La leggenda di
Colapesce
Da San Nicola a Cola Pesce: mito,
agiografia e folklore
e canti li me jorni diccillu a tutti chi Colapisci un dormi. Dicci ca la Sicilia nun finisci nzinu a quannu nun mori Colapisci.
Ignazio Buttitta, Colapisci
Come l'essere ontologicamente contraddittorio a cui si riferisce, il concetto di Uomo del Mare appare a prima vista ondeggiante e diversificato, difficile da afferrare e variabile nelle definizioni e contestualizzazioni che sono state proposte a turno dalle culture colte e dalle tradizioni popolari. 1. Gli enciclopedisti e i compilatori eruditi del Medioevo e del Rinascimento credevano in lui come se fosse una creatura reale e sappiamo che, fino al XVIII secolo, alcuni autori continuarono a considerarlo come un caso provato di "filosofia naturale". Tuttavia, l'immagine fornita dalla cultura accademica, che non ha mai smesso di considerare l'Uomo Marino come una curiosità scientifica, o addirittura un prodigio della Creazione, è generalmente incerta e ambivalente. A lungo dipendenti da una rappresentazione medievale, di origine mitica, dell'universo marino come una sorta di doppio invertito del mondo terrestre, studiosi e scrittori hanno spesso confuso e talvolta implicitamente confondono uomini marini totalmente antropomorfi e ibridi neotritoniani con un ittiomorfismo più o meno marcato. Hanno anche esitato, nei loro sistemi esplicativi, tra l'idea di una razza specifica, intermedia, come quella delle sirene, tra l'umanità e l'universo marino (i cui rappresentanti possono essere anfibi o esclusivamente pelagici) e l’immagine più o meno anedottica di individui isolati che, a seguito di questa o quella circostanza, avrebbero adottato l’habitat marino e, secondo un’altra rappresentazione leggendaria d’origine medioevale già applicata al tipo tradizionale dell’Uomo selvaggio, avrebbero visto il loro habitus e anche la loro fisiologia “marinizzarsi” ed acquisire, sotto l’influenza dell’ambiente acquatico, caratteristiche vicine a quelle dei pesci. Lettori di Plinio e di Solino, i nostri studiosi hanno ereditato le loro incertezze e le loro convinzioni, e le loro speculazioni parascientifiche non sono radicalmente separate dalle favole che alimentano la fantasia dei “geni dell'acqua” e non solo. E altri "spiriti elementari" della cultura folclorica. Questi personaggi, che appartengono esplicitamente al dominio del soprannaturale e del meraviglioso nelle leggende topografiche, sono fluttuanti come gli "uomini marini" delle enciclopedie e delle miscellanee. Anch'essi possono apparire più o meno antropomorfi e/o zoomorfi, solitari o sociali, anfibi o incompatibili con il mondo extra-acquatico. Le loro affinità e radici mitiche sono però molto più esplicite, come dimostra l'insistenza delle tradizioni che li riguardano sul loro carattere amichevole e benefico, o al contrario sulla loro natura ostile e pericolosa, e sui loro poteri soprannaturali o sulla loro connivenza con credenze e riti magici. Spesso viene avanzata l'ipotesi che alcuni di questi "geni" derivino, in forma "folcloristica", da questa o quella antica divinità marina. Qualunque sia la verosomiglianza, a seconda dei casi, delle opere più o meno recenti hanno stabilito con chiarezza la realtà di alcune cose tramandate e la relativa continuità, dall'antichità al Medioevo, di credenze e storie tipiche legate a questo genere di personaggi. Il caso più evidente è quello degli antichi “dei proteiformi” (in particolare dei “Vecchi del Mare” mediterranei) delle culture indoeuropee, la cui configurazione si ritrova nelle tradizioni medievali sui luitons (o nuitons), lontani discendenti di Nettuno, di cui si trovano tracce nella letteratura epico-cavalleresca e nelle tradizioni orali raccolte ancora nei secoli XIX e XX dai folcloristi.
Dipendente da strati culturali e da
molteplici vettori di trasmissione, la tipologia dell'Uomo Marinaio
appare quindi oggi primariamente attinente al genere della leggenda,
di cui condivide lo statuto instabile e intermedio, addirittura vago
e talvolta contraddittorio: la credenza generalmente affermata nella
realtà effettiva della sua esistenza è controbilanciata dalla natura
manifestamente favolosa del materiale narrativo e immaginario
utilizzato per stabilirlo come protagonista di una storia o di
un'altra, e dal fatto che fa parte della realtà concreta del mondo
in cui vive. La sua collocazione nella realtà concreta di un
determinato contesto topografico sembra essere smentita dalle
affinità dei racconti che lo utilizzano con un particolare tema
mitico migratorio o con un particolare tipo di racconto
meraviglioso.
2. La leggenda siciliana di Cola
Pesce, alcuni aspetti della quale sono oggetto di questo lavoro, è
una buona descrizione delle incertezze e delle ambivalenze del tipo
di Uomo Marino di cui ho appena citato. Questo personaggio probabilmente immaginario, che non è altro che
uno dei più illustri rappresentanti di questa tipologia leggendaria,
e che ha dato origine, fino a tempi molto recenti, a numerosi studi,
sia storici che letterari. Si trova infatti all'incrocio tra cultura
accademica e tradizione orale: Entrambe sono rappresentate in una
serie di testi (prima in latino, poi nelle lingue volgari), i primi
dei quali, di Walter Map e Gervais de Tilbury, risalgono alla fine
del XII e all'inizio del XIII secolo, e in una collezione di
versioni orali siciliane raccolte da G. Pitrè negli ultimi decenni
dell’Ottocento. Si tratta quindi di un personaggio letterario e di
un tipo folcloristico, di un caso di "filosofia naturale",
commentato ad nauseam da numerosi studiosi e altri autori di
miscellanea, e di un protagonista di storie d'avventura più o meno
favolose (persino meravigliose), Alla complessità derivante dalle molteplici genealogie di questi racconti, dalla molteplicità degli strati culturali a cui si riferiscono e dalla fluttuazione dei registri generici e discorsivi a cui appartengono, va aggiunto un altro fattore di labilità: tradizione locale a priori, saldamente radicata (nonostante la sua forte componente pugliese) nella regione dello Stretto di Messina, la storia di Cola Pesce è diventata una leggenda migratoria: veicolata oralmente da marinai e pescatori, ha trovato la strada per Napoli - dove è stata raccolta da B. Croce, si diffuse in Spagna e giunse fino alle coste bretoni, dove il prodigioso nuotatore siciliano si unì al luiton francese medievale e divenne "l'allegro folletto Nicole"; quanto alla sua trasmissione scritta e alla sua diffusione europea, queste beneficiarono prima della diffusione medievale delle raccolte di aneddoti leggendari e prodigi di W. Map e G. de Tilbury, e poi, in epoca moderna, di quella delle grandi miscellanee in latino e in volgare, che hanno incorporato la tradizione siciliana nel repertorio dei "luoghi comuni" della Docta Varietas.
La definizione dei contorni del
personaggio non poteva non risentire di questa esplosione delle sue
registrazioni di eventi e della diversità dei media che veicolavano
la sua leggenda. Ciò che rimane costante è che Cola è sempre
presentato come realmente esistito, che è fondamentalmente un membro
della razza umana, (parla) che è tuttavia, in quanto uomo che abita
i mari (più in particolare le profondità dello Stretto di Messina),
un caso unico nel suo genere: non appartiene a nessuna comunità e
non rappresenta nessuna razza specifica.
3. Questa contraddizione evidenzia
chiaramente, malgrado le costanti sopra ricordate, l'ambivalenza e
l'instabilità statutaria del nuotatore siciliano, di cui alcune
disparità tra le versioni esistenti della sua leggenda tradiscono le
incertezze e gli interrogativi che queste ultime potrebbero aver
suscitato. La variabile più notevole, però, riguarda la costituzione fisica del personaggio. Se è generalmente accettato che si tratti effettivamente di un uomo e non di un animale, di un genio marino o di uno spirito elementare, alcune versioni della sua leggenda, in particolare quelle che provengono dalla tradizione orale, lo rendono semi-zoomorfo e gli danno, con la parte inferiore metà del corpo, la forma di una coda di pesce, somigliante a un mitologico Tritone. Questo ittiomorfismo parziale compare solo dopo l'abbandono della propria vita terrena a causa della maledizione dei genitori, il che tende a far pensare che quest'ultima abbia avuto un effetto magico di metamorfosi simile a quelli menzionati negli antichi miti relativi alla Dea Siria e al suo catapontismo (dovuto anche a una maledizione a seguito di una trasgressione). La contraddittorietà del personaggio è allora massima: senza essere assimilato alla categoria delle sirene o dei tritoni, pur rimanendo un essere umano, capace in particolare di parlare, Cola Pesce appare come un essere indefinibile. Quando conversa con i marinai - ai quali è solito informare sulle correnti e sugli scogli della zona dello stretto - vediamo emergere solo la sua metà antropomorfa, mentre la parte inferiore del corpo rimane nascosta sotto la superficie delle acque dello stretto. Non abbandonando mai più il suo habitat marino, non appare nemmeno, come certi Tritoni, come un anfibio: l'autore del popolare romanzo spagnolo del 1608, ricamando sull'idea della sua incompatibilità con gli spazi non acquatici, immagina che Pece Nicolao, quando vuole scendere a terra per partecipare al matrimonio della sorella, debba essere trasportato lì in una botte piena d'acqua... Alcune versioni tendono anche a dissociarsi, parzialmente o completamente, dall’idea che Cola sia siciliano, ipotizzando che la sua origine possa individuarsi, essendo la storia in continua diffusione, in tutti gli oceani del pianeta, oppure individuando Cola come abitatore delle acque del Golfo di Napoli, di quello di Cadice o delle coste atlantiche della Francia. Da notare anche che le storie che lo rendono pugliese - senza spiegare come o perché ci sia arrivato in Sicilia - riconoscono implicitamente e forse inconsciamente il legame con San Nicola di Bari, come il nome del prodigioso nuotatore messinese sembra implicare. Essendo egli stesso un santo pugliese immigrato dall'Asia Minore sin dalla traslazione delle sue spoglie da Myra a Bari nel 1087 (un'altra traslazione alternativa e rivale a Venezia fu effettuata nel 1100), si tratta di un panorama geografico ampio che apre speculazioni sulle origini dellla nostra leggenda ed è infatti, da Oriente a Occidente, un vasto viaggio solare quello che sembra aver compiuto il suo strano protagonista. È proprio su alcuni aspetti inesplorati della sua affinità con san Nicola che mi propongo ora di focalizzare la mia attenzione.
II – Folclore e mitologia dell'Oro sommerso 1. Benché smentita da alcuni, in particolare da B. Croce, la parentela di Cola Pesce con San Nicola fu ammessa dalla maggior parte degli esegeti della sua leggenda, che in ciò non fecero altro che confermare quanto già assicuravano le primissime versioni medievali, poiché W. Map riportò il suo “Nicholas Pipe” dalla Puglia e lo trovò Raimon Jordan lo chiamò “Nicola de Bar”. Tuttavia, l’enorme differenza tra il nostro tuffatore e il santo greco sembra aver messo molto in imbarazzo la critica: pur essendo benevolo verso gli uomini, Cola Pesce, a priori, somiglia ben poco a un santo: non compie miracoli e apparentemente non c’entra niente con la religione. San Nicola, invece, pur essendo protettore dei marinai e autore di miracoli marini, non ha nella sua leggenda canonica alcun episodio di immersione o di residenza subacquea e certamente non appare mai come un uomo-pesce. Anche l'analogia onomastica è generalmente considerata imposta più o meno artificialmente, dal momento che il culto di San Nicola, rafforzato dalla conquista normanna, si impose nell'Italia meridionale e in Sicilia, su una tipologia leggendaria che non aveva nulla in comune con la leggenda agiografica. A. Seppilli osserva con una certa confusione questo cosiddetto fenomeno senza saperne dare ragione e asserisce perentoriamente che “se il nome Nicola è conseguente all'imporsi di un culto di San Nicola taumaturgo, protettore dei naviganti [.. .] pure nulla della sua leggenda sacra è penetrato nella nostra leggenda siciliana di Nicola Pesce, che è rimasta intatta”. Senza negare che la leggenda siciliana comprende elementi provenienti da molteplici strati culturali e presuppone una contaminazione tra dati eterogenei, proporrò qui di mettere in discussione il postulato formulato da A. Seppilli. Sembra infatti che nessuno si sia preso la briga di esaminare i punti di contatto tra le due leggende. Tuttavia, uno studio comparativo ci permette di identificare alcune analogie, anche se relative e puntuali, e di intravedere su quali basi possa essere avvenuto il processo di folclorizzazione, trasposizione e spostamento immaginario e narrativo che ha consentito di porre in essere alcuni degli elementi strutturanti della leggenda siciliana, dati su cui si sono poi cristallizzati i contributi allogenici.
2. Esaminerò qui solo uno di questi
punti di contatto, che riguarda proprio la sequenza narrativa
principale della leggenda di Cola Pesce, ovvero quella che evoca il
suo fatale tuffo alla ricerca dell'oggetto d'oro gettato in mare dal
re di Sicilia, nel punto più profondo e pericoloso dello Stretto di
Messina. Per quanto riguarda Raimon Jordan, che non sviluppa nessuna storia, insiste sul carattere fatale e prematuro della morte di Nicola, che sembra rassegnato al suo triste destino quanto il Cola Pesce delle versioni successive che obbedisce all'ordine del re sapendo che morirà. Sembra quindi che, fin dalla sua origine, la leggenda contenga i motivi chiave dell'ordine mortale imposto abusivamente dal re e della sottomissione costretta o fatalistica del nuotatore che sa cosa lo attende.
Molteplici variazioni sull'episodio
della ricerca della coppa sommersa verranno sviluppate nelle
successive versioni scritte e orali. Il tuffo iniziale del bambino, seguito dalla maledizione lanciata dalla madre, ricorda fortemente una giustificazione a posteriori dell'habitat marino adottato dal protagonista e appare come una sorta di preparazione, o variante simmetrica e invertita, della sequenza della tazza: Cola si tuffa e scompare perché la sua disobbedienza, trasgressione di un divieto implicito, ha portato la madre a maledirlo, ed egli subisce, divenendo irrimediabilmente uomo marino, l'effetto restrittivo di tale maledizione; è allora obbedendo all'ordine imperativo della figura sostitutiva del padre rappresentata dal re che egli si tuffa nuovamente, questa volta scomparendo definitivamente, subendo passivamente una costrizione che sa gli sarà fatale. Quanto alla sequenza dell'esplorazione degli abissi, durante la quale Cola scopre i tre pilastri sottomarini su cui poggia la Sicilia (o il Castello dell'Ovo nella versione napoletana), pilastri il cui stato di degrado gli permette di predire che presto l'intero paese verrà inghiottito dalle onde, equivale talvolta a quello della ricerca della coppa, che sostituisce o alla quale è strettamente associato, e risuona (a livello collettivo), per il suo contenuto esplicitamente apocalittico, nella sfera individuale escatologia implicita nel fatalismo con cui Cola fa il tuffo che sa in anticipo determinerà la sua morte. Assenti dalle prime versioni, mentre il tema dell'ordine reale era già imposto come base per i successivi sviluppi narrativi su cui sarà costruito il ciclo leggendario, queste due sequenze aggiuntive appaiono come un'amplificazione secondaria destinata a inquadrare la messa in scena di questo tema strutturante. È significativo che entrambe corrispondano a storie standard e a motivi folcloristici migratori indipendenti dalla leggenda del tuffatore, vale a dire da un lato gli esempi ammonitori relativi ai pericoli e all'empietà della maledizione, dall’altra parte le rappresentazioni pan-indoeuropee riguardanti i pilastri cosmici, le storie e i motivi che osserviamo essere associati a tutti i tipi di tradizioni marine. 3. Torniamo allora al tema dell'immersione alla ricerca della coppa gettata dal re che sembra essere la radice dell'intero ciclo. È da molto tempo che i folkloristi, a cominciare da G. Pitrè, hanno notato che questa sequenza assomiglia all'argomento di un intero ciclo di canzoni popolari, in particolare francesi e italiane, in cui si tratta di una giovane ragazza che perde, o getta deliberatamente, un anello nel mare, in un fiume o in un pozzo e chiede che gli venga riportato. Un giovane innamorato della ragazza si tuffa e cerca di recuperare l'oggetto. In diverse versioni non ci riesce e annega; in altri ritorna trionfante.
I primi ricercatori che si
interessarono a questo ciclo di canzoni (di cui conoscevano
principalmente le versioni francese e italiana) pensarono
inizialmente che provenisse dalla leggenda di Cola Pesce attraverso
una sua versione letteraria del Rinascimento.
Ciò è evidenziato dall’analogia delle
versioni elleniche moderne, che spesso hanno un carattere
“meraviglioso” assente in altre tradizioni, con alcuni testi antichi
relativi agli eroi della mitologia greca.
Due antiche tradizioni greche, una più
“mitologica”, l'altra più “letteraria”, contengono infatti già i
temi sviluppati rispettivamente dalla leggenda siciliana e dal ciclo
di ballate europee sulla “pesca dell'anello”.
L'altro testo antico da citare è
quello che riguarda Anteo di Alicarnasso, che la moglie del tiranno
di Mileto di cui è ostaggio, obbliga, per ripicca nel vedere le sue
avances respinte dal giovane, a scendere in un pozzo profondo dove
ha gettato una coppa d'oro che gli chiede riprendersi. Sappiamo che
Anteo morirà in questo pozzo, schiacciato dalla grossa pietra che la
regina gli scaglierà.
Sebbene la leggenda di Cola Pesce si
distingua da questo ciclo per l'assenza di motivazione erotica per
il tuffo, il fatto che almeno una delle versioni orali raccolte da
Pitrè costituisca un'eccezione a questa regola generale suggerisce
che vi siano state contaminazioni tra leggenda e ballate. È altrettanto ovvio che l'associazione del catapontismo con gli scenari erotici ha radici mitiche e rituali profonde e antichissime, come testimoniano le leggende ordaliche relative al "salto di Lefkada" e i miti siriaci ed ellenici delle "dee tuffatrici" (del tipo Ino-Leucothea o Atargatis-Derceto).
Va notato che questi miti devono avere
qualche collegamento con lo sfondo mediterraneo della nostra
leggenda siciliana (dove però l'elemento erotico è quasi del tutto
scomparso) poiché sono quelli che più coerentemente articolano il
tema della trasformazione dei giovani eroi tuffatori in pesci
(Ichthys, Cupido) o divinità marine (Mélicertes-Palaemon). Questa
metamorfosi è - come abbiamo visto - un motivo essenziale nelle
versioni orali siciliane della leggenda di Cola, anche se appare
solo sotto forma di semi-ittiomorfismo.
III – Dalla pesca dell'anello alla ricerca della coppa Quando si tenta quindi di intravedere l'antico sfondo mitico da cui potrebbero dipendere contemporaneamente la leggenda siciliana e il ciclo di ballate narrative de “La pesca dell'anello”, sembra che si tratti di due distinti tipi di narrativa, l'uno basato su una prova reale (l'archetipo rappresentato dalla leggenda di Teseo e Minosse), l'altro su una prova erotico-sponsale (la leggenda di Antée e le canzoni moderne). 1. Curiosamente, la leggenda di Cola sembra riguardare entrambi contemporaneamente, senza realmente identificarsi con nessuno dei due modelli: si tratta infatti di recuperare un oggetto sommerso da un re e legato alla sovranità, ma, a differenza di Teseo, Cola fallisce nel suo intento e inoltre non ha pretese né di destino regale; ugualmente sembra che il suo tragico destino viene collocato in una categoria analoga a quella dei giovani subacquei vittime dell'amore (quello che sperimentano o quello di cui sono oggetto), l'elemento erotico è stato evacuato dalla narrazione modello a cui si conforma la sua avventura. Si troverebbe in disaccordo con due tradizioni divergenti senza poter scegliere? Le due tipologie di prove in questione erano, però, percepite come accomunate da tradizioni folcloristiche basate sul motivo del catapontismo e sulla ricerca dell'anello sommerso.
Tutta una serie di racconti popolari
di tradizione orale hanno infatti ri-mobilitato questo motivo
indipendentemente dalla leggenda siciliana e dai canti sopra
discussi. Tuttavia, questi racconti popolari associano generalmente
al ritrovamento del gioiello sommerso sia uno scenario di accesso
alla sovranità sia un processo nuziale. In questi racconti il recupero dell'oggetto sommerso non è generalmente effettuato dall'eroe stesso ma da un animale marino riconoscente che compie al suo posto il catapontismo: l'episodio si svolge tuttavia in un processo iniziatico che riguarda esclusivamente l'eroe, che si qualifica come un potenziale successore del re nello stesso momento in cui consegue il matrimonio. Anche l'oggetto sommerso da ritrovare può essere indistintamente una delle insegne (ad esempio la corona del re, misteriosamente immersa in uno stagno nella versione tedesca), oppure un simbolo sessuale e nuziale (il più delle volte l'anello della fanciulla, caduto in acqua mentre si attraversa un fiume). In entrambi i casi, il suo recupero ha un valore di prova eminentemente qualificante, e il completamento di questo compito (personalmente o per procura) consente all'eroe di accedere alla promozione statutaria. 2. Se le motivazioni del re di Sicilia quando getta una coppa d'oro nello stretto di Messina non sono chiare (non vengono mai spiegate), possiamo tuttavia vedere che esse sono distinte dai classici casi di offerte alle divinità marine, poiché ne chiede il recupero, e non si tratta nemmeno di proporre al prodigioso nuotatore una prova intesa a verificare le sue capacità o a conferirgli alcuna qualifica, coronata da un premio in palio, ricompensa di cui solo eccezionalmente si parla.
È anche ovvio che questa immersione è
consapevole e deliberata e non assomiglia ai casi più frequenti nei
racconti popolari a cui abbiamo accennato, dove l'oggetto immerso
veniva (o si sostiene fosse stato) accidentalmente e
inaspettatamente perduto. La leggenda quindi non sembra a priori
meglio spiegabile dal contesto folcloristico dei racconti
tradizionali in cui compare il motivo della storia della ricerca
dell'anello sommerso rispetto ai testi antichi e alle ballate sopra
menzionate.
Il confronto della nostra leggenda con i testi antichi e i correlati
folcloristici che ho citato, tuttavia, ci permette di vedere che
essa condivide con essi alcuni riferimenti impliciti a un comune
sfondo di rappresentazioni. È giusto che a suo riguardo sia stata citata la figura del Tuffatore della tomba di Paestum, le cui analisi più recenti hanno sottolineato, con o senza riferimento pitagorico, il probabile significato escatologico - il tuffo nel mare dell’aldilà - e il rapporto con l’iconografia del simposio nel mondo dei morti. È nella prospettiva aperta da questa interpretazione che si può considerare il rapporto privilegiato di alcuni esseri marini della mitologia e dell'iconografia dei vasi funerari apuli e sud-italici con i motivi del catapontismo e dell'accesso marino all'aldilà: alcuni di questi esseri, generalmente ibridi, come Tritone, Scilla o Acheloo , appaiono in questo immaginario come psicopompi e portano occasionalmente corni o uncini (che sembrano riecheggiare, in altri contesti culturali, i calderoni o "Graal" legati alle "feste dell'immortalità» del mondo indoeuropeo, che sono generalmente di origine marina o associati a personaggi legati all'ambiente acquatico). Tanto quanto simboli della nutriente abbondanza del mare, per quanto allusioni a rituali di libagione e di offerta di coppe alle divinità marine, questi oggetti sono forse anche figurazioni della promessa di partecipazione al simposio escatologico, quindi accesso a una forma dell'immortalità al termine della discesa nelle acque della morte.
3. Il fatto che il re di Sicilia getti la sua coppa in mare e chieda a Cola
Pesce di riportargliela mi sembra indicare il rapporto implicito di
questo episodio con il simbolismo delle agalmata, precedentemente
analizzato da L. Gernet, che hanno notato il rapporto di questi
segni di ricchezza e di potere con l'aldilà a cui sono indirizzati o
da cui procedono: questi oggetti preziosi, che viaggiano avanti e
indietro, generalmente via acqua, tra il mondo vivente e quello
soprannaturale, stabiliscono reciprocità e scambio attraverso questa
circolazione bidirezionale.
Ma questa
prova può essere utilizzata anche come prova qualificante in un
processo iniziatico di accesso attraverso l'immersione
all'immortalità subacquea: è quanto sottintende l'antica leggenda di
Enalos che, tuffandosi per accompagnare la sua amata (gettato in
mare con gioielli come sacrificio di fondazione in seguito ad un
oracolo), riappare poi con una coppa d'oro, prova di essere stato
accolto nel regno di Poseidone. 4. Il confronto dell'episodio relativo alla ricerca da parte di Cola Pesce della coppa d'oro del re di Sicilia con le antiche storie riguardanti le agalmata e il simbolismo iniziatico-ordalico che le sottende consente infine di rendere conto dell'aspetto tragico di l'avventura finale del nuotatore siciliano, che sembra essere oggetto di una maledizione. Possiamo certamente vedere una versione fatalistica e pessimistica del contenuto escatologico dell'immaginario degli esseri marini legati alla morte e all'accesso all'aldilà, oppure l'effetto di un'inversione di prospettiva negativizzante dovuta alla reinterpretazione cristiana medievale di questa mitologia fondamentalmente pagana del paradiso poseidoniano.
Sappiamo,
tuttavia, che l'ambivalenza della prova catapontica e degli
agalmata è un fatto mitico primitivo: come oggetti
talismanici, i gioielli d'oro sommersi - coppe, treppiedi, anelli,
ecc. - sono dotati di una forza magica, potenzialmente
benefica ma anche pericolosa, e come le acque marittime o fluviali
attraverso le quali transitano e gli esseri acquatici ad esse
associati, sono depositari di un potere “giudiziario” immanente
capace, a seconda dell’approvazione o disapprovazione dell’abisso in
cui risiedono, per condannare o premiare i candidati per questo o
quel tipo di qualifica. La reattività del prezioso oggetto sommerso sembra essere solo un'emanazione o una manifestazione della reattività delle acque stesse, sconvolte da un approccio inappropriato o sacrilego. Questo potere distruttivo è spesso concettualizzato, nel ciclo mitico indoeuropeo dell'Oro nell'acqua, come effetto di una maledizione, o addirittura di un destino ancestrale: leggende folcloristiche di tesori sottomarini, miti germanici e celtici dell'Oro del Reno e L'Oro di Tolosa, sempre fatale per chi se ne impossessa indebitamente, più che ad un'astratta "sacralità dell'acqua", si rinnova - come mi sono impegnato a mostrarlo altrove - ad una variante materializzata del mito indoeuropeo de “Il Fuoco nell’acqua”, la cui esegesi è stata in gran parte iniziata da G. Dumézil e, più recentemente, da alcuni altri specialisti di mitologia comparata. Cercherò qui di stabilire che, attraverso le tradizioni agiografiche relative a San Nicola, anche Cola Pesce dipende da questo substrato mitico, che come sappiamo implica la nozione di una forza ignea contenuta nelle acque, incarnata e governata da un personaggio divino il cui nome (Apâm Napât nelle culture indoiraniche, Nettuno nel mondo romano, Nechtan in quello celtico) indica che è concepito come un “discendente delle acque”: questa forza occasionalmente esplosiva dell'acqua ignea svolge un'essenziale discriminante e (dis)qualificante negli scenari rituali delle prove acquatiche a cui, come abbiamo visto, sembra collegarsi l'episodio della ricerca della coppa sommersa.
IV – Santi e geni del mare: da Nicolas a Cola
Anche se si
può ipotizzare una persistenza regionale di antiche rappresentazioni
e credenze nel corso dei secoli, il prisma della cristianizzazione
le ha diffratte e ricomposte. La diffusione, da Myra, poi da Bari,
del culto di San Nicola fu accompagnata dall'affermarsi di un
immaginario in cui folklore e miti pagani sopra menzionati sono
stati rifusi. Anche se nessuno sembra aver messo in dubbio il curioso nome (Nicholaus Pipe a W. Map, Nicholaus Papa a G. de Tilbury) che le prime due versioni conosciute della sua leggenda attribuivano al prodigioso nuotatore, nome che non troviamo più nei testi successivi o nella tradizione orale, sembra utile soffermarsi su questa onomastica percé fornisce forse un prezioso indizio sull'origine orientale del personaggio e sui suoi rapporti con l'Asia Minore.
Osserviamo
infatti che il titolo turco di Baba o Papa è stato attribuito almeno
una volta in questa regione al genio che presiede il promontorio di
Lectum (a Troad): questo personaggio, che viene presentato talvolta
come un demone, talvolta come un santo protettore, deve essere
propiziato dai navigatori mediante offerte di cibo gettate in mare
durante l'attraversamento di questa pericolosa rotta (il “Nicolas
Papa” di G. de Tilbury chiede olio). Abbiamo visto che anche l'identità del nuotatore della leggenda siciliana sembra oscillare tra la tipologia del demone marino (di cui il sospetto del suo semi-ittiomorfismo, la maledizione che grava su di lui in seguito alla sua disobbedienza infantile, e le birichinate, anche devastante che i marinai bretoni attribuiscono al suo equivalente oceanico) e quello del protettore dei navigatori, che informa con gentilezza sulle correnti, sulle insidie e sulle tempeste in arrivo. Il nostro personaggio si inserisce quindi con naturalezza nel quadro di queste ambivalenti entità marine che sono gli antichi “giganti del mare” e altri geni dei pericolosi promontori studiati da F. Vian. A Messina Cola Pesce occupa così un posto topico di sorvegliante dello stretto analogo a quello che nello stesso luogo doveva occupare il mitico Peloro: non sorprende quindi che, per continuare a svolgere questa funzione, si sia cercato, dopo il crollo dell'antica mitologia, di poter ricoprire il posto vacante. Lo abbiamo fatto con figure che in Oriente hanno avuto un ruolo simile: è così che il nome di Baba e segmenti della leggenda del santo di Myra sono venuti ad alimentare la nuova leggenda e hanno contribuito a costruire il suo protagonista. Il trasferimento fu facilitato dall'analogia tra lo Stretto di Messina, passaggio strategico e pericoloso, infestato da mostri sottomarini fatali agli incauti navigatori, e la non meno essenziale e pericolosa zona marittima vigilata dagli dei lici allora dal santo di Myra, vale a dire il passaggio obbligato da Rodi a Cipro, attraverso il Golfo di Antalya, la medievale "baratro di Satalie", che una leggenda non meno terrificante di quelle di Cariddi e Scilla dette (nelle stesse raccolte di W. Map e G. de Tilbury che ci hanno trasmesso le prime versioni della leggenda siciliana) abitate da una testa mostruosa che era stata lì gettata, perché gli occhi avevano un potere distruttivo, e che continuava a esercitare le sue maledizioni dalle profondità dell'acqua poiché le correnti marine generavano turbini e tempeste.
2 - San
Nicola, come avevano fatto i suoi predecessori pagani, ebbe
particolare cura di questo delicato ambito. Ciò che qui ricorderemo di questa specializzazione marittima è il legame privilegiato del santo con i temi mitico-rituali del catapontismo e dell'immersione di oggetti sacri o preziosi, perché è forse lì che si può cogliere il punto di svolta in cui è avvenuto il passaggio dalla leggenda agiografica al folklore del prodigioso nuotatore siciliano. Sappiamo in particolare che uno dei miracoli di Nicola comportò la perdita, da parte del santo vescovo nelle acque del Bosforo, del testo di un editto concesso dall'imperatore in favore dei cittadini di Myra: lo stesso giorno la carta in questione fu raccolta dai pescatori al largo della costa Licia. Sappiamo anche che il santo stesso fu per lungo tempo destinatario di offerte di cibo gettate in mare dai marinai per allontanare le tempeste. Questi gesti rituali sembrano voler riattivare la logica delle agalmata e delle antiche offerte agli dei del mare: si tratta infatti delle stesse acque del Mediterraneo orientale che avevano accolto e/o trasferito il tripode dei Pelopidi (gettato nelle acque del mare da Elena, i pescatori lo raccoglieranno e finirà nelle mani successive dei Sette Saggi), poi ricevette i chiodi della Santa Croce, immersi da un'altra Elena, la madre di Costantino, per neutralizzare i turbini dell'abisso; anche le coppe d'oro erano state portate lì da Alessandro e Serse per facilitare le pericolose traversate. Sono proprio queste acque, e più in particolare i passaggi critici tra Occidente e Oriente, che San Nicola vigila; ed è ancora lui a presiedere, sul valico veneziano del Lido, dove la laguna si apre sul mare, il rito dello “sposalizio del Doge con il mare”, durante il quale il gerarca getta un anello nell'Adriatico (di fronte al santuario di San Niccolò): Messina, altro passaggio cruciale, è sempre a Nicolas, Cola il Pesce, che si associa il motivo mitico della coppa d'oro gettata nelle acque dello stretto? Ma vediamo che, nei casi di Venezia e di Messina, avviene una transizione tra il rito dell'offerta per immersione e quello del catapontismo ordalico: a Venezia i tuffatori tentano di recuperare l'anello in fondo al canale (e si presume che la prova doveva far parte dei rituali ludico-agonistici contrapposti alle due fazioni cittadine, Nicolotti e Castellani, i primi riunivano pescatori e gente di mare), e a Messina Cola Pesce scende negli abissi dello stretto per ritrovare la coppa, corona o anello lanciato dal re. 3. Ma come ha fatto il santo che presiedeva ai riti a diventare lui stesso protagonista, divenendo al tempo stesso uomo marino? Questa strana mossa immaginaria è stata senza dubbio sovradeterminata da rituali pseudo-sacrificali legati al 6 dicembre, festa invernale di San Nicola: sappiamo che in quel giorno si praticavano (soprattutto in Russia) immersioni di effigi - dove le vittime erano rappresentate da manichini di paglia - e che, secondo una convinzione abbastanza diffusa (soprattutto nelle zone di cultura germanica), nel giorno di San Nicola i bambini venivano minacciati di annegamento dal diavolo.
Sappiamo
anche che nelle mascherate rituali il santo era accompagnato da un
accolito travestito da selvaggio che fingeva di aggredire i bambini,
e che uno dei suoi miracoli più famosi consistette nel resuscitare
tre scolari fatti a pezzi da un macellaio orchesco.
Questi
spiriti acquatici ed altri "nixes" erano originariamente e
generalmente legati all'acqua dolce (laghi, stagni, fiumi), non al
mare, e di natura chiaramente demoniaca, quindi radicalmente opposta
a quella del nostro santo marittimo dell'Asia Minore, è ovvio che le
interferenze osservabili tra i rispettivi cicli leggendari risultano
da incontri puntuali e occasionali, da contaminazioni secondarie, e
non implicano un rapporto genealogico.
4. È
certamente evidente, almeno a prima vista, che il santo di Myra non
è un uomo marino. Abbiamo visto, però, che i santi protettori dei
pericolosi promontori dell'Asia Minore hanno soppiantato (o si sono
alternati con) dei geni dei promontori e altri "giganti del mare"
chiaramente meno ortodossi, ed ecco i souvenirs offerti che un
tempo venivano lanciati a queste entità pagane.
Si tratta
infatti di un gesto subacqueo di San Nicola che implica, ad esempio,
il suo intervento nella didascalia russa molto arcaica di Sadko,
dove vediamo il santo scendere in fondo al mare per venire in
aiuto dell'eroe: Sadko è un grande suonatore di gusli che
viene attirato negli abissi dal temibile re del mare, il quale vuole
usare le sue doti musicali e la magia del suo strumento per recitare
ballando sulle correnti marine e provocare tempeste o trombe d'aria.
I temi
dell'andirivieni dell'oro nell'acqua, delle offerte o dei
sacrifici al re del mare e del catapontismo ordalico hanno un ruolo
importante nelle molteplici versioni più volte commentate nelle
Note (in cui l’episodio nuziale è stato paragonato allo scenario
della festa veneziana delle nozze del Doge con il mare). In questo racconto in gran parte mitico San Nicola appare quindi sia come controfigura del re del mare, di cui rappresenta il rovescio cristianizzato, positivo, benevolo e ortodosso, sia come il genio tutelare che presiede al catapontismo dell'eroe tuffatore, che protegge e garantisce il destino veramente umano.
V – Il miracolo della coppa Ora c’è un ruolo analogo che viene attribuito al nostro santo, in uno degli articoli della serie canonica dei suoi miracoli post mortem, ed è lì che forse capiamo quanto Cola Pesce deve a San Nicola.
1. La
versione più comune, che possiamo leggere ad esempio nella
Leggenda aurea di Giacomo da Voragine, narra che un nobile,
volendo ringraziare il santo per avergli concesso un figlio, fece
realizzare una coppa d'oro per offrirgliela. Ma, una volta
realizzata, la coppa gli piacque talmente che decise di tenerla per
sé e ne fece realizzare un'altra per il santo, meno bella e meno
preziosa. Questa storia appare dal X secolo. in una serie di testi latini, tra cui lo Speculum historiale di Vincent de Beauvais, e sarà divulgato dal poema francese di Wace e dalla Legenda Aurea, oltre che da una tradizione iconografica (XII e XIII secolo). L'origine greca di questa tradizione miracolosa, collegata in questo modo alla maggior parte di quelle che evocano salvataggi soprannaturali di bambini vittime dei peccati dei genitori, sembra confermata dalla sua omologia con un miracolo di San Mena di Alessandria, ed è possibile che questa la leggenda nasca da un'errata interpretazione di una delle rappresentazioni iconografiche bizantine di un altro tipo di miracolo, attribuito anche a San Nicola (tra gli altri), in cui un bambino, rapito dai pirati musulmani di Creta e divenuto coppiere dell'emiro, viene improvvisamente restituito dal santo ai suoi genitori (nel giorno della sua festa) mentre porta ancora con sé la coppa con la quale si preparava a servire il suo padrone. La specificità del nostro racconto consiste però nel fatto che associa il motivo della coppa al tema del catapontismo e fa sì che l'oggetto e il bambino condividano la stessa avventura subacquea. Come nel gesto slavo di Sadko, il santo discende e interviene negli abissi, accompagna e guida il suo protetto, e allo stesso tempo assicura la restituzione della coppa sommersa. Il miracolo della riemersione della vittima sommersa e dell'oggetto sacro strappato dagli abissi e restituito al legittimo destinatario unisce, nello stesso contesto giustificativo di ordalia marittima degno di sanzione, purgazione e redenzione, la logica mitica che sottende ai miti di Melicerte - Palemone o Enalos, in cui l'inghiottimento fatale si risolveva nell'accesso alla sfera divina. 2. Vediamo cosa può aver dovuto la leggenda siciliana a questo tipo di racconti.
Pur non
essendo casuale, l'immersione della coppa viene attribuita anche ad
una trasgressione commessa da una figura paterna (in questo caso
l'abuso di potere del re), così come è riconducibile alla
maledizione parentale la condizione di uomo marino a cui il giovane
nuotatore è condannato.
Nel
racconto agiografico Nicola usa il mare come strumento della sua
giustizia: rubando il figlio e la coppa e poi restituendoli domina
l'intero processo del purgatorio. Nella leggenda siciliana Cola
Pesce unisce in un'unica persona il bambino sommerso e il potenziale
recuperatore della coppa: a differenza del suo omonimo santo, però,
non è padrone della giustizia delle acque, e se ne è capace, in
quanto uomo marino, per evolversi lì a piacimento, il suo potere è
limitato ed è costretto a subire gli effetti negativi di una forza
che non controlla. Nella versione poetica di Wace e in almeno uno dei manoscritti latini del miracolo, l'altare di san Nicola rifiuta per tre volte la coppa sostituita prima di accettare, una volta risolta la situazione, la coppa promessa salvata dalle acque. Probabilmente non è un caso che ritroviamo qui lo schema di una sequenza narrativa associata in più casi ai miti indoeuropei del “Fuoco nell'acqua”: sappiamo che, nella versione irlandese, l'acqua del pozzo di Nechtan, attorno al quale l'infedele Bóand compì una tripla circumambulazione, reagì tre volte a questo sacrilegio proiettando successivamente tre onde distruttive su colui che lo commise; analogamente, nella versione iraniana, sono tre volte che il candidato non qualificato alla sovranità si immerge per cercare di cogliere la "gloria luminosa" dei re (gli xvarenah), immersi dal "Discendente delle Acque" nel mitico lago Vourukasha, e a tre riprese questa gloria gli sfugge, provocando tre flussi, bracci d'acqua che estendono il lago in altrettante direzioni.
3. Lo
spostamento del santo verso una figura atipica della leggenda
topografica comporta riconversioni, inversioni, sdoppiamenti e
deviazioni di significato. Questi fenomeni di acculturazione e
folclorizzazione sono comuni quando, in un contesto interculturale,
un elemento di una delle culture presenti crea un'eco in un'altra e
quindi si presta a essere preso e reinterpretato. Il miracolo del
salvataggio del bambino e della coppa sommersa mi sembra sia stato
un punto di appoggio essenziale nell'operazione culturale che ha
estratto Cola Pesce dalle viscere di San Nicola e l'ha installata
nello Stretto di Messina. Il miracolo del santo ha evidentemente riattivato nell'Italia meridionale e in Sicilia un immaginario locale di cui ho cercato di rievocare le origini, attraverso antiche storie di catapontismo e di oggetti preziosi inghiottiti o trasportati dalle acque. Ma queste storie riguardarono anche tutte le culture mediterranee e non è da escludere che abbiano avuto un ruolo anche nella costituzione della leggenda agiografica di San Nicola. Il santo e il tuffatore sarebbero stati quindi tanto più facilmente riconoscibili e fusi in quanto forse avevano delle origini comuni.
VI – Nicolas, Cola Pesce e il fuoco nell'acqua Mi limiterò qui a delineare brevemente le relazioni, già sopra riferite, che rispettivamente sembrano intrattenere con quella che i comparativisti “dumeziliani” chiamano la “mitologia del Fuoco nell'Acqua”. Curiosamente, Nicolas e Cola Pesce sembrano dipenderne allo stesso tempo. 1. “Poseidone cristiano”, San Nicola sembra condividere le affinità del suo rispondente pagano con questa mitologia, in particolare con la tipologia indoeuropea del “Discendente delle Acque”. L'associazione paradossale di acqua e fuoco è infatti un tratto distintivo di molti dei suoi miracoli. In particolare quella di soccorrere il bambino che rischiava di ustionarsi per la negligenza della madre. Una manifestazione ignea del santo in ambito marittimo è anche il “fuoco di San Nicola”, altro nome del fenomeno elettromagnetico meglio conosciuto con il nome di “fuoco di Sant’Elmo”.
Ma è
soprattutto il miracolo dell'olio incendiario a segnalare il dominio
di Nicola sul “fuoco nell'acqua”: il demone del tempio di Artemide,
furioso per essere stato sloggiato dal santo, prende le sembianze di
una donna devota e consegna ai pellegrini, che stanno per imbarcarsi
per Myra per visitare la tomba di Nicola, una fiaschetta riempita
con un olio esplosivo di sua creazione e chiede loro di versarlo
nelle lampade del santuario. Il devastante progetto non riuscì
perché il santo apparve ai pellegrini durante la traversata e ordinò
loro di gettare l'olio in mare. Questo immediatamente prese fuoco e
si scatenò una terribile tempesta, dalla quale la nave dei
pellegrini riuscì a scappare grazie alla protezione di Nicola.
Un potere
ambivalente di cui il santo esorcizzava la forza distruttrice e al
tempo stesso si riappropriava, non senza apparire anche,
simmetricamente, come il produttore di un olio miracoloso che, a
Myra e a Bari, sgorga dalla sua tomba e che è oggetto, da ogni
angolo della cristianità medievale, di una fervida ricerca dei suoi
benefici e che ha generato innumerevoli pellegrinaggi. Non è inutile notare a questo proposito che Cola Pesce dipende anche da un olio, del tutto profano, di cui due delle più antiche versioni scritte della sua leggenda affermano che lo chiese ai marinai che incontrò perché gli era utile durante le sue immersioni. Sappiamo anche che, soprattutto in Occidente, San Nicola è associato al sale, per le sue affinità marine e per le pratiche ritualizzate della salatura del mese di dicembre: questa specializzazione è senza dubbio un ulteriore indizio del rapporto delle leggende di San Nicola Nicola con la mitologia del fuoco nell'acqua, il cui rapporto con il folklore del sale è stato recentemente messo in luce da studi comparati. 2. I tentativi di identificare San Nicola con l’indoeuropeo “discendente delle acque”, più particolarmente con l’indoiranico Apâm Napât, sono certamente discutibili, e non sono sicuro che si debba rinvenire il ricordo di questa divinità nel nome di Nepotianus, nel più notevole miracolo nicoliano, portato da uno dei tre generali dell'Impero salvati dalla calunnia e dall'esecuzione da parte del vescovo di Myra. Resta tuttavia che, come il dio indoeuropeo presiede, in Iran, sulle acque tumultuose e probatrici di Gyndès, in Irlanda sul pozzo ordalico di Nechtan, a Roma sull'esplosivo Lago di Alba, così Nicola funge da Myra vigilante sulle furie dell’abisso di Satalie, che mi sembra essere, come lo Stretto di Messina, e come cercherò di mostrare altrove, uno dei punti di ancoraggio della mitologia di Fuoco nell'Acqua. È quindi del tutto naturale che la sua la leggenda possa aver interferito localmente con quelle dei santi celtici che, come San Nectan e San Neot, riecheggiano in Cornovaglia l'irlandese Nechtan, versione gaelica canonica dell'indoeuropeo “Discendente delle Acque”. In questa prospettiva, il miracolo dell'immersione e dell'emersione congiunta del bambino e della coppa d'oro, anche se si inserisce principalmente in un tema specifico della letteratura agiografica, si rinnova parallelamente a uno schema mitico probabilmente più antico. Come nel caso dell'antica storia del catapontismo di Teseo alla ricerca dell'anello lanciato da Minosse, e dell'evocazione avestica della ricerca subacquea di Franrasyan della luminosa "gloria reale" sommersa da Apâm Napât nelle acque del lago Vourukasha, questo diagramma dà sostanza alla prova acquatica (qualificante nel caso di Teseo, squalificante in quello di Franrasyan, successivamente squalificante e poi riqualificante nel miracolo nicolaita). Ordalia destinata in questo caso a verificare, davanti al tribunale del principio igneo residente nelle acque, la legittimità del richiedente la sovranità o l'accesso privilegiato alla sfera del Sacro. In questo miracolo la prorompente reattività delle acque (de)legittimanti si trasferisce sull'altare del santo, che respinge con violenza ed esplosività le offerte non gradite (su questa violenza insistono i testi, che evocano lo schianto, sul pavimento del santuario, della falsa coppa, respinta e vividamente proiettata oltre il coro), così come Nicola si prende dolcemente cura del bambino sommerso portatore della coppa originale, come Tritone o i delfini guidano Teseo nel sentiero sottomarino del regno di Poseidone e Anfitrite. Se il viaggio subacqueo dell'oro sacro è qui inquadrato nei limiti di uno scenario penitenziale, la necessità della sua immersione prima della sua definitiva consacrazione nel santuario rivela qualcosa delle radici mitiche e della dimensione talismanica di questo scenario, che conferma ai miei occhi l’ipotesi che “l’oro nell’acqua” sia effettivamente una versione materializzata e, per così dire, “raffreddata” del “fuoco nell’acqua”. 3. Se ora torniamo a Cola Pesce è innanzitutto da notare che diverse sue immersioni lo misero etteralmente a contatto con il fuoco sottomarino. Le tradizioni orali raccolte da Pitrè indicano ad esempio, a seconda dei casi, che: 3.1. Cola scopre in fondo allo stretto, dopo aver riportato la spada e l'anello che vi gettarono rispettivamente il re e la regina, “na caverna, chi porta un gran focu”; la curiosità reale su questo argomento lo costrinse ad esplorarlo e lì trovò la morte, bruciato dalle fiamme provenienti da questa cavità. Ritorna solo il bastone bruciato con cui era disceso in questa tana fatale. 3.2. Secondo un'altra versione, dove Cola si tuffa per recuperare la coppa d'oro gettata nel Garófalu (il vortice dello stretto) dalla regina, che gli promette che potrà tenersela se la ritrova, scopre "dui grannissimi caverni, chi sucavanu l'acqua di lu mari, e avevanu cumunicazioni cu lu Muncibeddu” (Etna). Da una seconda immersione, alla ricerca di un'altra coppa lanciata dalla regina, curiosa di sapere fin dove si spingono queste cavità, Cola non ritorna più. Possiamo quindi intuirne qui la natura vulcanico e infernale dal fuoco sottomarino menzionato nella prima versione (l'Etna è sempre stato considerato l'ingresso dell'Inferno); 3.3. Una terza versione, che lega la discesa del tuffatore ad un'indagine sull'origine del vortice, precisa che sul fondo di esso la Cola brucia in una "vucca di focu" che riproduce quella dell'Etna sotto il mare; 3.4. Apprendiamo anche, in altre versioni, che, inviato a Napoli dal re "pri vidiri li funnàli unni cé eranu li vurcani", Piscicola vi trovò le acque "ora friddi, ora càudi", e che ritornando a Messina non poté vedere il fondo del Faro per via di una "grossa culonna di fumu chi niscia di sutta un scogghiu" che oscurava l'acqua, o ancora che scopre che Messina poggia su tre colonne di ferro sommerse e che sotto l'acqua del Faro esce bollente da un buco.
3.5. Quanto
alla versione spagnola della Relación del 1608, essa
riecheggia, invertendole, queste visioni infernali, ma traspone
anche, questa volta in modo sublimato e celeste, il mito del Fuoco
nell'Acqua: Nicolas entra nella caverna sottomarina di Rota (vicino
a Cadice) e nuota per quaranta giorni nell'oscurità di uno stretto
cunicolo, raggiungendo infine il centro paradossalmente luminoso
della cavità ("vi su remate y llegué / a ver del Sol los
reflexos") dove il mare è "diáfana y clara / como el
christalino espejo”. Tuttavia, il passaggio dalla tradizione rituale di tipo chiaramente semitico (cremazione di effigi riproducenti la morte per fuoco di Melqart) all’illuminazione celeste della Relación del 1608 presuppone una previa reinterpretazione, nella quale la contaminazione deve aver giocato un ruolo importante, con una versione del mito indoeuropeo del fuoco nell'acqua. Una versione secondo la quale questa forza ignea doveva essere presentata non nel suo aspetto di fuoco distruttivo, ma come luce radiosa e benefica: è il caso del “Discendente delle Acque” Apam Napât nei testi vedici e avestani, caratterizzato dalla sua brillantezza, e per la “gloria regale” (xvarenah) dei re iraniani (nascosto dallo stesso Apam Napât nelle acque del lago Vourukasha ma sempre luminoso). Questo tema della luce subacquea lo è notoriamente evidenziato nel racconto del catapontismo di Teseo, accolto negli abissi dalle Nereidi con membra splendenti. 4. È quindi, così come l'annegamento, una combustione subacquea che minaccia il nostro sub, ma questo destino fatale può essere (raramente) scongiurato e trasformato in un glorioso accesso alla luminosa immortalità. Queste alternative sono caratteristiche anche delle diverse varianti indoeuropee della mitologia del Fuoco nell'Acqua: quando il candidato alla prova è idoneo, riesce a conquistare la sovranità (e la gloria luminosa che l'accompagna); altrimenti è distrutto, subisce nel suo corpo gli attacchi devastanti del fuoco sottomarino, o insegue invano una luce errante che gli sfugge costantemente. La reattività delle acque abitate da questa forza è più volte sottolineata nella leggenda siciliana: trattengono sul fondo o divorano il tuffatore troppo audace (tramite l'intervento di qualche mostro acquatico in cui si incarna il loro potere distruttivo, figura in cui è proiettata il volto terribile del Guardiano degli Abissi); riportano in superficie gli oggetti-testimoni che lui ha portato con sé per rendere conto dell'esito del suo tentativo; aspirano o trasportano l'oggetto desiderato e costringono il nuotatore a ripetere - spesso tre volte - la sua immersione fino a raggiungere il punto di non ritorno, o a perdersi definitivamente nelle ramificazioni e nelle viscere delle cavità in cui è inghiottito; sono infine animati da movimenti di va e vieni, correnti antagoniste, flussi circolari e alternati, che creano turbini, aspirazioni irresistibili verso il fondo e zampilli e scariche brutali, caratteristici di questi pozzi proibiti, come quello di Nechtan, che è in comunicazione con tutti i grandi fiumi del pianeta, che da esso procedono e ivi ritornano, o con quegli stretti e golfi dove si incontrano mari incompatibili. Gli stessi tumulti e simili mostri agitano gli abissi al largo di Myra, Messina e Cadice, dove rispettivamente San Nicola, Cola Pesce e Pece Nicolao riescono o falliscono a dominare sovrani le onde. È nel contesto di questa mitologia delle acque ignee che la sequenza della ricerca e delle tribolazioni della coppa sommersa assume il suo pieno significato. Forma reificata del fuoco, l'oro precipitato nelle onde è carico, come la coppa di Helios, di connotazioni solari; brilla nell'oscurità delle onde, attira il subacqueo che lo insegue verso il centro dell’abisso ardente, conferisce gloria o miracolosa redenzione se si lascia afferrare, o umilia e annienta se non si riesce ad afferrarla.
Legato alla
regalità, l'oggetto d'oro immerso serve da mediatore tra il monarca
e la fonte della sua sovranità: gettato in acqua e poi recuperato,
egli conferma o giustifica, oppure simboleggia e suggella
un'alleanza con il mare, oppure impone un dominio irresistibile.
Recuperando per il re (o la regina) il gioiello immerso, o
ottenendolo come premio per la sua impresa, il subacqueo siciliano
partecipa alla regalità, diviene suo accolito o suo doppio uomo
marino, o addirittura il garante della sua padronanza talassocratica
dello Stretto. * * * Nel complesso la leggenda di Cola Pesce si inserisce in una stratigrafia complessa. Solo pochi affioramenti e punti di interferenza sono a noi accessibili.
1. In sostanza
si può sospettare l'esistenza di un folclore professionale locale,
probabilmente molto antico, legato al mestiere del subacqueo. Forse
è da qui che è iniziata l'autoidentificazione di questi pescatori di
tipologia molto particolare (cercatori di perle, di spugne, ecc.)
con esseri ibridi, intermediari tra il mondo umano e il mondo
marino, tra cultura e natura. Legata alle difficoltà e ai pericoli
della professione, ha potuto imporsi l’idea di una maledizione
collettiva, di una fatalità subita con la rassegnazione dei poveri,
come è avvenuto per altre professioni altrettanto poco gratificanti,
o addirittura socialmente sospette. Abbiamo visto che quest'ultimo è legato all’olio, agli oggetti metallici (da cui viene zavorrato?), forse anche a botti e tubi, che i testi più antichi menzionano indirettamente, ovviamente senza sapere cosa significhi questo armamentario e la terminologia residua che ne ha depositato nella leggenda: questi dettagli concreti hanno senso solo in relazione a un contesto professionale. 2. San Nicola era particolarmente venerato da questi subacquei?
L'ipotesi
(ancora da verificare) non è inverosimile: abbiamo visto che il tema
del catapontismo compare in vari modi nella sua leggenda, vale a
dire che il santo stesso effettua una discesa subacquea per aiutare
un suo protetto (come avviene nel miracolo della coppa caduta in
mare e nel gesto russo di Sadko), o che a un personaggio che porta
il suo nome venga affidata un'avventura subacquea che richiami, ad
esempio, il mito del catapontismo di Palemone-Mélicerte: è
particolarmente vero per Nicola Pellegrino di Trani, altro greco
giunto in Puglia, ma in vita, dopo una traversata durante la quale,
gettato in mare, era stato preso in custodia da una Signora scesa
dal cielo, (come era stato aiutato da un delfino qualche anno prima
quando i monaci del monastero dove era stato confinato, esasperati
dalle sue pie stravaganze, lo avevano gettato in mare con uno status
di identità ibrida). Si può notare come queste entità contrastanti, paradossalmente riunite dalle loro radici comuni in un simbolismo battesimale dell'immersione e della rinascita, potrebbe servire ai subacquei professionisti come riferimento agli aspetti a volte umili e potenzialmente eroici della loro professione. 3. L'avvicinamento tra la figura del santo e quella dell'ibrido marino è avvenuto in Sicilia o già in Puglia? Non potrebbe essere avvenuto anche prima, intorno a Rodi, teatro delle imprese miracolose del santo, ma anche patria dei mostruosi Telkhini?
Questi
esseri anfibi ibridi dovevano essere ben conosciuti in Licia, la
patria di San Nicola, dato che uno di loro, Lycos, fondò il tempio
di Apollo Licio presso Xanthos. La sua leggenda era forse associata
a quella di Icadios, figlio della ninfa Licia, che fondò la città di
Patara (dove nacque San Nicola) e vi installò un oracolo di Apollo? Per tornare ai Telkhini di Rodi, è con Cola Pesce, il Nicolas uomo marino, che hanno evidenti somiglianze: dotati come lui di estremità palmate, sono strettamente legati al mare e, così come Cola Pesce aveva prevede il futuro affondamento di Messina (e di tutta la Sicilia) dopo aver constatato la fatiscenza dei pilastri sottomarini che la sostenevano, i Telchini abbandonano Rodi - un tempo isola errante - perché sanno che è destinata ad essere sommersa da un'alluvione. Infine, sappiamo che saranno colpiti da Zeus e, come Cola Pesce, saranno gettati in fondo al mare. Sebbene il palombaro siciliano sia unico e, a differenza dei Telchini, non appartenga a nessuna comunità, la sua tipologia è un piccolo richiamo alla loro ambivalenza: benevolo nei confronti degli umani, non è un demone ostile e si presenta come un servo sottomesso fino all'abnegazione all'autorità reale, ma alcune versioni sottolineano che, oltre alla disobbedienza iniziale che gli valse la maledizione dei genitori, dovette essere esorcizzato e che alcuni lo consideravano una figura diabolica, addirittura un mostro marino; è solo in questi casi eccezionali che Cola Pesce può essere considerato un demone. È solo in questi casi eccezionali che Cola Pesce può essere accostato ai nixes e ad altri demoni acquatici germanici affini. Allo stesso modo, i Telkhini, pur essendo fondamentalmente demoniaci, sono comunque utili all'umanità per il loro rapporto con l'agricoltura e alcune tecniche. In ogni caso, l'ascendenza nicolaitica del nuotatore siciliano corregge e trasfigura, senza arrivare a farne un santo, ciò che potrebbe essere dovuto a una possibile parentela con questi giganti indoeuropei del mare: tutto sembra accadere come se egli stesso fosse il prodotto di una contaminazione, avvenuta nei pressi di Rodi, tra questi geni marini e il santo che localmente li soppiantò come padrone dell'impero poseidoniano... Dovremmo vedere un richiamo (mediato da fonti arabe) alle possibili origini rodiane di Cola Pesce nella versione bizantina che lo fa signore della fantastica isola di Gabalarada (cioè probabilmente “Djabal Rada”, quindi forse la “montagna di Rodi”?) e nella Relación iberica, che lo fa nascere a Rota (vicino a Cadice) e gli assegna “la cueva de Rota” come dimora subacquea? 4. Se così fosse, occorrerebbero ulteriori ricerche sulle affinità licie, rodiane, persino cretesi e cipriote (terre “telchine”) delle tradizioni siciliane segnate, come la leggenda di Cola Pesce, da schemi mitici specificamente legati alla mitologia del Fuoco nell'Acqua. Sono prevalenti, come attestano il complesso di credenze e rituali ordalici relativi ai Paliques, il mito della morte di Minosse in acqua bollente presso la casa del re Cocalos, la leggenda dell'effigie talismanica di Reggio, che impedì l'invasione della Sicilia da parte dell'esercito di Alarico facendo affondare la sua flotta nelle acque dello Stretto (questo idolo, dedicato a deviare la lava dell'Etna e a impedire ai barbari di entrare nell'isola via mare, aveva, secondo Olimpiodoro, un fuoco inestinguibile a un piede e una sorgente inesauribile all'altro).
Tradizioni
di questo genere si perpetuarono in Sicilia fino al Medioevo, e c’è,
a questo proposito, un'altra storia di una coppa sommersa e di un
mare in fiamme che mi permetterà di chiudere il cerchio ricordando
la strana storia riportata nel XIII secolo dal domenicano Stefano di
Borbone, che dice di averla conosciuta proprio da un monaco
pugliese: in questo exemplum, che non è altro che una delle versioni
della leggenda di Artù come sovrano di un regno incantato nascosto
non lontano da Catania all'interno dell'Etna (che appare nel
racconto del domenicano sotto una luce chiaramente infernale), il re
plutoniano dona al visitatore del vulcano una coppa d'oro chiusa
che, allorché sarà aperta, sputerà una fiamma e, una volta gettata
in mare, prenderà a fuoco.
François
DELPECH
Le note a
piè pagina non sono state riportate.
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