compare nella maggior parte delle versioni scritte e orali del ciclo dopo la sua prima comparsa nella cronaca di Salimbene. Non è menzionato nelle prime tre versioni medievali, ma queste sembrano assumerlo implicitamente.
Quella di W. Map precisa che proprio il re siciliano Guglielmo è responsabile della morte di Nicola Pipe e che fu costretto, contro la sua volontà, a lasciare l'ambiente marino per presentarsi al suo cospetto che provocò “absentia maris” la sua morte.
Versioni successive relative alla ricerca della coppa sommersa insisteranno anche sull'ostinazione del re nel pretendere che Cola effettuasse questo tuffo nonostante quest'ultimo lo avesse avvertito che rischiava di perdere la vita.
La versione di Gervais di Tilbury non allude alla morte dell'eroe ma menziona lo stesso motivo della costrizione esercitata su di lui dal re ("...referunt ex coactione regis Siculi Rogeri descendisse Nicholaum Pipam...").

Per quanto riguarda Raimon Jordan, che non sviluppa nessuna storia, insiste sul carattere fatale e prematuro della morte di Nicola, che sembra rassegnato al suo triste destino quanto il Cola Pesce delle versioni successive che obbedisce all'ordine del re sapendo che morirà. Sembra quindi che, fin dalla sua origine, la leggenda contenga i motivi chiave dell'ordine mortale imposto abusivamente dal re e della sottomissione costretta o fatalistica del nuotatore che sa cosa lo attende.

Molteplici variazioni sull'episodio della ricerca della coppa sommersa verranno sviluppate nelle successive versioni scritte e orali.
L'oggetto gettato in acqua può essere una coppa, un anello, una corona o anche una palla di cannone. Potrebbero essere state imposte anche immersioni solo per esplorare i fondali marini, come curiosità “scientifica”.
L'ordinante è molto spesso un re di Sicilia, ma questo ruolo a volte è conferito da un governatore o da una regina. Di solito Cola compie il tuffo fatale per pura obbedienza, ma può succedere che si tratti di ottenere la mano di una giovane ragazza.
L'annegamento non è sempre esplicito: accade che Cola ritorni con la coppa, ma viene poi assassinato per ordine del governatore che non vuole restituirgli la figlia.
Il contesto di una celebrazione che prevede gare navali, gare di nuoto e tuffi può finalmente sostituire l'ordine reale.  Sembra in ogni caso che gli altri due episodi salienti della leggenda di Cola Pesce, che non sono oggetto di alcuna allusione nelle prime versioni, siano solo doppietti o echi indeboliti della sequenza essenziale della ricerca della coppa sommersa.

Il tuffo iniziale del bambino, seguito dalla maledizione lanciata dalla madre, ricorda fortemente una giustificazione a posteriori dell'habitat marino adottato dal protagonista e appare come una sorta di preparazione, o variante simmetrica e invertita, della sequenza della tazza: Cola si tuffa e scompare perché la sua disobbedienza, trasgressione di un divieto implicito, ha portato la madre a maledirlo, ed egli subisce, divenendo irrimediabilmente uomo marino, l'effetto restrittivo di tale maledizione; è allora obbedendo all'ordine imperativo della figura sostitutiva del padre rappresentata dal re che egli si tuffa nuovamente, questa volta scomparendo definitivamente, subendo passivamente una costrizione che sa gli sarà fatale.

Quanto alla sequenza dell'esplorazione degli abissi, durante la quale Cola scopre i tre pilastri sottomarini su cui poggia la Sicilia (o il Castello dell'Ovo nella versione napoletana), pilastri il cui stato di degrado gli permette di predire che presto l'intero paese verrà inghiottito dalle onde, equivale talvolta a quello della ricerca della coppa, che sostituisce o alla quale è strettamente associato, e risuona (a livello collettivo), per il suo contenuto esplicitamente apocalittico, nella sfera individuale escatologia implicita nel fatalismo con cui Cola fa il tuffo che sa in anticipo determinerà la sua morte.

Assenti dalle prime versioni, mentre il tema dell'ordine reale era già imposto come base per i successivi sviluppi narrativi su cui sarà costruito il ciclo leggendario, queste due sequenze aggiuntive appaiono come un'amplificazione secondaria destinata a inquadrare la messa in scena di questo tema strutturante. È significativo che entrambe corrispondano a storie standard e a motivi folcloristici migratori indipendenti dalla leggenda del tuffatore, vale a dire da un lato gli esempi ammonitori relativi ai pericoli e all'empietà della maledizione, dall’altra parte le rappresentazioni pan-indoeuropee riguardanti i pilastri cosmici, le storie e i motivi che osserviamo essere associati a tutti i tipi di tradizioni marine.

3. Torniamo allora al tema dell'immersione alla ricerca della coppa gettata dal re che sembra essere la radice dell'intero ciclo.

È da molto tempo che i folkloristi, a cominciare da G. Pitrè, hanno notato che questa sequenza assomiglia all'argomento di un intero ciclo di canzoni popolari, in particolare francesi e italiane, in cui si tratta di una giovane ragazza che perde, o getta deliberatamente, un anello nel mare, in un fiume o in un pozzo e chiede che gli venga riportato. Un giovane innamorato della ragazza si tuffa e cerca di recuperare l'oggetto. In diverse versioni non ci riesce e annega; in altri ritorna trionfante.

I primi ricercatori che si interessarono a questo ciclo di canzoni (di cui conoscevano principalmente le versioni francese e italiana) pensarono inizialmente che provenisse dalla leggenda di Cola Pesce attraverso una sua versione letteraria del Rinascimento.
Tuttavia, oggi sembra che il dossier sia più complesso di quanto pensassimo inizialmente: sono state identificate numerose nuove versioni, e la loro vasta geografia - che comprende in particolare l’Europa sudorientale, il Medio Oriente, il mondo slavo, l’Ungheria, la Lituania, ecc. - mostra che il ciclo in questione ha molteplici connessioni (in particolare con un gruppo di ballate balcaniche relative ai sacrifici fatti nella costruzione di fondazioni e  di ponti) e probabilmente affonda le sue radici in temi mitici dell'antichità mediterranea.

Ciò è evidenziato dall’analogia delle versioni elleniche moderne, che spesso hanno un carattere “meraviglioso” assente in altre tradizioni, con alcuni testi antichi relativi agli eroi della mitologia greca.
Si può quindi formulare l'ipotesi che i canti non derivino da una delle versioni della leggenda siciliana, ma che entrambe dipendano allo stesso tempo da un più antico sfondo comune.

Due antiche tradizioni greche, una più “mitologica”, l'altra più “letteraria”, contengono infatti già i temi sviluppati rispettivamente dalla leggenda siciliana e dal ciclo di ballate europee sulla “pesca dell'anello”.
Riguardano innanzitutto l'avventura sottomarina di Teseo, che il re Minosse sfidò per dimostrare la sua ascendenza divina poseidoniana gettando il suo anello in mare e ordinandogli di andare a recuperarlo.
Sappiamo come Teseo supera la prova e ritorna in superficie con una corona e un mantello donatigli da Anfitrite. Sebbene la dimensione ordalica e regale del catapontismo, evidente in questo episodio del gesto teseano, sia un po' cancellata nella leggenda di Cola Pesce, egli è pur sempre un re, tirannico e ostile all'eroe come lo è Minosse nei testi greci, che manda il nuotatore siciliano alla ricerca di un oggetto altamente simbolico legato alla sovranità (il più delle volte una coppa, ma talvolta anche un anello o una corona).

L'altro testo antico da citare è quello che riguarda Anteo di Alicarnasso, che la moglie del tiranno di Mileto di cui è ostaggio, obbliga, per ripicca nel vedere le sue avances respinte dal giovane, a scendere in un pozzo profondo dove ha gettato una coppa d'oro che gli chiede riprendersi. Sappiamo che Anteo morirà in questo pozzo, schiacciato dalla grossa pietra che la regina gli scaglierà.
Si tratta quindi di una storia tragica: l'esito generalmente fatale della leggenda di Cola Pesce, costretto anche lui a obbedire a un ordine reale abusivo, sembra rientrare nella tradizione illustrata da questo antico aneddoto. Il contenuto erotico e personaggi femminili di questi ultimi sono però assenti nel racconto siciliano, ma si ritrovano nelle ballate moderne del ciclo relativo alla "pesca dell'anello", dove, per compiacere una fanciulla e recuperare il gioiello perduto,  l'eroe getta se stesso in acqua.
Le versioni greche moderne di questo tipo di canto richiamano indirettamente l'antica storia poiché la ragazza viene spesso presentata come un'entità distruttiva o addirittura mostruosa, talvolta una Lamia, che utilizza solo lo stratagemma dell'anello presumibilmente perduto per condurre il giovane sub alla sua rovina.

Sebbene la leggenda di Cola Pesce si distingua da questo ciclo per l'assenza di motivazione erotica per il tuffo, il fatto che almeno una delle versioni orali raccolte da Pitrè costituisca un'eccezione a questa regola generale suggerisce che vi siano state contaminazioni tra leggenda e ballate.
Lo conferma un incontro occasionale tra i due cicli: così come i canti neoellenici alludono ai serpenti che il tuffatore trova in fondo al pozzo, e talvolta suggeriscono che questi rettili, che divorano il giovane, non sono altro che un altro forma del demone dragonesco che assunse le sembianze di una giovane fanciulla per ingannare il ragazzo, allo stesso modo diverse versioni della leggenda siciliana indicano che Cola trovò un pesce mostruoso in fondo allo stretto e occasionalmente ipotizzano che lo' divorò.

È altrettanto ovvio che l'associazione del catapontismo con gli scenari erotici ha radici mitiche e rituali profonde e antichissime, come testimoniano le leggende ordaliche relative al "salto di Lefkada" e i miti siriaci ed ellenici delle "dee tuffatrici" (del tipo Ino-Leucothea o Atargatis-Derceto).

Va notato che questi miti devono avere qualche collegamento con lo sfondo mediterraneo della nostra leggenda siciliana (dove però l'elemento erotico è quasi del tutto scomparso) poiché sono quelli che più coerentemente articolano il tema della trasformazione dei giovani eroi tuffatori in pesci (Ichthys, Cupido) o divinità marine (Mélicertes-Palaemon). Questa metamorfosi è - come abbiamo visto - un motivo essenziale nelle versioni orali siciliane della leggenda di Cola, anche se appare solo sotto forma di semi-ittiomorfismo.
Per quanto riguarda la divinizzazione del personaggio, tuttavia, non lo è eccezionale, non escluso dal ciclo poiché lo vediamo comparire nella versione spagnola del 1608 (dove Pece Nicolao è presentato in termini poseidoniani come il padrone di un paradiso sottomarino dove i pesci godono di una sorta di immortalità) e in una versione bizantina del Rinascimento, dove il prodigioso nuotatore appare come l'immortale sovrano di tutti i mari del pianeta.

 

III – Dalla pesca dell'anello alla ricerca della coppa

Quando si tenta quindi di intravedere l'antico sfondo mitico da cui potrebbero dipendere contemporaneamente la leggenda siciliana e il ciclo di ballate narrative de “La pesca dell'anello”, sembra che si tratti di due distinti tipi di narrativa, l'uno basato su una prova reale (l'archetipo rappresentato dalla leggenda di Teseo e Minosse), l'altro su una prova erotico-sponsale (la leggenda di Antée e le canzoni moderne).

1. Curiosamente, la leggenda di Cola sembra riguardare entrambi contemporaneamente, senza realmente identificarsi con nessuno dei due modelli: si tratta infatti di recuperare un oggetto sommerso da un re e legato alla sovranità, ma, a differenza di Teseo, Cola fallisce nel suo intento e inoltre non ha pretese né di destino regale; ugualmente sembra che il suo tragico destino viene collocato in una categoria analoga a quella dei giovani subacquei vittime dell'amore (quello che sperimentano o quello di cui sono oggetto), l'elemento erotico è stato evacuato dalla narrazione modello a cui si conforma la sua avventura. Si troverebbe in disaccordo con due tradizioni divergenti senza poter scegliere?

Le due tipologie di prove in questione erano, però, percepite come accomunate da tradizioni folcloristiche basate sul motivo del catapontismo e sulla ricerca dell'anello sommerso.

Tutta una serie di racconti popolari di tradizione orale hanno infatti ri-mobilitato questo motivo indipendentemente dalla leggenda siciliana e dai canti sopra discussi. Tuttavia, questi racconti popolari associano generalmente al ritrovamento del gioiello sommerso sia uno scenario di accesso alla sovranità sia un processo nuziale.
L'eroe, aiutato da un assistente al tempo stesso soprannaturale e zoomorfo, conquista per il suo re una giovane donna che, durante la traslazione, perde o getta via un anello (o una chiave) che cade in uno specchio d'acqua. Prima di accettare di sposare il re, la giovane pone delle condizioni, in particolare quella di ritrovare e restituirgli l'oggetto perduto. L'eroe è ancora una volta responsabile dell'operazione che compie generalmente grazie a un pesce, o altro animale acquatico, al quale aveva precedentemente reso un significativo servizio. La giovane troverà allora il modo di uccidere il vecchio re e di sposare al suo posto l’eroe che succederà al defunto sovrano5. Il tema nuziale e quello dell'accesso alla sovranità sono quindi indissolubilmente legati.

In questi racconti il ​​recupero dell'oggetto sommerso non è generalmente effettuato dall'eroe stesso ma da un animale marino riconoscente che compie al suo posto il catapontismo: l'episodio si svolge tuttavia in un processo iniziatico che riguarda esclusivamente l'eroe, che si qualifica come un potenziale successore del re nello stesso momento in cui consegue il matrimonio.

Anche l'oggetto sommerso da ritrovare può essere indistintamente una delle insegne (ad esempio la corona del re, misteriosamente immersa in uno stagno nella versione tedesca), oppure un simbolo sessuale e nuziale (il più delle volte l'anello della fanciulla, caduto in acqua mentre si attraversa un fiume). In entrambi i casi, il suo recupero ha un valore di prova eminentemente qualificante, e il completamento di questo compito (personalmente o per procura) consente all'eroe di accedere alla promozione statutaria.

2. Se le motivazioni del re di Sicilia quando getta una coppa d'oro nello stretto di Messina non sono chiare (non vengono mai spiegate), possiamo tuttavia vedere che esse sono distinte dai classici casi di offerte alle divinità marine, poiché ne chiede il recupero, e non si tratta nemmeno di proporre al prodigioso nuotatore una prova intesa a verificare le sue capacità o a conferirgli alcuna qualifica, coronata da un premio in palio, ricompensa di cui solo eccezionalmente si parla.

È anche ovvio che questa immersione è consapevole e deliberata e non assomiglia ai casi più frequenti nei racconti popolari a cui abbiamo accennato, dove l'oggetto immerso veniva (o si sostiene fosse stato) accidentalmente e inaspettatamente perduto. La leggenda quindi non sembra a priori meglio spiegabile dal contesto folcloristico dei racconti tradizionali in cui compare il motivo della storia della ricerca dell'anello sommerso rispetto ai testi antichi e alle ballate sopra menzionate.
Occasionalmente si sovrappone a molte di queste tradizioni ma non ne copre completamente nessuna. Il tuffo fatale di Cola Pesce evoca dunque reminiscenze, si presta a paragoni parziali, ma conserva la sua singolarità e quindi il suo mistero.

Il confronto della nostra leggenda con i testi antichi e i correlati folcloristici che ho citato, tuttavia, ci permette di vedere che essa condivide con essi alcuni riferimenti impliciti a un comune sfondo di rappresentazioni.
L'elemento ordalico e iniziatico, che sta alla base dei miti, dei racconti e delle ballate di cui si è parlato, che ne sviluppano le applicazioni erotico-sponsali e il rapporto con la sovranità, si ritrova, trasposto su un altro livello, nell'avventura finale di Cola, dove è re-inscritto nel quadro di un'escatologia che è allo stesso tempo collettiva (l'imminente inghiottimento della Sicilia o di Messina) e individuale (l'annunciata morte subacquea del prodigioso nuotatore).

È giusto che a suo riguardo sia stata citata la figura del Tuffatore della tomba di Paestum, le cui analisi più recenti hanno sottolineato, con o senza riferimento pitagorico, il probabile significato escatologico - il tuffo nel mare dell’aldilà - e il rapporto con l’iconografia del simposio nel mondo dei morti.

È nella prospettiva aperta da questa interpretazione che si può considerare il rapporto privilegiato di alcuni esseri marini della mitologia e dell'iconografia dei vasi funerari apuli e sud-italici con i motivi del catapontismo e dell'accesso marino all'aldilà: alcuni di questi esseri, generalmente ibridi, come Tritone, Scilla o Acheloo , appaiono in questo immaginario come psicopompi e portano occasionalmente corni o uncini (che sembrano riecheggiare, in altri contesti culturali, i calderoni o "Graal" legati alle "feste dell'immortalità» del mondo indoeuropeo, che sono generalmente di origine marina o associati a personaggi legati all'ambiente acquatico). Tanto quanto simboli della nutriente abbondanza del mare, per quanto allusioni a rituali di libagione e di offerta di coppe alle divinità marine, questi oggetti sono forse anche figurazioni della promessa di partecipazione al simposio escatologico, quindi accesso a una forma dell'immortalità al termine della discesa nelle acque della morte.

3. Il fatto che il re di Sicilia getti la sua coppa in mare e chieda a Cola Pesce di riportargliela mi sembra indicare il rapporto implicito di questo episodio con il simbolismo delle agalmata, precedentemente analizzato da L. Gernet, che hanno notato il rapporto di questi segni di ricchezza e di potere con l'aldilà a cui sono indirizzati o da cui procedono: questi oggetti preziosi, che viaggiano avanti e indietro, generalmente via acqua, tra il mondo vivente e quello soprannaturale, stabiliscono reciprocità e scambio attraverso questa circolazione bidirezionale.
Il movimento alternato di questi andirivieni assume, quando è legato a un catapontismo, l'aspetto indiziario di una ordalia di sovranità, come abbiamo visto nel caso di Teseo: non è quindi indifferente che si sia trattato, in Sicilia, di un re che abbia preso l'iniziativa, come se, inviando al suo posto un sommozzatore alla ricerca dell'oggetto sommerso, praticasse per procura un rito di autolegittimazione.

Ma questa prova può essere utilizzata anche come prova qualificante in un processo iniziatico di accesso attraverso l'immersione all'immortalità subacquea: è quanto sottintende l'antica leggenda di Enalos che, tuffandosi per accompagnare la sua amata (gettato in mare con gioielli come sacrificio di fondazione in seguito ad un oracolo), riappare poi con una coppa d'oro, prova di essere stato accolto nel regno di Poseidone.
Sappiamo infine che il tema delle fasi subacquee dell'agalmata è utilizzato anche nelle leggende relative al tripode d'oro che, proveniente dalle acque, dovrebbe circolare tra i sette saggi della Grecia (in alcune versioni il tripode è in realtà una coppa).
Questa antica e curiosa leggenda, che a prima vista non ha alcuna affinità con quella del tuffatore siciliano, salvo il motivo comune dell’oggetto d’oro sommerso, fornisce uno sguardo indiretto sulla componente sapienziale dell’eroe civilizzatore di questi ibridi marini esseri che, come Cola Pesce, intervengono - come protagonisti, sostituti o mediatori - nei racconti relativi alla circolazione delle agalmata tra terra e mare. I sette saggi greci, ai quali viene offerto il tripode d'oro trovato in mare dai pescatori (un altro tripode dello stesso tipo viene offerto al dio Tritone dagli Argonauti nell'epopea di Apollonio di Rodi), sono gli equivalenti ellenizzati dei sette apkallus antidiluviani della mitologia babilonese, che sappiamo essere esseri metà umani e metà ittiomorfi legati al dio Ea, che emergono dal mare per portare civiltà e tecnologia agli abitanti del Vicino Oriente.

4. Il confronto dell'episodio relativo alla ricerca da parte di Cola Pesce della coppa d'oro del re di Sicilia con le antiche storie riguardanti le agalmata e il simbolismo iniziatico-ordalico che le sottende consente infine di rendere conto dell'aspetto tragico di l'avventura finale del nuotatore siciliano, che sembra essere oggetto di una maledizione. Possiamo certamente vedere una versione fatalistica e pessimistica del contenuto escatologico dell'immaginario degli esseri marini legati alla morte e all'accesso all'aldilà, oppure l'effetto di un'inversione di prospettiva negativizzante dovuta alla reinterpretazione cristiana medievale di questa mitologia fondamentalmente pagana del paradiso poseidoniano.

Sappiamo, tuttavia, che l'ambivalenza della prova catapontica e degli agalmata è un fatto mitico primitivo: come oggetti talismanici, i gioielli d'oro sommersi - coppe, treppiedi, anelli, ecc. - sono dotati di una forza magica, potenzialmente benefica ma anche pericolosa, e come le acque marittime o fluviali attraverso le quali transitano e gli esseri acquatici ad esse associati, sono depositari di un potere “giudiziario” immanente capace, a seconda dell’approvazione o disapprovazione dell’abisso in cui risiedono, per condannare o premiare i candidati per questo o quel tipo di qualifica.
Come i talismani della sovranità d'oro ardente caduta dal cielo nella leggenda dell'origine della regalità scita, questi oggetti possono essere presi solo da chi ne ha la legittimità: l'anello gettato in acqua dalla bella nelle canzoni francesi del ciclo del tuffatore provoca la perdita di quest'ultimo perché ad ogni avvicinamento si muove, si sposta e diventa inaccessibile. Il nuotatore deve immergersi più volte, e sempre più in profondità, e finisce per annegare…

La reattività del prezioso oggetto sommerso sembra essere solo un'emanazione o una manifestazione della reattività delle acque stesse, sconvolte da un approccio inappropriato o sacrilego.  Questo potere distruttivo è spesso concettualizzato, nel ciclo mitico indoeuropeo dell'Oro nell'acqua, come effetto di una maledizione, o addirittura di un destino ancestrale: leggende folcloristiche di tesori sottomarini, miti germanici e celtici dell'Oro del Reno e L'Oro di Tolosa, sempre fatale per chi se ne impossessa indebitamente, più che ad un'astratta "sacralità dell'acqua", si rinnova - come mi sono impegnato a mostrarlo altrove - ad una variante materializzata del mito indoeuropeo de “Il Fuoco nell’acqua”, la cui esegesi è stata in gran parte iniziata da G. Dumézil e, più recentemente, da alcuni altri specialisti di mitologia comparata.

Cercherò qui di stabilire che, attraverso le tradizioni agiografiche relative a San Nicola, anche Cola Pesce dipende da questo substrato mitico, che come sappiamo implica la nozione di una forza ignea contenuta nelle acque, incarnata e governata da un personaggio divino il cui nome (Apâm Napât nelle culture indoiraniche, Nettuno nel mondo romano, Nechtan in quello celtico) indica che è concepito come un “discendente delle acque”: questa forza occasionalmente esplosiva dell'acqua ignea svolge un'essenziale discriminante e (dis)qualificante negli scenari rituali delle prove acquatiche a cui, come abbiamo visto, sembra collegarsi l'episodio della ricerca della coppa sommersa.

 

IV – Santi e geni del mare: da Nicolas a Cola

Anche se si può ipotizzare una persistenza regionale di antiche rappresentazioni e credenze nel corso dei secoli, il prisma della cristianizzazione le ha diffratte e ricomposte. La diffusione, da Myra, poi da Bari, del culto di San Nicola fu accompagnata dall'affermarsi di un immaginario in cui folklore e miti pagani sopra menzionati sono stati rifusi.
L'episodio della coppa mi sembra un indice ed un esempio privilegiato del processo di acculturazione e di reinvestimento che ha dato vita al mito del prodigioso nuotatore messinese o almeno alla forma in cui esso è giunto fino a noi.

Anche se nessuno sembra aver messo in dubbio il curioso nome (Nicholaus Pipe a W. Map, Nicholaus Papa a G. de Tilbury) che le prime due versioni conosciute della sua leggenda attribuivano al prodigioso nuotatore, nome che non troviamo più nei testi successivi o nella tradizione orale, sembra utile soffermarsi su questa onomastica percé fornisce forse un prezioso indizio sull'origine orientale del personaggio e sui suoi rapporti con l'Asia Minore.

Osserviamo infatti che il titolo turco di Baba o Papa è stato attribuito almeno una volta in questa regione al genio che presiede il promontorio di Lectum (a Troad): questo personaggio, che viene presentato talvolta come un demone, talvolta come un santo protettore, deve essere propiziato dai navigatori mediante offerte di cibo gettate in mare durante l'attraversamento di questa pericolosa rotta (il “Nicolas Papa” di G. de Tilbury chiede olio).
È molto probabile che lo stesso nome fosse propiziatorio, qua e là, per l’attribuzione   a San Nicola, che come sappiamo era il principale protettore dei navigatori, soprattutto nel Mediterraneo orientale alla fine dell'antichità e per tutto il Medioevo.

Abbiamo visto che anche l'identità del nuotatore della leggenda siciliana sembra oscillare tra la tipologia del demone marino (di cui il sospetto del suo semi-ittiomorfismo, la maledizione che grava su di lui in seguito alla sua disobbedienza infantile, e le birichinate, anche devastante che i marinai bretoni attribuiscono al suo equivalente oceanico) e quello del protettore dei navigatori, che informa con gentilezza sulle correnti, sulle insidie ​​e sulle tempeste in arrivo. Il nostro personaggio si inserisce quindi con naturalezza nel quadro di queste ambivalenti entità marine che sono gli antichi “giganti del mare” e altri geni dei pericolosi promontori studiati da F. Vian.

A Messina Cola Pesce occupa così un posto topico di sorvegliante dello stretto analogo a quello che nello stesso luogo doveva occupare il mitico Peloro: non sorprende quindi che, per continuare a svolgere questa funzione, si sia cercato, dopo il crollo dell'antica mitologia, di poter ricoprire il posto vacante. Lo abbiamo fatto con figure che in Oriente hanno avuto un ruolo simile: è così che il nome di Baba e segmenti della leggenda del santo di Myra sono venuti ad alimentare la nuova leggenda e hanno contribuito a costruire il suo protagonista.

Il trasferimento fu facilitato dall'analogia tra lo Stretto di Messina, passaggio strategico e pericoloso, infestato da mostri sottomarini fatali agli incauti navigatori, e la non meno essenziale e pericolosa zona marittima vigilata dagli dei lici allora dal santo di Myra, vale a dire il passaggio obbligato da Rodi a Cipro, attraverso il Golfo di Antalya, la medievale "baratro di Satalie", che una leggenda non meno terrificante di quelle di Cariddi e Scilla dette (nelle stesse raccolte di W. Map e G. de Tilbury che ci hanno trasmesso le prime versioni della leggenda siciliana) abitate da una testa mostruosa che era stata lì gettata, perché gli occhi avevano un potere distruttivo, e che continuava a esercitare le sue maledizioni dalle profondità dell'acqua poiché le correnti marine generavano turbini e tempeste.

2 - San Nicola, come avevano fatto i suoi predecessori pagani, ebbe particolare cura di questo delicato ambito.
Il più noto dei suoi miracoli, quello che fondò la sua carriera di santo dell'Impero, cioè quello dei tre generali (stratilates) salvati dalla calunnia e dalla condanna alla pena capitale, inizia con una tempesta in questo golfo pieno di pericoli, che costringe la loro flotta a rifugiarsi ad Andriake, porto di Myra, e porta, col progredire degli eventi, i tre ufficiali imperiali a diventare amici del santo e a beneficiare della sua protezione.
Quanto alla disfatta - in seguito ad un'altra tempesta - della flotta mandata da Harun al Rashid con l’ordine di devastare Rodi, disastro navale destinato a punire il vano tentativo dell'ammiraglio musulmano di profanare la tomba del santo, è probabilmente uno dei miracoli avvenuti post mortem che ha contribuito maggiormente a forgiare l'immaginario della leggenda marittima di San Nicola, al quale abbiamo attribuito, come sappiamo, ogni tipo di salvataggi soprannaturali in periculo maris.

Ciò che qui ricorderemo di questa specializzazione marittima è il legame privilegiato del santo con i temi mitico-rituali del catapontismo e dell'immersione di oggetti sacri o preziosi, perché è forse lì che si può cogliere il punto di svolta in cui è avvenuto il passaggio dalla leggenda agiografica al folklore del prodigioso nuotatore siciliano. Sappiamo in particolare che uno dei miracoli di Nicola comportò la perdita, da parte del santo vescovo nelle acque del Bosforo, del testo di un editto concesso dall'imperatore in favore dei cittadini di Myra: lo stesso giorno la carta in questione fu raccolta dai pescatori al largo della costa Licia. Sappiamo anche che il santo stesso fu per lungo tempo destinatario di offerte di cibo gettate in mare dai marinai per allontanare le tempeste.  

Questi gesti rituali sembrano voler riattivare la logica delle agalmata e delle antiche offerte agli dei del mare: si tratta infatti delle stesse acque del Mediterraneo orientale che avevano accolto e/o trasferito il tripode dei Pelopidi (gettato nelle acque del mare da Elena, i pescatori lo raccoglieranno e finirà nelle mani successive dei Sette Saggi), poi ricevette i chiodi della Santa Croce, immersi da un'altra Elena, la madre di Costantino, per neutralizzare i turbini dell'abisso; anche le coppe d'oro erano state portate lì da Alessandro e Serse per facilitare le pericolose traversate.

Sono proprio queste acque, e più in particolare i passaggi critici tra Occidente e Oriente, che San Nicola vigila; ed è ancora lui a presiedere, sul valico veneziano del Lido, dove la laguna si apre sul mare, il rito dello “sposalizio del Doge con il mare”, durante il quale il gerarca getta un anello nell'Adriatico (di fronte al santuario di San Niccolò): Messina, altro passaggio cruciale, è sempre a Nicolas, Cola il Pesce, che si associa il motivo mitico della coppa d'oro gettata nelle acque dello stretto?

Ma vediamo che, nei casi di Venezia e di Messina, avviene una transizione tra il rito dell'offerta per immersione e quello del catapontismo ordalico: a Venezia i tuffatori tentano di recuperare l'anello in fondo al canale (e si presume che la prova doveva far parte dei rituali ludico-agonistici contrapposti alle due fazioni cittadine, Nicolotti e Castellani, i primi riunivano pescatori e gente di mare), e a Messina Cola Pesce scende negli abissi dello stretto per ritrovare la coppa, corona o anello lanciato dal re.

3. Ma come ha fatto il santo che presiedeva ai riti a diventare lui stesso protagonista, divenendo al tempo stesso uomo marino?

Questa strana mossa immaginaria è stata senza dubbio sovradeterminata da rituali pseudo-sacrificali legati al 6 dicembre, festa invernale di San Nicola: sappiamo che in quel giorno si praticavano (soprattutto in Russia) immersioni di effigi - dove le vittime erano rappresentate da manichini di paglia -  e che, secondo una convinzione abbastanza diffusa (soprattutto nelle zone di cultura germanica), nel giorno di San Nicola i bambini venivano minacciati di annegamento dal diavolo.

Sappiamo anche che nelle mascherate rituali il santo era accompagnato da un accolito travestito da selvaggio che fingeva di aggredire i bambini, e che uno dei suoi miracoli più famosi consistette nel resuscitare tre scolari fatti a pezzi da un macellaio orchesco.
Questo burlesco accolito e i barbari antagonisti del santo devono essere stati assimilati, più o meno esplicitamente, agli spauracchi acquatici di origine germanica che portano l'uno o l'altro dei nomi derivati ​​dal medievale nicchus: l'onomastica di questi geni fluviali ostili ricordava quella di Nicolas e potrebbe aver favorito l'emergere di tipi compositi aberranti e alternativi che si aggregavano al modello agiografico (da qui le duplicazioni che davano origine ad un accolito) o addirittura talvolta si sostituivano ad esso, il che potrebbe spiegare la formazione di varianti, più bestiali e meno favorevoli all’uomo, che vediamo comparire sulle coste dell’Atlantico con questi “pesci Nicole”, più o meno dannosi, ben diversi dai simpatici Pesce Cola siciliani.

Questi spiriti acquatici ed altri "nixes" erano originariamente e generalmente legati all'acqua dolce (laghi, stagni, fiumi), non al mare, e di natura chiaramente demoniaca, quindi radicalmente opposta a quella del nostro santo marittimo dell'Asia Minore, è ovvio che le interferenze osservabili tra i rispettivi cicli leggendari risultano da incontri puntuali e occasionali, da contaminazioni secondarie, e non implicano un rapporto genealogico.
Il passaggio da San Nicola a Cola Pesce non va spiegato come l'effetto di una sovrapposizione con questa tipologia germanica originariamente indipendente dalla leggenda agiografica, anche se localmente potrebbero essersi verificati influssi reciproci. Come i luitons medievali, il nostro eroe è un uomo marino, non un demone acquatico, e deve piuttosto ricondurre, dal punto di vista tipologico, a questi mutaforma o a questi ibridi proteiformi che sono i “Vecchi del mare” mediterranei, quindi, indirettamente, ai “discendenti delle acque” indoeuropei. Il che ci porta a interrogarci su possibili crossover tra la leggenda agiografica di San Nicola e l'immaginario legato a questi mitici personaggi.

4. È certamente evidente, almeno a prima vista, che il santo di Myra non è un uomo marino. Abbiamo visto, però, che i santi protettori dei pericolosi promontori dell'Asia Minore hanno soppiantato (o si sono alternati con) dei geni dei promontori e altri "giganti del mare" chiaramente meno ortodossi, ed ecco  i souvenirs offerti che un tempo venivano lanciati a queste entità pagane.
Presiedendo le pericolose traversate tra Rodi, la costa licia, il Golfo di Antalya e Cipro, Nicolas è diventato uno specialista dei passaggi acquatici (come dimostra la sua associazione privilegiata ai ponti - Au Pays Basque des démons constructeurs de ponts sont appels Micolás).  Passaggi che possono avvenire su un asse verticale, quindi implicano una discesa nelle profondità.

Si tratta infatti di un gesto subacqueo di San Nicola che implica, ad esempio, il suo intervento nella didascalia russa molto arcaica di Sadko, dove vediamo il santo scendere in fondo al mare per venire in aiuto dell'eroe: Sadko è un grande suonatore di gusli  che viene attirato negli abissi dal temibile re del mare, il quale vuole usare le sue doti musicali e la magia del suo strumento per recitare ballando sulle correnti marine e provocare tempeste o trombe d'aria.
Per poter trattenere permanentemente Sadko nel suo regno sottomarino, il re dei tritoni intende sposarlo con una delle sue figlie. È proprio allora che interviene San Nicola in persona, che interrompe la musica e la danza distruttiva, fatale per i marinai, arrivando a scuotere Sadko per le spalle, ordinandogli di rompere il suo strumento e spiegandogli come contrastare, con un altro matrimonio, il fatale piano matrimoniale ordito dal re dei mari. Una volta tornato sano e salvo a Novgorod, Sadko fonderà un santuario in onore del suo santo patrono.

I temi dell'andirivieni dell'oro nell'acqua, delle offerte o dei sacrifici al re del mare e del catapontismo ordalico hanno un ruolo importante nelle molteplici versioni più volte commentate nelle Note (in cui l’episodio nuziale è stato paragonato allo scenario della festa veneziana delle nozze del Doge con il mare).
Sadko prima si arricchì e poi diventò un mercante di successo grazie alle pesca iniziale  di un pesce d'oro, magico talismano ottenuto dal re del mare come ricompensa per le sue esibizioni musicali. In seguito, però, si trovò in difficoltà quando, non avendo reso omaggio al suo tritone benefattore, la nave sulla quale si era imbarcato per una delle sue spedizioni commerciali si trovò irrimediabilmente in bonaccia: invano gettò in mare una botte pieno d'oro, argento e perle. Il dio esigeva un sacrificio umano.
La scelta della vittima doveva essere fatta per ordalia,  ogni membro dell'equipaggio lanciò un dado in mare; il dado metallico lanciato da Sadko venne rifiutato dalle acque e restò galleggiante e in balia delle onde. E’ cosi che Sadko cadde in potere del re del mare e discese nel suo regno, dal quale San Nicola finì, come abbiamo visto, per strapparlo via.

In questo racconto in gran parte mitico San Nicola appare quindi sia come controfigura del re del mare, di cui rappresenta il rovescio cristianizzato, positivo, benevolo e ortodosso, sia come il genio tutelare che presiede al catapontismo dell'eroe tuffatore, che protegge e garantisce il destino veramente umano.

 

V – Il miracolo della coppa

Ora c’è un ruolo analogo che viene attribuito al nostro santo, in uno degli articoli della serie canonica dei suoi miracoli post mortem, ed è lì che forse capiamo quanto Cola Pesce deve a San Nicola.

1. La versione più comune, che possiamo leggere ad esempio nella Leggenda aurea di Giacomo da Voragine, narra che un nobile, volendo ringraziare il santo per avergli concesso un figlio, fece realizzare una coppa d'oro per offrirgliela. Ma, una volta realizzata, la coppa gli piacque talmente che decise di tenerla per sé e ne fece realizzare un'altra per il santo, meno bella e meno preziosa.
Imbarcatosi con la famiglia per recarsi a Myra per consegnare al santuario la coppa destinata al santo, affidò al bambino piccolo la più bella delle due coppe affinché potesse andare a lavarla (o ad attingere acqua), ma, sporgendosi dalla ringhiera, il bambino lasciò cadere la tazza in mare e tentando di afferrarla  cadde con essa  e scomparve tra le onde.
Disperazione dei genitori che, arrivati ​​a Myra, vollero tuttavia esaudire il loro desiderio e deporre sull'altare del santuario la coppa prevista a tale scopo. Ma l'oggetto venne violentemente respinto, più volte, dall'altare e gettato sul pavimento della chiesa. Comprendendo che l'offerta non è stata accettata, il padre confessò il suo peccato.
È allora che il bambino scomparso riapparve sano e salvo, stringendo in mano la coppa più bella che aveva perso. Spiegò che, durante tutta la durata del suo inghiottimento, San Nicola lo aveva preso per mano e aveva impedito che gli fosse accaduta qualsiasi disgrazia. La preziosa coppa venne quindi posta sull'altare e accettata.

Questa storia appare dal X secolo. in una serie di testi latini, tra cui lo Speculum historiale di Vincent de Beauvais, e sarà divulgato dal poema francese di Wace e dalla Legenda Aurea, oltre che da una tradizione iconografica (XII e XIII secolo).

L'origine greca di questa tradizione miracolosa, collegata in questo modo alla maggior parte di quelle che evocano salvataggi soprannaturali di bambini vittime dei peccati dei genitori, sembra confermata dalla sua omologia con un miracolo di San Mena di Alessandria, ed è possibile che questa la leggenda nasca da un'errata interpretazione di una delle rappresentazioni iconografiche bizantine di un altro tipo di miracolo, attribuito anche a San Nicola (tra gli altri), in cui un bambino, rapito dai pirati musulmani di Creta e divenuto coppiere dell'emiro, viene improvvisamente restituito dal santo ai suoi genitori (nel giorno della sua festa) mentre porta ancora con sé la coppa con la quale si preparava a servire il suo padrone.

La specificità del nostro racconto consiste però nel fatto che associa il motivo della coppa al tema del catapontismo e fa sì che l'oggetto e il bambino condividano la stessa avventura subacquea. Come nel gesto slavo di Sadko, il santo discende e interviene negli abissi, accompagna e guida il suo protetto, e allo stesso tempo assicura la restituzione della coppa sommersa. Il miracolo della riemersione della vittima sommersa e dell'oggetto sacro strappato dagli abissi e restituito al legittimo destinatario unisce, nello stesso contesto giustificativo di ordalia marittima degno di sanzione, purgazione e redenzione, la logica mitica che sottende ai miti di Melicerte - Palemone o Enalos, in cui l'inghiottimento fatale si risolveva nell'accesso alla sfera divina.

2. Vediamo cosa può aver dovuto la leggenda siciliana a questo tipo di racconti.

Pur non essendo casuale, l'immersione della coppa viene attribuita anche ad una trasgressione commessa da una figura paterna (in questo caso l'abuso di potere del re), così come è riconducibile alla maledizione parentale la condizione di uomo marino a cui il giovane nuotatore è condannato.
Nonostante l'assenza del lieto fine nella maggior parte delle versioni, a causa della mancanza di un'istanza salvifica, vediamo riformarsi il tema ambivalente della messa alla prova da parte del giudice delle acque, al di sotto e al di là dello schema dell'exemplum penitenziale: questo non è più imposto dal sostituto della fallimentare autorità paterna rappresentata dal santo, che esorcizza il peccato del padre togliendo il figlio e la coppa, ma richiesto spontaneamente dal re al momento di gettare la coppa, simbolo teorico della sua qualifica sovrana , e subìto coercitivamente dal sostituto del re, rappresentato dal tuffatore inviato al suo posto alla ricerca dell'oggetto sommerso sottoposto alla prova degli abissi.

Nel racconto agiografico Nicola usa il mare come strumento della sua giustizia: rubando il figlio e la coppa e poi restituendoli domina l'intero processo del purgatorio. Nella leggenda siciliana Cola Pesce unisce in un'unica persona il bambino sommerso e il potenziale recuperatore della coppa: a differenza del suo omonimo santo, però, non è padrone della giustizia delle acque, e se ne è capace, in quanto uomo marino, per evolversi lì a piacimento, il suo potere è limitato ed è costretto a subire gli effetti negativi di una forza che non controlla.
Osserviamo così una simmetria invertita tra lo scenario della “pesca dell’anello”, così come si attualizza nelle canzoni (in particolare nelle versioni francesi) esaminate sopra, e quello del miracolo della coppa: nelle ballate il tuffatore incontra la reazione negativa dell'anello sommerso, che si muove ogni volta che sta per essere preso, e il tuffatore finisce per annegare dopo tre vani tentativi.

Nella versione poetica di Wace e in almeno uno dei manoscritti latini del miracolo, l'altare di san Nicola rifiuta per tre volte la coppa sostituita prima di accettare, una volta risolta la situazione, la coppa promessa salvata dalle acque. Probabilmente non è un caso che ritroviamo qui lo schema di una sequenza narrativa associata in più casi ai miti indoeuropei del “Fuoco nell'acqua”: sappiamo che, nella versione irlandese, l'acqua del pozzo di Nechtan, attorno al quale l'infedele Bóand compì una tripla circumambulazione, reagì tre volte a questo sacrilegio proiettando successivamente tre onde distruttive su colui che lo commise; analogamente, nella versione iraniana, sono tre volte che il candidato non qualificato alla sovranità si immerge per cercare di cogliere la "gloria luminosa" dei re (gli xvarenah), immersi dal "Discendente delle Acque" nel mitico lago Vourukasha, e a tre riprese questa gloria gli sfugge, provocando  tre flussi, bracci d'acqua che estendono il lago in altrettante direzioni.

3. Lo spostamento del santo verso una figura atipica della leggenda topografica comporta riconversioni, inversioni, sdoppiamenti e deviazioni di significato. Questi fenomeni di acculturazione e folclorizzazione sono comuni quando, in un contesto interculturale, un elemento di una delle culture presenti crea un'eco in un'altra e quindi si presta a essere preso e reinterpretato. Il miracolo del salvataggio del bambino e della coppa sommersa mi sembra sia stato un punto di appoggio essenziale nell'operazione culturale che ha estratto Cola Pesce dalle viscere di San Nicola e l'ha installata nello Stretto di Messina.
Questa operazione, che dovette comportare movimenti e trasposizioni complessi che in gran parte ci sfuggono, non fu però effettuata a casaccio. Supponeva anche affinità nascoste, atomi uncinati che permettessero di innescare il “tilt” decisivo; e tali affinità si fondavano forse su una comune dipendenza delle rispettive configurazioni culturali in presenza e in contatto rispetto ad un substrato arcaico condiviso ma diversamente rielaborato da entrambe le parti.

Il miracolo del santo ha evidentemente riattivato nell'Italia meridionale e in Sicilia un immaginario locale di cui ho cercato di rievocare le origini, attraverso antiche storie di catapontismo e di oggetti preziosi inghiottiti o trasportati dalle acque. Ma queste storie riguardarono anche tutte le culture mediterranee e non è da escludere che abbiano avuto un ruolo anche nella costituzione della leggenda agiografica di San Nicola. Il santo e il tuffatore sarebbero stati quindi tanto più facilmente riconoscibili e fusi in quanto forse avevano delle origini comuni.

 

VI – Nicolas, Cola Pesce e il fuoco nell'acqua

Mi limiterò qui a delineare brevemente le relazioni, già sopra riferite, che rispettivamente sembrano intrattenere con quella che i comparativisti “dumeziliani” chiamano la “mitologia del Fuoco nell'Acqua”. Curiosamente, Nicolas e Cola Pesce sembrano dipenderne allo stesso tempo.

1. “Poseidone cristiano”, San Nicola sembra condividere le affinità del suo rispondente pagano con questa mitologia, in particolare con la tipologia indoeuropea del “Discendente delle Acque”. L'associazione paradossale di acqua e fuoco è infatti un tratto distintivo di molti dei suoi miracoli. In particolare quella di soccorrere il bambino che rischiava di ustionarsi per la negligenza della madre. Una manifestazione ignea del santo in ambito marittimo è anche il “fuoco di San Nicola”, altro nome del fenomeno elettromagnetico meglio conosciuto con il nome di “fuoco di Sant’Elmo”.

Ma è soprattutto il miracolo dell'olio incendiario a segnalare il dominio di Nicola sul “fuoco nell'acqua”: il demone del tempio di Artemide, furioso per essere stato sloggiato dal santo, prende le sembianze di una donna devota e consegna ai pellegrini, che stanno per imbarcarsi per Myra per visitare la tomba di Nicola, una fiaschetta riempita con un olio esplosivo di sua creazione e chiede loro di versarlo nelle lampade del santuario. Il devastante progetto non riuscì perché il santo apparve ai pellegrini durante la traversata e ordinò loro di gettare l'olio in mare. Questo immediatamente prese fuoco e si scatenò una terribile tempesta, dalla quale la nave dei pellegrini riuscì a scappare grazie alla protezione di Nicola.
Possiamo vedere in questo racconto, che si svolge nel gesto agonistico che contrappone il santo alla dea locale di Myra, il mito dell'origine del “fuoco greco”, al quale i bizantini dovettero tante vittorie navali sulle flotte musulmane. Deviando sulle acque la potenza incendiaria di quest'olio diabolico, destinato innanzitutto alla distruzione, e facendone modello di un'arma per l'impero di Cristo, Nicola si impone, al posto degli dei pagani, come padrone della temibile forza del fuoco nell'acqua e nelle tempeste.

Un potere ambivalente di cui il santo esorcizzava la forza distruttrice e al tempo stesso si riappropriava, non senza apparire anche, simmetricamente, come il produttore di un olio miracoloso che, a Myra e a Bari, sgorga dalla sua tomba e che è oggetto, da ogni angolo della cristianità medievale, di una fervida ricerca dei suoi benefici e che ha  generato innumerevoli pellegrinaggi.
Questo olio santo è una versione cristianizzata della mirra dei misteri di Adone (di cui il nome Myra potrebbe aver evocato memoria), alla quale forse era già associata l’Artemide licia? Anche se di lei non sappiamo molto, sembra che, come Mirra, madre di Adone, dovesse essere legata a un albero, come testimoniano la numismatica locale e l'eroico attacco di Nicola contro il suo santuario, che consistette proprio nell'abbattere l'albero della dea. In questa ipotesi Nicolas sarebbe sia l'erede sia il sostituto di un’entità mitica associata ad una mithologie canicolare, quindi con un contesto simbolico-immaginario largamente basato, come nel caso di Neptunalia, sull’interferenza del fuoco e dell’acqua.

Non è inutile notare a questo proposito che Cola Pesce dipende anche da un olio, del tutto profano, di cui due delle più antiche versioni scritte della sua leggenda affermano che lo chiese ai marinai che incontrò perché gli era utile durante le sue  immersioni.

Sappiamo anche che, soprattutto in Occidente, San Nicola è associato al sale, per le sue affinità marine e per le pratiche ritualizzate della salatura del mese di dicembre: questa specializzazione è senza dubbio un ulteriore indizio del rapporto delle leggende di San Nicola Nicola con la mitologia del fuoco nell'acqua, il cui rapporto con il folklore del sale è stato recentemente messo in luce da studi comparati.

2. I tentativi di identificare San Nicola con l’indoeuropeo “discendente delle acque”, più particolarmente con l’indoiranico Apâm Napât, sono certamente discutibili, e non sono sicuro che si debba rinvenire il ricordo di questa divinità nel nome di Nepotianus, nel più notevole miracolo nicoliano, portato da uno dei tre generali dell'Impero salvati dalla calunnia e dall'esecuzione da parte del vescovo di Myra.

Resta tuttavia che, come il dio indoeuropeo presiede, in Iran, sulle acque tumultuose e probatrici di Gyndès, in Irlanda sul pozzo ordalico di Nechtan, a Roma sull'esplosivo Lago di Alba, così Nicola funge da Myra vigilante sulle furie dell’abisso di Satalie, che mi sembra essere, come lo Stretto di Messina, e come cercherò di mostrare altrove, uno dei punti di ancoraggio della mitologia di Fuoco nell'Acqua. È quindi del tutto naturale che la sua  la leggenda possa aver interferito localmente con quelle dei santi celtici che, come San Nectan e San Neot, riecheggiano in Cornovaglia l'irlandese Nechtan, versione gaelica canonica dell'indoeuropeo “Discendente delle Acque”.

In questa prospettiva, il miracolo dell'immersione e dell'emersione congiunta del bambino e della coppa d'oro, anche se si inserisce principalmente in un tema specifico della letteratura agiografica, si rinnova parallelamente a uno schema mitico probabilmente più antico. Come nel caso dell'antica storia del catapontismo di Teseo alla ricerca dell'anello lanciato da Minosse, e dell'evocazione avestica della ricerca subacquea di Franrasyan della luminosa "gloria reale" sommersa da Apâm Napât nelle acque del lago Vourukasha, questo diagramma dà sostanza alla prova acquatica (qualificante nel caso di Teseo, squalificante in quello di Franrasyan, successivamente squalificante e poi riqualificante nel miracolo nicolaita). Ordalia destinata in questo caso a verificare, davanti al tribunale del principio igneo residente nelle acque, la legittimità del richiedente la sovranità o l'accesso privilegiato alla sfera del Sacro.

In questo miracolo la prorompente reattività delle acque (de)legittimanti si trasferisce sull'altare del santo, che respinge con violenza ed esplosività le offerte non gradite (su questa violenza insistono i testi, che evocano lo schianto, sul pavimento del santuario, della falsa coppa, respinta e vividamente proiettata oltre il coro), così come Nicola si prende dolcemente cura del bambino sommerso portatore della coppa originale, come Tritone o i delfini guidano Teseo nel sentiero sottomarino del regno di Poseidone e Anfitrite.

Se il viaggio subacqueo dell'oro sacro è qui inquadrato nei limiti di uno scenario penitenziale, la necessità della sua immersione prima della sua definitiva consacrazione nel santuario rivela qualcosa delle radici mitiche e della dimensione talismanica di questo scenario, che conferma ai miei occhi l’ipotesi che “l’oro nell’acqua” sia effettivamente una versione materializzata e, per così dire, “raffreddata” del “fuoco nell’acqua”.

3. Se ora torniamo a Cola Pesce è innanzitutto da notare che diverse sue immersioni lo misero etteralmente a contatto con il fuoco sottomarino. Le tradizioni orali raccolte da Pitrè indicano ad esempio, a seconda dei casi, che:

3.1. Cola scopre in fondo allo stretto, dopo aver riportato la spada e l'anello che vi gettarono rispettivamente il re e la regina, “na caverna, chi porta un gran focu”; la curiosità reale su questo argomento lo costrinse ad esplorarlo e lì trovò la morte, bruciato dalle fiamme provenienti da questa cavità. Ritorna solo il bastone bruciato con cui era disceso in questa tana fatale.

3.2. Secondo un'altra versione, dove Cola si tuffa per recuperare la coppa d'oro gettata nel Garófalu (il vortice dello stretto) dalla regina, che gli promette che potrà tenersela se la ritrova, scopre "dui grannissimi caverni, chi sucavanu l'acqua di lu mari, e avevanu cumunicazioni cu lu Muncibeddu” (Etna). Da una seconda immersione, alla ricerca di un'altra coppa lanciata dalla regina, curiosa di sapere fin dove si spingono queste cavità, Cola non ritorna più. Possiamo quindi intuirne qui la natura vulcanico e infernale dal fuoco sottomarino menzionato nella prima versione (l'Etna è sempre stato considerato l'ingresso dell'Inferno);

3.3. Una terza versione, che lega la discesa del tuffatore ad un'indagine sull'origine del vortice, precisa che sul fondo di esso la Cola brucia in una "vucca di focu" che riproduce quella dell'Etna sotto il mare;

3.4. Apprendiamo anche, in altre versioni, che, inviato a Napoli dal re "pri vidiri li funnàli unni cé eranu li vurcani", Piscicola vi trovò le acque "ora friddi, ora càudi", e che ritornando a Messina non poté vedere il fondo del Faro per via di una "grossa culonna di fumu chi niscia di sutta un scogghiu" che oscurava l'acqua, o ancora che scopre che Messina poggia su tre colonne di ferro sommerse e che sotto l'acqua del Faro esce  bollente da un buco.

3.5. Quanto alla versione spagnola della Relación del 1608, essa riecheggia, invertendole, queste visioni infernali, ma traspone anche, questa volta in modo sublimato e celeste, il mito del Fuoco nell'Acqua: Nicolas entra nella caverna sottomarina di Rota (vicino a Cadice) e nuota per quaranta giorni nell'oscurità di uno stretto cunicolo, raggiungendo infine il centro paradossalmente luminoso della cavità ("vi su remate y llegué / a ver del Sol los reflexos") dove il mare è "diáfana y clara / como el christalino espejo”.
Questa visione quasi mistica potrebbe essere la forma edulcorata e cristianizzata di una tradizione locale arcaica di origine pagana, molto vicina alle leggende siciliane di Cola Pesce bruciato dal fuoco sottomarino: è quanto suggerisce un'allusione di Pausania (X,4,4) ad un certo Cleone che, ci racconta, avrebbe visto a Cadice, presso il santuario di Ercole-Melqart, il cadavere in fiamme di un gigante del mare, trascinato sulla spiaggia, che sarebbe stato colpito da un fulmine e bruciato dal dio.

Tuttavia, il passaggio dalla tradizione rituale di tipo chiaramente semitico (cremazione di effigi riproducenti la morte per fuoco di Melqart) all’illuminazione celeste della Relación del 1608 presuppone una previa reinterpretazione, nella quale la contaminazione deve aver giocato un ruolo importante, con una versione del mito indoeuropeo del fuoco nell'acqua. Una versione secondo la quale questa forza ignea doveva essere presentata non nel suo aspetto di fuoco distruttivo, ma come luce radiosa e benefica: è il caso del “Discendente delle Acque” Apam Napât nei testi vedici e avestani, caratterizzato dalla sua brillantezza, e per la “gloria regale” (xvarenah) dei re iraniani (nascosto dallo stesso Apam Napât nelle acque del lago Vourukasha ma sempre luminoso). Questo tema della luce subacquea lo è notoriamente evidenziato nel racconto del catapontismo di Teseo, accolto negli abissi dalle Nereidi con membra splendenti.

4. È quindi, così come l'annegamento, una combustione subacquea che minaccia il nostro sub, ma questo destino fatale può essere (raramente) scongiurato e trasformato in un glorioso accesso alla luminosa immortalità. Queste alternative sono caratteristiche anche delle diverse varianti indoeuropee della mitologia del Fuoco nell'Acqua: quando il candidato alla prova è idoneo, riesce a conquistare la sovranità (e la gloria luminosa che l'accompagna); altrimenti è distrutto, subisce nel suo corpo gli attacchi devastanti del fuoco sottomarino, o insegue invano una luce errante che gli sfugge costantemente.

La reattività delle acque abitate da questa forza è più volte sottolineata nella leggenda siciliana: trattengono sul fondo o divorano il tuffatore troppo audace (tramite l'intervento di qualche mostro acquatico in cui si incarna il loro potere distruttivo, figura in cui è proiettata il volto terribile del Guardiano degli Abissi); riportano in superficie gli oggetti-testimoni  che lui ha portato con sé per rendere conto dell'esito del suo tentativo; aspirano o trasportano l'oggetto desiderato e costringono il nuotatore a ripetere - spesso  tre volte - la sua immersione fino a raggiungere il punto di non ritorno, o a perdersi definitivamente nelle ramificazioni e nelle viscere delle cavità in cui è inghiottito; sono infine animati da movimenti di va e vieni, correnti antagoniste, flussi circolari e alternati, che creano turbini, aspirazioni irresistibili verso il fondo e zampilli e scariche brutali, caratteristici di questi pozzi proibiti, come quello di Nechtan, che è in comunicazione con tutti i grandi fiumi del pianeta, che da esso procedono e ivi ritornano, o con quegli stretti e golfi dove si incontrano mari incompatibili. Gli stessi tumulti e simili mostri agitano gli abissi al largo di Myra, Messina e Cadice, dove rispettivamente San Nicola, Cola Pesce e Pece Nicolao riescono o falliscono a dominare sovrani le onde.

È nel contesto di questa mitologia delle acque ignee che la sequenza della ricerca e delle tribolazioni della coppa sommersa assume il suo pieno significato. Forma reificata del fuoco, l'oro precipitato nelle onde è carico, come la coppa di Helios, di connotazioni solari; brilla nell'oscurità delle onde, attira il subacqueo che lo insegue verso il centro dell’abisso ardente, conferisce gloria o miracolosa redenzione se si  lascia afferrare, o umilia e annienta se  non si riesce ad afferrarla.

Legato alla regalità, l'oggetto d'oro immerso serve da mediatore tra il monarca e la fonte della sua sovranità: gettato in acqua e poi recuperato, egli conferma o giustifica, oppure simboleggia e suggella un'alleanza con il mare, oppure impone un dominio irresistibile.  Recuperando per il re (o la regina) il gioiello immerso, o ottenendolo come premio per la sua impresa, il subacqueo siciliano partecipa alla regalità, diviene suo accolito o suo doppio uomo marino, o addirittura il garante della sua padronanza talassocratica  dello Stretto.
Questo legame con la sovranità è essenziale nella maggior parte dei miti indoeuropei del fuoco nell'acqua. I fallimenti di Cola Pesce devono essere, in un modo o nell'altro, fallimenti della regalità, così come la sua constatazione della fragilità e del probabile imminente crollo dei pilastri che sostengono la Sicilia, che preannuncia un'irrimediabile apocalisse regionale.
Allo stesso modo, Cola diventa sostituto del sovrano (in quanto “pilastro” del regno) come vi vede nelle versioni in cui si dice che prende il posto - per evitare che la Sicilia affondi - di uno delle colonne sottomarine che la sostengono, di cui ha visto di persona la fatiscenza.

* * *

Nel complesso la leggenda di Cola Pesce si inserisce in una stratigrafia complessa. Solo pochi affioramenti e punti di interferenza sono a noi accessibili.

1. In sostanza si può sospettare l'esistenza di un folclore professionale locale, probabilmente molto antico, legato al mestiere del subacqueo. Forse è da qui che è iniziata l'autoidentificazione di questi pescatori di tipologia molto particolare (cercatori di perle, di spugne, ecc.) con esseri ibridi, intermediari tra il mondo umano e il mondo marino, tra cultura e natura. Legata alle difficoltà e ai pericoli della professione, ha potuto imporsi l’idea di una maledizione collettiva, di una fatalità subita con la rassegnazione dei poveri, come è avvenuto per altre professioni altrettanto poco gratificanti, o addirittura socialmente  sospette.
Vissuta passivamente, la maledizione parentale, poi l'abuso tirannico dei sovrani, danno simmetricamente corpo all'inevitabile destino del tipico rappresentante della professione incarnata dall’eroico e sfortunato Cola Pesce.

Abbiamo visto che quest'ultimo è legato all’olio, agli oggetti metallici (da cui viene zavorrato?), forse anche a botti e tubi, che i testi più antichi menzionano indirettamente, ovviamente senza sapere cosa significhi questo armamentario e la terminologia residua che ne ha depositato nella leggenda: questi dettagli concreti hanno senso solo in relazione a un contesto professionale.

2. San Nicola era particolarmente venerato da questi subacquei?

L'ipotesi (ancora da verificare) non è inverosimile: abbiamo visto che il tema del catapontismo compare in vari modi nella sua leggenda, vale a dire che il santo stesso effettua una discesa subacquea per aiutare un suo protetto (come avviene nel miracolo della coppa caduta in mare e nel gesto russo di Sadko), o che a un personaggio che porta il suo nome venga affidata un'avventura subacquea che richiami, ad esempio, il mito del catapontismo di Palemone-Mélicerte: è particolarmente vero per Nicola Pellegrino di Trani, altro greco giunto in Puglia, ma in vita, dopo una traversata durante la quale, gettato in mare, era stato preso in custodia da una Signora scesa dal cielo, (come era stato aiutato da un delfino qualche anno prima quando i monaci del monastero dove era stato confinato, esasperati dalle sue pie stravaganze, lo avevano gettato in mare con uno status di identità ibrida).
Lo stato identitario ibrido di Colapesce, soprattutto quando si tuffa alla ricerca della coppa sommersa, lo colloca a metà strada tra queste sovrumane figure di santi marni, capaci di affrontare eroicamente gli abissi e strappare ad essi le prede, e quelle, bestiali, dei mitici pesci che riportano anelli e chiavi perdute o gettate in mare.

Si può notare come queste entità contrastanti, paradossalmente riunite dalle loro radici comuni in un simbolismo battesimale dell'immersione e della rinascita, potrebbe servire ai subacquei professionisti come riferimento agli aspetti a volte umili e potenzialmente eroici della loro professione.

3. L'avvicinamento tra la figura del santo e quella dell'ibrido marino è avvenuto in Sicilia o già in Puglia? Non potrebbe essere avvenuto anche prima, intorno a Rodi, teatro delle imprese miracolose del santo, ma anche patria dei mostruosi Telkhini?  

Questi esseri anfibi ibridi dovevano essere ben conosciuti in Licia, la patria di San Nicola, dato che uno di loro, Lycos, fondò il tempio di Apollo Licio presso Xanthos. La sua leggenda era forse associata a quella di Icadios, figlio della ninfa Licia, che fondò la città di Patara (dove nacque San Nicola) e vi installò un oracolo di Apollo?
Il possibile legame di Nicola con un culto di Apollo è forse implicito nel nome Eupoleonis portato da uno dei tre generali che furono i beneficiari del suo miracolo più importante.
Icadios, come il pellegrino Nicola di Trani, era stato salvato da un delfino durante una traversata verso l'Italia; e il culto di Apollo Licio a Xanthos sembra essere stato legato alla mitologia del Fuoco nell'Acqua, come sembra attestare - secondo Plutarco - il prodigio della sorgente locale che straripò proprio al momento dell'arrivo di Alessandro e fece emergere dal fondo una tavoletta di bronzo con una profezia della vittoria greca sulla Persia (miracolo subito seguito da un altro prodigio, quello della costa Panfilia, dove il mare si ritirò per permettere all'esercito greco di passare attraverso un canale stretto e pericoloso). Le reminiscenze locali del sistema di credenze alla base di questi miti e leggende licie, proprio nel cuore della regione in cui nacque il culto di San Nicola, spiegano forse i legami, già citati, tra il suo gesto agiografico e il mito del fuoco nell'acqua.

Per tornare ai Telkhini di Rodi, è con Cola Pesce, il Nicolas uomo marino, che hanno evidenti somiglianze: dotati come lui di estremità palmate, sono strettamente legati al mare e, così come Cola Pesce aveva prevede il futuro affondamento di Messina (e di tutta la Sicilia) dopo aver constatato la fatiscenza dei pilastri sottomarini che la sostenevano, i Telchini abbandonano Rodi - un tempo isola errante - perché sanno che è destinata ad essere sommersa da un'alluvione. Infine, sappiamo che saranno colpiti da Zeus e, come Cola Pesce, saranno gettati in fondo al mare. Sebbene il palombaro siciliano sia unico e, a differenza dei Telchini, non appartenga a nessuna comunità, la sua tipologia è un piccolo richiamo alla loro ambivalenza: benevolo nei confronti degli umani, non è un demone ostile e si presenta come un servo sottomesso fino all'abnegazione all'autorità reale, ma alcune versioni sottolineano che, oltre alla disobbedienza iniziale che gli valse la maledizione dei genitori, dovette essere esorcizzato e che alcuni lo consideravano una figura diabolica, addirittura un mostro marino; è solo in questi casi eccezionali che Cola Pesce può essere considerato un demone. È solo in questi casi eccezionali che Cola Pesce può essere accostato ai nixes e ad altri demoni acquatici germanici affini. Allo stesso modo, i Telkhini, pur essendo fondamentalmente demoniaci, sono comunque utili all'umanità per il loro rapporto con l'agricoltura e alcune tecniche.  

In ogni caso, l'ascendenza nicolaitica del nuotatore siciliano corregge e trasfigura, senza arrivare a farne un santo, ciò che potrebbe essere dovuto a una possibile parentela con questi giganti indoeuropei del mare: tutto sembra accadere come se egli stesso fosse il prodotto di una contaminazione, avvenuta nei pressi di Rodi, tra questi geni marini e il santo che localmente li soppiantò come padrone dell'impero poseidoniano...

Dovremmo vedere un richiamo (mediato da fonti arabe) alle possibili origini rodiane di Cola Pesce nella versione bizantina che lo fa signore della fantastica isola di Gabalarada (cioè probabilmente “Djabal Rada”, quindi forse la “montagna di Rodi”?) e nella Relación iberica, che lo fa nascere a Rota (vicino a Cadice) e gli assegna “la cueva de Rota” come dimora subacquea?

4. Se così fosse, occorrerebbero ulteriori ricerche sulle affinità licie, rodiane, persino cretesi e cipriote (terre “telchine”) delle tradizioni siciliane segnate, come la leggenda di Cola Pesce, da schemi mitici specificamente legati alla mitologia del Fuoco nell'Acqua. Sono prevalenti, come attestano il complesso di credenze e rituali ordalici relativi ai Paliques, il mito della morte di Minosse in acqua bollente presso la casa del re Cocalos, la leggenda dell'effigie talismanica di Reggio, che impedì l'invasione della Sicilia da parte dell'esercito di Alarico facendo affondare la sua flotta nelle acque dello Stretto (questo idolo, dedicato a deviare la lava dell'Etna e a impedire ai barbari di entrare nell'isola via mare, aveva, secondo Olimpiodoro, un fuoco inestinguibile a un piede e una sorgente inesauribile all'altro).

Tradizioni di questo genere si perpetuarono in Sicilia fino al Medioevo, e c’è, a questo proposito, un'altra storia di una coppa sommersa e di un mare in fiamme che mi permetterà di chiudere il cerchio ricordando la strana storia riportata nel XIII secolo dal domenicano Stefano di Borbone, che dice di averla conosciuta proprio da un monaco pugliese: in questo exemplum, che non è altro che una delle versioni della leggenda di Artù come sovrano di un regno incantato nascosto non lontano da Catania all'interno dell'Etna (che appare nel racconto del domenicano sotto una luce chiaramente infernale), il re plutoniano dona al visitatore del vulcano una coppa d'oro chiusa che, allorché sarà aperta, sputerà una fiamma e, una volta gettata in mare, prenderà a fuoco.
La versione più antica del ciclo leggendario di Artù dentro l'Etna si trova nella raccolta dei mirabilia di G. de Tilbury, dove segue immediatamente la storia relativa a Nicola il tuffatore. Tra Messina e Catania, nelle profondità ctonie del Mongibello e gli abissi acquatici dello stretto, due figure autoctone, un Artù “etnicizzato” e un Nicola “sicilianizzato”, sono chiamati a costruire un coerente mito regionale presidiando simmetricamente, all'ombra del vulcano, i due ingressi e i due aspetti complementari dello stesso stretto passaggio: quello che unisce i due mari e quello che separa il mondo degli vivi e il regno dei morti.

 

François DELPECH
CNRS. UMR 7192
(Paris, Collège de France)

 

Le note a piè pagina non sono state riportate.
Si possono vedere nel PDF originale in 
De Saint Nicolas a Cola Pesce

Libera traduzione.A:B.

     

www.colapisci.it