La leggenda di
Colapesce
La Leggènda orale
Poche leggende popolari son tanto diffuse in Sicilia quanto questa
di Cola Pesce. Da Messina a Siracusa, da Siracusa a Pachino, da
Pachino a Girgenti, a Trapani, a Palermo si racconta ora nei suoi
tratti principali, ora nei suoi minuti particolari.
Né la popolarità è solo nelle coste, ma si estende anche nell'
interno dell'Isola, tra' comuni più montuosi ed i luoghi più lontani
dal mare. Delle diciotto versioni che io ho raccolte e delle altre
che ho udite e spigolate per qualche circostanza, o non messe a
profitto per la medesimezza che hanno con quelle da me possedute, ve
ne sono, e non ispregevoli per circostanze attraenti, di Borgetto
(provincia di Palermo) e di S. Cataldo, nel centro della Sicilia; ed
io ne ho tralasciate di Misilmeri e Montemaggiore (Palermo), di
Castrogiovanni (Caltanissetta), di Alcamo e Salaparuta (Trapani), di
Naro (Girgenti).
La quale popolarità ha una ragionevole spiegazione nella curiosità
della leggenda, nella maraviglia del protagonista ed in un fatto che
solo la leggenda popolare ci offre: la conformazione subaquea di
Messina, che, come vedremo, ha del poetico e del pauroso.
Ed il popolo racconta:
C'era una volta in Messina un uomo, che sin da fanciullo era
stato sempre in mare, dove passava le intere giornate nuotando e
raccattando ostriche ed altri frutti marini. La madre, stanca di
questa sua condotta e disperando di ridurlo al dovere, un giorno,
adirata, gli mandò questa imprecazione: "Che tu possa
diventare pesce!” e detto questo, il figliuolo diventò
mezzo uomo, mezzo pesce, con le squame alle carni e la pelle tra le
dita delle mani e dei piedi come quella delle anitre e delle oche.
Egli si chiamava Nicola, e per questo tutti lo chiamavano Cola
Pesce, o Pescecola.
Una volta il re di Sicilia andò a Messina e saputo di quest'uomo
stranissimo, volle conoscerlo; e per far la prova della valentia di
lui, desideroso di sapere i segreti del Faro, gli ordinò di buttarsi
alla sua presenza in mare e di riportargli un anello o una coppa
d'oro che egli vi lancerebbe e di sapergli dire che cosa vedrebbe.
Cola, conoscendo il pericolo, tituba un istante, ma poi o pel timore
di una punizione, o per l'avidità del premio, si slancia e riporta
l'oggetto prezioso, descrivendo quel che ha visto: e monti e caverne
e fuoco e mostri terribili.
Messina poi - altri dicono la Sicilia – poggia su tre colonne: una
rotta del tutto, una quasi rotta, l'altra
intera e intatta; sicché quando la seconda si spezzerà, per Messina sarà finita:
Ora si chiama Missina,
Ma domani si chiamirà mischina.
Ma il re non è soddisfatto ancora e vuole che Cola ridiscenda
nell'abisso, e gli tolga altri dubbi intorno ad esso. Il povero Cola
esita ancora più che la prima volta, ma finalmente, obbligato dal
re, si provvede di una ferula, o di palle di sughero di differenti
colori, o di un pugno di lenticchie, per servirsene come di segni,
da lì a non molto, invece di lui verrà a galla la ferula, o la palla
di sughero nera, o le lenticchie, segno che egli si sarà perduto. E
si sprofonda nel gorgo.
La ferula ricomparisce con una estremità bruciata; non v'è dubbio
quindi che Cola perì nella caverna del fuoco.
Secondo altri, vengono a galla le lenticchie, o il sughero:
segno certo che egli fu inghiottito da qualche mostro.
Questa la leggenda in generale; ma quante circostanze di meno o di
più, differenti e diverse, non presenta essa da comune a comune, da
bocca a bocca!
Cominciando dal nome, esso varia dalla Sicilia orientale alla
Sicilia occidentale. In Messina e nelle province di Catania e
Siracusa, è Cola Pisci; ma in Palermo, Termini, Borgetto,
Trapani, Mazzara è Piscicola: e Piscicola è anche in S.
Cataldo e, per rara eccezione, in S. Agata di Militello. La sua
conformazione e figura è naturale fino alla imprecazione; la quale
comparisce in una variante di Napoli non riferita nei testi che
seguono al presente studio e nelle versioni di Termini (n. VI) e di
Palermo (n. VIII), nell'ultima delle quali si può trovare la ragione
popolare del compimento della imprecazione. La ragione è questa: che
le imprecazioni delle madri sortiscono il loro effetto (li gastìmi di li matri jùncinu), perchè in quel
momento il cielo si apre e la madre è sentita da Dio, e se non lo è,
un angelo che si trovi a passare, all'udire la tremenda parola,
risponde: Amen! e vola a portarla a Dio: credenza odiosa, se si
vuole, ma di altissimo insegnamento pel popolo, in cui i figli sanno
che la parola materna è parola di Dio, e le madri imparano che essa
può chiamare le benedizioni o le maledizioni, le gioie o i dolori
della vita sul figliuolo secondo che egli sia buono o cattivo. Né
ciò, come vedremo, è solo in Sicilia.
Con o senza la imprecazione, Cola partecipa dell'uomo e del pesce
(S. Agata, Borgetto, Siculiana, Termini, Messina-Palermo, Trapani,
Mazzara), ma se in Borgetto, Siculiana, Messina, Roccalumera,
Trapani, Palermo, è mezzo uomo e mezzo pesce, una specie di sirena
mascolina; in Borgetto ha la pelle come aragosta, in Termini (VI) di
squadro (squalus squatina di L.); in S. Agata (IV) Trapani (XI),
Mazzara (XIV) ha la gola come i pesci, in Palermo (VIII) come le
rane; in Termini (VI) e Palermo (Vili) le dita di anitre ed in
Trapani (XIII), identificandosi col bue marino, ha faccia di vitello
senza corna, collo lungo e coda, conservando nel restante del corpo
abito umano.
Per siffatta natura egli nuota sott'acqua da Messina a Catania
(Messina, I), o fa il corriere da Messina a Reggio di Calabria (Messina-Palermo,
V), e si dice che abbia molto esplorato attuffandosi in tutti i
golfi del mondo (Siciliana, XV); donde la conoscenza piena di tutti
i mari, che lo rende in grado di disegnare la carta navigatoria e d'
inventare la bussola (Borgetto, IX).
Ma il suo campo di azione è sempre Messina, dove egli nacque (IV, Vili,
X, XVI) non ostante che alcuni lo dicano faroto (II, III, VII). Solo una versione trapanese
(XII) lo dice figlio d'una lavandaia; ma nessuno sa della madre,
neppur coloro che alla madre attribuiscono la odiosa imprecazione.
Cola nuota tutto il giorno (Termini, VI), o un intero giorno
(Trapani, XII, XIII), o poche ore (Mazzara, XIV), od anche quanto
gli pare e piace (Trapani, XI), e dove un pesce lo inghiotta
inaspettatamente (XII), o dove egli, per sicurezza di se stesso, si
lasci da quello inghiottire come dice il popolino di Napoli, il suo
coraggio e la sua agilità son tali da permettergli di uscirne
cavando un coltello che egli porta legato addosso, e sventrando il
malcapitato pesce. Tanto basta perchè il re abbia voglia di
conoscerlo (Messina, I; Termini, VI; Trapani,XI, XIII; Palermo, VIII).
Dico il re, perchè su questo nome e personaggio convengono la
maggior parte delle versioni edite ed inedite; ma secondo le
versioni di Sant’Agata (IV) e di S. Cataldo (XVI), non si tratta di
re, ma di regina; secondo quella di Mazzara (XIV), di un gran
principe; secondo l'altra del Faro (II), di un governatore e secondo
una di Trapani (XII), di uno scienziato.
Re o regina, principe o scienziato ch'egli sia, la curiosità di
conoscere appieno i segreti della natura, od il capriccio di veder
compiuta un'impresa straordinaria e, per ciò stesso, piena dei più
gravi pericoli, spinge, anzi obbliga Cola a tentarla. La volontà del
re o del principe (Mazzara, XIV) s'impone sulla volontà di Cola (S.
Agata, IV), (Termini, VI), (Trapani, XI), (Palermo, XIII); e la
ostinazione di quello trionfa della ripugnanza e dubbiezza di questo
(Messina, I). Anche nella tradizione di Napoli prevale il regio
volere; e Niccolò Pesce, come là si chiama, perchè partecipa della
natura dei pesci, si rassegna non per amore ma per forza ad
ubbidire. Ma il volere del re è desiderio ne' Messinesi (Trapani, X;
S. Cataldo, XVI) impazienti di sapere quali siano le fondamenta della loro patria; ed è naturale tendenza, inclinazione
prepotente dello stesso Cola il vedere, l'osservare quel che sia tra
Scilla e Cariddi (Borgetto, IX) o il darsi ragione delle correnti
che costituiscono il Galofaru, segno d'un fuoco sottomarino come
quello sotterraneo dell'Etna (Messina, V).
Due racconti della riviera peloritana, l’una del Faro, l'altra di
Roccalumera (prov. di Messina) hanno circostanze di non lieve
importanza. Nel racconto faroto Cola è adescato a sprofondarsi due
volte nel vortice dal premio d'una coppa d'oro, ed una terza volta
dalla prospettiva della mano d'una ragazza, la figlia del
governatore (…). Quando Cola supera la terza pericolosissima prova, il fedifrago governatore lo fa uccidere.
Nel racconto di Roccalumera Cola è un benefattore, dei suoi
concittadini. Egli rimane sempre in acqua, e vi rimane per
sorvegliare i mostri marini che possano lor nuocere: mostro
singolare un grongo (Muraena canger), caratteristico per la
simbolica posizione della sua coda a ponente e della sua testa a
levante.
Questi mostri han paura di Cola!
Andiamo oltre nella rassegna dei particolari dei vari racconti. Il
luogo della discesa in mare è vagamente affermato: Messina, in tre
versioni di Trapani (X, XII, XIII) ed in una di S. Cataldo (XVI); ma
in tutte le altre è costantemente il Faro, e del Faro il sito
preciso dove rincontro delle correnti forma il vortice (S. Agata). E
scendendo una, due, tre volte, secondo il capriccio altrui o
proprio. Cola vede, secondo i Messinesi, fuoco sotto il fonte SS.
Salvatore (I), due immense caverne che aspirano acqua marina e
corrispondono col Mongibello, secondo dicono quei di S. Agata (IV);
scogli, caverne, secondo quei di Borgetto (IX); monti, valli e pesci
giganteschi e mostruosi, secondo alcuni narratori di Roccalumera, di
Palermo e di Trapani (III, Vili, XI); tutti i
Siciliani però convengono che la rivelazione più grave di Cola o la
osservazione che più richiami l'attenzione di lui sono tre colonne
sulle quali poggia la città di Messina (VIII, X, XII, XIII, XVI) o
la Cittadella di (Messina-Palermo, V) o la Sicilia in genere
(Trapani, XI). Queste colonne sono sempre in condizioni diverse: una
intera e perfetta, un'altra fessa o corrosa, prossima a crollare;
una consumata e rotta. Ora se si pensi che la seconda colonna potrà
subire la sorte della compagna già rotta, il pericolo è tale che
Messina può da un istante all' altro essere ingoiata dalle onde; e
Cola, che lo vide e lo seppe, si lasciò andare, secondo i racconti
di Trapani, ad una fatidica sentenza rivolta ai suoi concittadini:
La vostra patria si chiama Missina,
Ma vinirà un jornu chi si chiamirà misshina; ovvero, come in un racconto di Palermo:
Un jornu sarai mischina; sentenza che corre proverbiale e che si sente dire tutte le volte
che si parli di quella splendida città.
Noto qui di passaggio che non conoscendosi le antiche scandalose
gare tra Palermo e Messina, non si potrà spiegare questo anticipato
compianto: il quale e perché parte dalla regione occidentale della
Sicilia e nominatamente dall'antica Capitale, e perché si conserva
tuttora in forma ritmica, ho ragione di credere nato dopo la formazione della
leggenda e non prima del cinquecento: aggiunta, intrusione, come
vogliamo chiamarla, tutta siciliana, ma non messinese, d' una
circostanza che la Sicilia intera, inclusa Messina, conserva nel
racconto leggendario. E questo mi fa ricordare d'un'altra leggenda
esclusivamente messinese, del ciclo di Cola Pesce, dove quel
popolino mette in bocca al suo Giàlanti Pisci un motto di disprezzo
contro i Calabresi:
Mei cari Missinisi,
Tegnu 'n testa è Calabrisi.
Dell'oggetto buttato in mare dal principe fanno menzione solo una
metà dei racconti, e tutti in generale e vagamente discordi sulla
natura di esso. La versione di Mazzara (XVI) parla, di brillanti e
cose preziose; una quelle di Palermo (VIII), di corona, la quale il
re si sarebbe tolta dal capo ed avrebbe, senz'altro, lanciata
nell’abisso pregando Cola di andargliela a pescare; un'altra di
Palermo (VIII) ed una di Messina parlano dell'anello, è quelle del
Faro (II), di S. Agata (IV) e di Termini (VI), della coppa d'oro,
che Cola riesce a prendere la prima volta , ma non la seconda ,
poiché perde la vita, come alla seconda volta la perde pure pescando
l’anello, giusta la versione di Messina (I), o l'indefinito oggetto
prezioso, di Mazzara. Cercando, secondo la versione napoletana, la
palla da cannone, o secondo quella palermitana (VIII e VII) la
corona o l'anello, egli soccombe alla prima prova. Nelle altre
versioni Cola si mette allo sbaraglio senza premio, ed in quella di
Palermo che va sotto il n. VIII, dove si parla della corona, le
prove si spingono fino a sette quando nel Faro e quando in Napoli.
Giova notare questo numero di prove, perchè in esso la leggenda si discosta dalla novella in
quanto non istà al fatidico numero 3, sotto il quale vanno sempre i
figli e le figlie di re, gli oggetti, i giorni imprescrittibili, e
col quale si devono compiere e si compiono i viaggi disastrosi col
consiglio dei tre romiti, con l'assistenza dei tre venti, con
l’aiuto dei tre animali benefìci e con le tre famose prove
umanamente impossibili e, per sovrumano intervento, facili per
riuscire nella tale o tal'altra impresa.
E poiché mi è venuto fatto un cenno del motteggio di Cola ai Calabresi
che fa parte d'una leggenda non tutta su Cola, ma al ciclo di Cola
appartenente, non sarà inutile un richiamo delle leggende siciliane
riferibili a questo personaggio.
Come accade per gli uomini insigni, la nascita e la dimora dei quali
si localizza in un paese o in un altro, Cola percorre tutti i mari,
entra in tutti i golfi. Nella leggenda napoletana, il popolino di
Porto lo fa scendere nelle misteriose grotte di Castel dell'Uovo.
Da un pescatore palermitano ho sentito, essere stato Cola anche in
quello di Palermo e di avervi compiuto le sue belle prove. Un
marinaio cefalutano giurava di aver conosciute persone che gli
avevano raccontato di non so quale apparizione di Cola presso Cefalù;
ed un licatese, che quando il famoso nuotatore si recò in quelle
parti sue, fu a un pelo di lasciarvi la vita soppozzando.
La leggenda di Siculiana lo fa nuotare in quel mare: e in una malandata
scommessa con un argentiere, lo dice annegato presso lo Scogliu
d' 'u russeddu, e, stando alle gocce di sangue che si videro
dopo, probabilmente divorato da un mostro marino.
Nella leggenda: La marinara e la Sirena di lu mari
di Palermo
(VI) la parte di Cola è disimpegnata da una sirena, e quella del
principe da un marinaio.
Questi sapendo che ella non è buona a star lungamente sott'acqua, le
getta in mare un anello che egli si cava dal dito e vuole che essa
glielo riporti; la sirena si tuffa; e indizio di sua disgraziata
fine sono delle stille di sangue che vengono a galla senza
sciogliersi nella acqua.
Un'altra storiella sul medesimo argomento della sirena anzi delle
sirene in relazione con Cola Pesce sarà rilevata più in là (…).
Ho già notato come la leggenda di Cola si confonda con quella del pesce
Cola, o semplicemente Cola. Il fatto non è privo d' importanza ed io
mi vi fermo un poco per lumeggiare meglio la figura che vengo illustrando.
Lasciamo dunque per un momento il nostro nuotatore.
Il pesce Cola nella credenza popolare è il vitello marino, che potrebbe
esser la phoca dei naturalisti. Esso originariamente era un
uomo, ma un giorno, dopo di essersi buttato in mare e di avervi
dimorato lungamente, ne uscì mezzo uomo e mezzo bue. Ma se Cola
Pesce, come vuole la tradizione comune, morì, il pesce Cola vive
sempre, ed è, dove un buono, dove un cattivo soggetto.
"Quest'animale, secondo che ne raccontano i marinai, vive in mare,
ma dorme a terra, in luoghi punto frequentati, ove son grotte o
larghi crepacci. Di state poi, nelle ore calde del meriggio, cerca
riparo nelle spiaggie più silenziose; ed una delle dimore più
predilette è forse la stupenda grotta di Levanzo, che da lui piglia
il nome. Molestato, si difende tirando sassi; ed ha le braccia così
esercitate e così diritta l'acutezza della vista, che rare volte non
coglie nel segno. Usa della malizia per procurarsi il vitto; e quando i pescatori gettano in
mare i tartanoni, egli ne sorveglia le gole, e mangia i pesci che sono per entrare. Per il solito, quando i pescatori vedono questo animale presso alla
bocca del tartanone, gli dicono:
- Lasciaci guadagnare il pane Cola. Le nostre famiglie sono affamate,
e aspettano il ritorno. Per carità, Cola, non guastarci la pesca; ne abbiamo proprio bisogno.
A queste parole il bue marino, facile ad intenerirsi, va via. E per questo il marinaio
trapanese lo lascia tranquillo, quantunque sappia che della sua
pelle si possano fare de' cinturini; i quali, posti sul ventre delle
donne travagliate dalla difficoltà del parto, agevolano le doglie, e
fanno sì che le sofferenti possano dare alla luce il portato, senza
che si ricorra al consiglio del medico o all'opera del chirurgo"
Questa la tradizione di Trapani, la quale, mutatis mutandis, è tradizione di tutta Sicilia;
e ci ricorda quello che del vitulo lasciò scritto il Cardano e,
quindici secoli prima , Plinio. Seguendo Aristotele, Plinio affermò
che “vituli.... accipiunt disciplinam, voceque pariter et visu
populum salutant; incondito fremitu, nomine vocati, respondent
“. Della foca disse Eliano: “Phocae circa vesperam magis exeunt,
aliquando tal meri etiam meridie et extra mare somnum capiunt”:
probabilmente ricordandosi di non so qual passo di Omero
nell'Odissea, dove Menelao cenna a Telemaco ed a Pisistrato qualche
cosa del covile delle foche a proposito dei cari loro nel Faro.
Diversamente fuori Sicilia.
Nel 1838 uno scrittore napoletano, in un modesto articoletto col titolo:
Pesce Nicolò,
Nicola Pesce, principiava dicendo:
“La identica nomenclatura sospinge a favellare in un solo articolo del famoso
nuotator siciliano Persecola (sic), detto altrimenti Pesce Niccolò,
e di una vera specie di pesce addimandato Nicola”
Dopo di aver ripetuto la solita leggenda, quale si legge in D'Alessandro, raccontava:
“Circa 12 anni dietro cioè verso il 1826) i pescatori della costa di Francia da S. Brieux
fino a S. Malo ebbero molto a soffrire per più di 8 mesi da un
grosso pesce. Le innumerevoli prodezze di Nicola, che così veniva
addimandato, sono tutt' ora il subbietto delle conversazioni fra'
marini di quel littorale. Non poteasi più pescar con sicurezza;
Nicola attraversava e scompigliava le reti; talvolta sì forte
tiravale, che seco le strascinava; il perchè facea d'uopo legarle ai
banchi della scialuppa, aspettando che piacesse a Nicola di
rivolgere a qualche altro oggetto i suoi scherzi villani; spesso
saltava in mezzo ai piccoli pesci colti alla rete, e facendo delle
aperture nelle maglie liberava i poveri captivi. Dilettavasi ancora
di alzare le àncore dei grandi battelli destinati alle pesca delle
ostriche , mentre i marinai dell' equipaggio stavano nelle barchette
leggiere a pescare; e costoro a malo stento potevano accorrere per
raggiungere il battello in deriva strascinato dalla corrente o dal
vento. Spesso eziandio Nicola apprendevasi al capo da pescar le
àncore, ed avviluppavalo nella rete. In S. Casto, vicino a San Malo, le furfanterie di Nicola erano sì frequenti, che i pescatori non osavano
scender da bordo per dormir fuori la notte, imperciocché il pesce
afferrava le gomene, e portava le barche nella grande rada. Talvolta
condusse così l'un dopo l'altro dal posto alla rada quattro a cinque
battelli i cui padroni erano assenti. Quando le barche erano così
pesanti da non poterle trascinare afferrava la gomena del segnale, e
ravvolgeala a quella dell'ancora, annodando e mescendo queste due
funi, perturbando ogni cosa, e immergendo in tal guisa i marinai in
lungo e noioso travaglio.
Questo strano pesce venne in quei paraggi detto Nicola dal nome di
un uffiziale, che durante la guerra comandava ed erasi mostrato
verso i pescatori austero di troppo e scrupoloso nell'osservanza dei
regolamenti talvolta inumani, e vigilante rigidissimo perchè i loro
battelli si ritirassero nelle ore prefisse sotto pena di star tutte
le notti al di fuori. I marini memori della immane severità dell'uffiziale,
diceano per ischerzo, ch'era Nicola divenuto pesce, il quale
dilettavasi ancora di tormentarli e di impoverirli.
Nicola giunse fino alla rada di San Malo, e fu impossibile prenderlo
o ammazzarlo, ne facilmente spaventavasi. Venne inseguito con molte
barche e gli trassero de' corpi di archibugio, ma, sempre indarno.
Dicono che fosse un grosso porco marino, il quale andava sempre
solo. Dopo tre mesi e mezzo disparve e non si è mai più veduto”
Così scrivea l'anonimo napoletano del Poliorama pittoresco
senza far sapere a nessuno che questa leggenda la prendeva di peso
dal Magasin pittoresque del 1835, traducendola un po' a modo suo.
Sébillot, rilevando l'articolo francese, riporta il fatto al 1823,
ed osserva che l’apparizione di Nicola non è anteriore ai primi anni
della Restaurazione. Ciò può essere per il tempo in cui la leggenda
fu udita e pubblicata, ma non toglie che la leggenda esistesse già
nella memoria e nella bocca dei pescatori dell'Alta Bretagna. Le
varie notizie che si collégano allo stesso pesce danno a credere
trattarsi di credenza molto più antica. Un vecchio marinaio parlando
dell'esistenza di Nicola in Erquy, raccontava che Nicola
"mélait
les lignes, enlevait les grelins, faisait dériver les bateaux, s'
attachait à l'un piùtòt qu' à l'autre, et ne faisait ancun cas des
balles, parce qu' il était invulnérable. Heureusement, enfìn, il s'
attacha à un navire di Terre-Neuve, et oncques depuis on ne l'a revu”.
Aggiunge certo Habasque: "Notre conducteur nous fit, à l'occasion
de Nicole, toutes sortes de contes plus amusants les uns que les
autres, et il nous entretint de 1' homme de mer, que tous ont
toujours vu, excepté celui qui vous raconte l'histoire”
Nicola a Saint-Briac avea le mani, e faceva nodi che solo marinai di
molta abilità potevano fare. In Saint-Cast apparve nel giorno
dell'Ascensione. Una volta, come nel racconto siciliano di Trapani,
avendone fatta, una delle sue ad un pescatore, pregato da questo, si
commosse e lo ricondusse a porto dopo avergli fatto cadere a mare i
remi e resolo inabile a salvarsi. Un'altra volta, dopo uno di questi tiri, pieno di buon umore alla
rabbia del pescatore, correva dietro alla barca di lui
sganasciandosi dalle risa.
Secondo la tradizione di Plévenon, sopra una barca andava in cerca
di Farnel e Ménard - due persone che la leggenda non ci fa conoscere
-, e li conduceva fino alla Fresnaye. E si narra altresì che un
giorno, invocato da un pescatore in un accesso di collera:
"Viens
donc, sacre Nicole!” schizzasse improvviso su di esso da cinque
a sei secchie d' acqua; e mentre si benediceva in Fresnaye una
barca, Nicola non ebbe ritegno di tirarsela in alto mare fino a
Corbière; ed allora la lasciò e disparve per sempre quando il prete,
vista la mala parata, lo scongiurò con l'acqua benedetta.
Si fa presto a dire per sempre quando si parla di fatti che si
affermano e de' quali si crede poter essere testimoni. Ma la
medesima tradizione ricomparisce in siti diversi: ed altri uomini
raccontano come visti da loro ed accaduti a loro avvenimenti dei
quali giurano l'autenticità e la veridicità.
In alcuni luoghi della
Francia Nicola mangia, beve come un pesce e come un uomo. Come pesce
è più grande d' una marsina e ghiotto di pesci. Come uomo ha forti
braccia, con le quali s' attacca ad una gomena e trascina un bastimento: e corpo
umano e gambe e coda di pesce: e come il Nicola Pesce delle altre
tradizioni non si stanca di mettere alla disperazione i placidi pescatori. Tornando poi all'Alta Bretagna, una leggenda raccolta non è guari a
Saint-Cast dice di un pescatore di quella contrada, il quale
passando vicino a Bourdineaux gettasse l’ancora per farvi una delle
pesche così abbondanti in quei paraggi. Ma l'ancora non toccava il
fondo: un grosso pesce vi si trastullava come il gatto col gomitolo
del refe. Era quel pesce Nicola, che ne ha fatte tante ai pescatori
("qui a joué tant de tour aux pécheurs”).
- Maledetto Nicola! esclamò il pescatore: è tanto tempo che ti
diverti a far bestemmiare i marinai! Ma se io ti piglio, ti farò
pagare fino ad uno tutti i danni che hai loro recati!...
E tanto disse e tanto fece che lo prese e lo tirò sulla barca. Nicola
guardava come sbalordito; ed il pescatore gli cavò gli occhi, e
glieli riempì di cemento; così pur fece della bocca; gli tagliò le
tre ale e lo rigettò e mare, dove sarebbe certamente morto se gli
altri pesci non fossero accorsi in suo aiuto, sturandogli la bocca e
le occhiaie. Nicola vive sempre, ma non s'accosta mai più a navi
cariche di cemento; onde i marinai si servono di questo per
ispalmarne le barche, perchè:
Tant que ciment à bord sera
Jamais Nicole n' approchera!.
Non per la sua conformazione o per il posto che ad esso tocca nella
scala ittiologica (giacché si tratta di un essere prettamente
fantastico), ma per le analogie che può avere col pesce Cola e con
l’uomo-pesce, occorre qui far menzione di un immaginario uomo-pesce
del Nilo e di un pesce-monaco, visto qua e là nei mari del nord.
Il missionario italiano P. Carlo Tappi racconta aver sentito dalla
bocca di un nubano del Sudan e di aver avuto confermato da un nero
denka la seguente storiella:
“Alcuni pescatori di Omburman un giorno tirarono nelle loro reti un
enorme pesce. Portatolo alla riva videro con maraviglia e terrore a
un essere straordinario: dalla cintola in su aveva tutta l'apparenza
d'un uomo, aveva i capelli lunghi, la faccia, le braccia, ecc. come
noi: dai lombi in giù era un perfetto pesce. Passato il primo stupore fu atterrato il mostro e poi due uomini lo presero
per le ascelle, e venendo gli altri in coda, lo condussero dinnanzi
al Califfa Abdullahi.
Il Califfa provò a parlargli, ed il nilicola sembrava capire e voler
rispondere coi gesti del capo (le braccia dalla mente del narratore
erano scomparse), poi alla fine il Califfa gli domandò se era
contento di restare con lui, e quello rispose di no; gli domandò se
voleva dunque ritornare nell'acqua, e rispose con segni di
allegrezza (sempre però col capo) di sì. Allora il Califfa Abdullahi
ordinò che il nilicola fosse condotto al suo elemento, come si fece
diffatti da quegli stessi che lo avevano portato. L'essere
misterioso messo in riva al fiume, agitando poco per volta le pinne
caudali e trascinandosi all' indietro, si era quindi immerso nel
l'acqua, e nessun più l'aveva visto. Due arabi dongolani asserivano
di essere stati testimoni, con innumerevoli altre persone, ed
attestavano l’autenticità di tutte e singole le circostanze”.
Il bravo missionario scherza su questo racconto e dice di essere
riuscito a sventarne la invenzione in bocca dei due astuti o
grossolani africani. Ma egli non guarda allo spirito del racconto ed
a ciò che esso rivela. Dato che si tratti - come invero si tratta -
di una creazione fantastica, non può non pensarsi alla forma che
essa acquista nelle immaginazioni di quei popoli ed alla facile
credenza ad anfibi, mezzo pesci e mezzo uomini, non privi d'una
certa intelligenza. Se il popolo inventa o sogna una ubbia, bisogna
vedere qualche cosa al di là del sogno e perciò non del tutto
spregevole in quella invenzione, potendo essa, bene studiata, essere
una costruzione con avanzi di antichi elementi tradizionali, o un
adattamento dello spirito informato a secolari superstizioni.
Il pesce-monaco vuolsi primamente rivelato da Guglielmo Rondelet
siccome più volte e da molti visto in Norvegia ed anche nel mar di
Bretagna.
Il Rondelet dice che: "capite raso et laevi, humeros contegebat
veluti monachorum nostrorum cucullus. Pinnas duas longas pro
brachiis habebat. Pars infima in caudam latam desinebat; media malto
latior, sagi miiitaris figura”
A questo pesce-monaco o monaco-marino gli scrittori inglesi danno il
nome di monk-fish, che forse corrisponde allo squatima angelus.
Ma prima assai del Rondelet, Goffredo da Viterbo nel suo Pantheon ne
avea dato la seguente descrizione:
Piscis ibi (in mare) monachus seu forma monastica crescit
Feretque cuccullatum per maris alta caput;
Calceus est illi conformis et ampia cuculia,
Tam bene disposita qua non foret aptior ulla;
Et quasi vox hominis garrula lingua satis.
Frons, manus et vultus hominum moderamine fultus
Dura facit insultus redoatque movetque tumultus;
Mergere naviculas saepius arte parat.
Tutto questo, meno gli insultus, ricorda le apparizioni di
Cola ai naviganti. Goffredo parla di una voce simile a quella
dell'uomo; ma il pesce-monaco poteva giungere ad appropriarsi lo
stesso linguaggio umano.
Ed ora torniamo alla leggenda genuina e propria di Cola Pesce.
In tempi nei quali le nostre relazioni con la Spagna erano strette e
frequenti, la leggenda di Cola Pesce se non importata o diffusa per
la prima volta potè esser colà, per circostanze che non occorre qui
ricercare, rinfrescata e rinverdita. E come avviene che certi
racconti antichi trovano occasionalmente narratori e vanno per la
bocca di molti e per la penna di qualche scrittore, così essa
dovette riapparire un momento ed essere ricordata e messa o rimessa
in evidenza.
Un rarissimo libretto dei primi del sec. XVII, probabilmente popolare
come quelli che corsero un po' pertutto nei passati secoli, parla d'
una riapparizione di Cola Pesce e di nuove vicende della sua vita
errabonda nei mari spagnuoli. Esso è:
“Relacion de corno el Pece Nicolao se ha parecido de nueuo en el
mar, y habló con muchos marineros en deferentes partes, y de las
grandes marauillas que les contò de secretos importantes ala
nauegacion. Este Pece Nicolao es medio hombre, y medio pescado, cuya
figura es està que a qui va retratada”
Come si rileva da questo lungo e, stavolta perché lungo prezioso,
titolo, una vignetta raffigurante Cola Pesce va intercalata nel
frontespizio, e la figura conformemente al titolo ci richiama a
quella di Cola Pesce della tradizione siciliana: menzu omu, o
menzu cristianu e menzu pisci.
Alcuni anni fa questo raro cimelio bibliografico, dopo infinite
ricerche, potè per opera del Croce rivedere le stampe. La Relacion è
il composto di tre romances. Nella prima, l’ignoto autore ci dà
l’origine e la storia del Pesce Niccolò; nella seconda, l'incontro
di esso con due navi; nella terza, le notizie che di lui correvano
tra la gente di mare. Il riassunto dei trecensessanta versi della
Relation è stato fatto dal Croce, ed è pregio del presente studio il
riportarlo.
"Niccolò - vi si dice - era nato nella piccola borgata di Rota, sul mare,
a due leghe da Cadice. Ivi ancora vivevano i discendenti della sua
famiglia. Bambino, aveva membra simili a quelle di tutti gli uomini;
ma la sua passione lo portava al mare, e nel mare guazzava estate e
inverno, e desiderava di essere pesce per esplorarne i segreti.
Invano i suoi genitori lo rimproverano.
- E diventa pesce!., — gli dice finalmente il padre, spazientito. E
d'un tratto, la metà inferiore del corpo si trasforma in quella di
un pesce, e salta nelle acque, e sparisce. Dopo un anno e un giorno,
si fa alla sponda del mare e chiede di parlare ai suoi genitori. La
gente accorre, da lontano e da vicino, per vederlo, ed egli racconta
i segreti e le meraviglie del mare. Queste visite si ripetevano di
tanto in tanto.
Segue una storia curiosa: si maritava una sua sorella, e per
averlo alla festa delle nozze, lo dovettero portare a casa in una
botte piena d'acqua di mare! Dopo la festa, da buon suddito del Re
Cattolico, chiese muy humilde, con molta umiltà, la benedizione dei
genitori, e fu riportato al mare. E, tuffatosi nelle acque, entrò
nella grande grotta di Rota, e da cento anni non era più comparso...
Nella seconda parte, si racconta che “l’anno passato (?), il giorno
della Circoncisione, ricomparve sul mare, ed essendosi accostato ad
alcune navi, parlò a lungo coi marinai. E raccontò che, entrato
nella grotta, aveva nuotato per quaranta giorni, ed era giunto ad un
mare tranquillissimo, le cui sponde finiscono al Giordano. Qui i
pesci non invecchiano e non muoiono mai, non si moltiplicano e non
si mangiano gli uni con gli altri. E quelli che vi giungono, non
tornano indietro, tanto la vita è lieta e dilettosa.
Egli anche vi
dimorava contento e soddisfatto, e tutti i pesci gli erano soggetti.
Ma il suo desiderio di giovar agli uomini lo aveva spinto a tornare
ai nostri mari. E si mette a dettare ai marinai una serie di
segreti, che il romanzatore, con un ripiego assai ingenuo, dice di
non poter ripetere, perchè han bisogno di ben altro poeta".
Nella terza parte si descrive il congedo che prende il Pesce Niccolò
dai marinai, dopo averli guidati in salvo e accompagnatili per un
pezzo. Egli manda per loro mezzo a salutare i suoi parenti,
promettendo di recarsi presto a visitarli a Rota. La nave giunse a
Lisbona, ed anche due navi irlandesi, ch'erano nel porto, dissero d'
avere incontrato il Pesce. Altri dicevano di averlo visto all'isola
Bermuda, altri d'averne sentito la voce e di essersi tappate le
orecchie non sapendo di chi fosse, altri ancora lo avevano scambiato per una sirena
incantatrice, per una fantasima, per un demonio.
In Rota lo
aspettano i suoi parenti.
Togliamo alla prima delle tre romanze lo intruso aneddoto delle
nozze della sorella di Niccolò ed il comico espediente della botte;
togliamo alla seconda le comunicazioni col Giordano e quello
squarcio di paradiso terrestre dei pesci che non muoiono mai e della
vita felice che si vive nel mare che conduce al Giordano, ed il
particolare dei segreti dettati da lui e non riferiti dal poeta;
facciamo la debita tara ad alcune circostanze dell'ultima, e noi
avremo il Cola Pesce che abbiam veduto finora.
V’è la passione infrenabile di lui pel mare; v'è la
maledizione del padre (invece che della madre); v'è la
trasformazione in mostro marino; vi sono gl'incontri coi marinai ed
il congedo che egli prende da loro; e v'è financo quella tale
mistificazione che abbiamo incontrata in un racconto messinese,
perla quale Niccolò vien messo in combutta con le sirene
ammaliatrici.
Con questi elementi indubbiamente tradizionali, dal facile poeta
accresciuti con particolarità benché nuove pure fantastiche, non v'è
luogo a dubitare della provenienza popolare del contenuto della
Relation.
Il Croce è nel vero quando lo sospetta, anzi quando dichiara che gli
"par di sentire l'eco di una leggenda locale della piccola borgata
di Rota”
Ed ecco perchè in questo capitolo e non in quello della Leggenda
scritta, ho voluto cennare la Relation.
Il sorprendente personaggio non è quindi ignoto alla tradizione
iberica, e ben lo conferma il classico richiamo di Michele Cervantes;
il quale facendo numerare da Don Quiijote le qualità richieste in
un bueno caballero andante, inculca che debba
saber nadar
corno dicen che nadaba el peje Nicolas ó Nicolao.
Dicen. Ma chi lo dice?
Probabilmente coloro che riferivano un'antica tradizione; ed il
sivigliano Pietro Mexia (morto circa il 1552) ricordava haver sin
da fanciullo udito dirne a vecchi di un Pesce Cola, che era huomo,
et andava per il mare nuotando, con molte cose favolose di lui...
Non è guari Braulio Vigon, in una sua Contribucion al Folklore de
Asturias di genere marino, avvertiva che i figli dei pescatori di
Lastres conservan algunas reminiscencias sobre el llamado
hombre-pez de Liérganes, que tanto ha ocupado la atencion del pueblo
y de los eruditos en los siglos XVII (poteva anche dire nel XVI)
y XVIII.
La notizia è interessante, ma sommaria: sicché io ho cercato di averla
meno incompleta di quella che è stata pòrta. Le reminiscenze o sono
direttamente popolari, o, com'è probabile, provenienti da
fonte erudita, cioè dal Teatro critico universal del celebre
benedettino spagnuolo Benito Feyjoo. Non ho potuto consultare quest'opera,
tanto nota, del resto, e quindi non sono in grado di vedere e di
dire chi sia quest' uomo-pesce spagnuolo e quale relazione possa
avere col nostro Cola. Nondimeno un modesto articolo anonimo,
dimenticato in un raro almanacco asturiano di Lugo (Spagna), mi
mette in grado di affermare che la leggenda dell'uomo-pesce se non è
quella di Cola, ne è una riproduzione lontana, una reminiscenza
sformata, una restaurazione nel sec. XVII. L' uomo-pesce è un
nuotatore della seconda metà del seicento, un giovinetto di
Liérganes, a poche miglia da Santander nelle Asturie, che vuolsi
stato maledetto, quand'era ancora fanciullo, dalla madre stanca ed
incollerita di vederlo sempre restarsene in mare.
Qui le due leggende s'incontrano perfettamente e sono una medesima cosa.
L' uomo-pesce, nelle ore vespertine del giorno di S. Giovanni del
1674, va a bagnarsi coi compagni nelle coste di Liérganes, e
allontanandosi dalla spiaggia si perde alla loro vista, ed è creduto
morto. La madre lo piange e si veste a bruno. Cinque anni dopo, un
giorno del 1679, alcuni pescatori gaditani vedono in alto mare una
figura umana, cercano di prenderla, e dopo tre giorni di fatiche
immense vi riescono, e la portano a Cadice. Esaminatala attentamente
tutti riconoscono in essa un giovane alto 6 piedi, di bianca
carnagione, di pelo rosso, dal petto coperto di sottili squame di
pesce, muto, intontito, incapace di comprendere qualunque parola ed
in qualunque lingua. Creduto uno spirito maligno, lo si fa esorcizzare, ma nel meglio,
l'uomo-pesce pronunzia la inesplicabile parola Liérganes, che un
giovane presente dichiara un sito a due leghe da Santander. Il
misterioso essere viene ospitato nel convento di S. Francesco in
Cadice, donde nel 1679 un frate francescano, reduce dai Luoghi
santi, col proposito di recarsi nelle Asturie, lo toglie con
sè. L'anno seguente il missionario giunge a Santander, e a poca
distanza da Liérganes ordina al suo strano compagno di cercare
persona che egli sappia.
L'uomo-pesce s'avvia difilato alla casa di una donna del porto, certa
Maria del Casar, la quale al primo scorgerlo corre ad abbracciarlo
esclamando: Este es mi hijo Francisco; que perdi en Bilbao,
senza che per ciò egli si commuova e dia segno di riconoscimento.
Quel giorno è in paese un gran dire della resurrezione del giovane e
più della maledizione - da alcuni messa in dubbio - lanciatagli dalla
madre. Così stette l’uomo-pesce altri nove anni, inebetito, automatico,
mangiando se gli si desse da mangiare, vestendo se gli si dessero
panni. Una volta mandato a consegnare in un punto lontano una
lettera, fu visto buttarsi a nuoto perchè non trovò una lancia che
dovea condurlo; ma un giorno del 1687 sparì per sempre: né mai altro più
se ne seppe. Dove fosse andato, che cosa gli fosse avvenuto fu un
mistero per tutti. Certo, dice il Feyjoo, sarebbe stato grandemente
istruttivo per gli eruditi il sapere come egli respirasse, come
vivesse in mare, come dormisse, come si cibasse, come eludesse la
voracità delle fiere marine; ma questa curiosità resterà sempre
insoddisfatta perchè egli non parlò in vita e nessuno ne seppe nulla
dopo la morte.
Tutto questo, come si vede, ha poco da fare con la leggenda in
esame: ma giova a mostrare vigente nel sec. XVII la credenza in uno
straordinario nuotatore, che ha vari punti di contatto con Cola e
che, se potè esistere veramente, ha sempre del soprannaturale in
quanto vive cinque anni come un pesce. Dato che il fatto, secondo la
credenza volgare, fosse accaduto, è innegabile che alcuni elementi
della nostra leggenda e forse di altra anche più antica vi si
fossero mescolati e avessero dato al fatto medesimo il carattere spiccatamente
fantastico e tradizionale che presenta.
Notevole, ancora più che quest'uomo-pesce spagnuolo, è l'uomo-pesce
olandese, di cui con serietà imperturbabile parla De Maillé nella
giornata VI del suo Telliamed.
Nei primi del settecento (pare che con la storia di Liérganes ci sia
una certa continuità) un uomo equino saltò dal mare a bordo del
vascello mercantile Hirondelle, comandato dal cap. Baker, e
gli domandò nella sua lingua una pipa per fumare. Egli era coperto
di squame, ed avea le mani simili alle ale dei pesci. Interrogato
chi fosse, rispose che era olandese, e che essendosi imbarcato
all'età di ott'anni in un vascello e fatto naufragio con tutti gli
altri marinai, era vissuto sempre in mare senza saper come.
Ludovico Vives fa cenno d' un uomo simile, catturato nel mare
d'Olanda, il quale avrebbe cominciato a parlare dopo due anni di
cattività.
D'altro uomo simile scrive Giulio Cesare Scaligero siccome visto
navigando in soccorso dei Rodiotti: e di pesci dal viso umano e
senza voce nel gran fiume Tachnis della Scizia, che sbocca
nell'Oceano glaciale artico, egli stesso; e di altri simili pesci
intese egli a parlare a proposito del fiume Colehan, che attraversa
la città di Cochin nell'India inglese, sulle coste del Malabar.
Tanto nell'uno quanto negli altri uomini marini vi e certamente del maraviglioso e del leggendario; anzi il primo, il gaditano
uomo-pesce di Liérganes, mi sembra non indipendente da quell'uomo-marino
la cui fama giunse a Plinio e che trovò posto nella Storia Naturale di lui.
“Auctores habeo - scrive Plinio - in equestri ordine splendentes, visum ab his in
gaditano Oceano marinum hominem, toto corpore absoluta similitudine:
ascendere navigia nocturnis temporibus,
statimque degravari, quas insederit, partes; et, si diutius
permaneat, etiam mergi”.
Senza giocar di fantasia nel vedere somiglianza tra leggende e
leggende, io credo che delle vere relazioni dirette o indirette
esistano, se non tra le leggende marine fin qui esposte, certo tra i
vari motivi ond'esse risultano.
Si neghi quanto si vuole la medesimezza del tipo, non potrà negarsi la
dipendenza, l'analogia tra Cola Pesce uomo, il Cola bue marino, il
vitulo di Plinio e di Eliano, il pesce-Nicolò di S. Brieux,
l'uomo-pesce di Oradurman ed il pesce-monaco di Rondalet e di
Goffredo da Viterbo; né si avrà per accidentale la ricomparsa del
nome e della figura di Cola Pesce nella Spagna, né si scompagnerà
l'uomo-pesce del Feyjoo dall'uomo pesce del De Maillé,
dall'uomo-pesce del Yives, dagli uomini-pesci dello Scaligero,
dall'uomo-marino di Plinio.
Sia che degradi da uomo in anfibio, o in pesce; sia che compia o no
delle imprese notabili, Cola Pesce rivive nei caratteri essenziali
del bue marino della grotta di Levanzo in Sicilia e di Saint-Cast in
Bretagna, del Monk-Flsh della Norvegia, del Pece Nicolao della
Spagna, del Hombre-pez di Liérganes nel mar di Cadice e degli uomini
pesci d'Olanda, della Scozia e dell'Asia: e tutti fanno capo al
marinus homo pliniano, il quale - si noti per la continuità
della leggenda - fu visto proprio nel mar di Cadice sedici secoli prima che lo dicesse
l'erudito spagnuolo Feyjoo.
La leggenda s' appoggia anche alla iconografia, alle superstizioni,
alla toponomastica, e quindi dà e riceve da esse documento.
Nel quartiere di Porto in Napoli, incastrato nel muro d'una vecchia casa
che forma angolo col vicolo Strettola figurò, ed ora ricomparisce
sulla vecchia casa ricostruita nel medesimo Strettola, un
bassorilievo che rappresenta un uomo velloso, quasi belva, con un
lungo pugnale nudo nella mano sinistra. Questa immagine sarebbe
stata trovata probabilmente ai tempi di Carlo d'Angiò, cavandosi le
fondamenta dell'edilizio che dovea servir di Seggio pei Nobili di
Porto, compiuto il quale fu attaccato al muro, dal lato sinistro.
Pare che il popolo la chiamasse allora “l'uomo selvaggio”, ma
più tardi la chiamò Niccolò Pesce, nome che conserva sempre a quella
strana figura, che solo nel 1592 Giulio Cesare Capaccio, nel suo
libro delle Imprese (cap. XII, 1. II) identificò con un
Orione. E di Niccolò Pesce quel popolino racconta la leggenda dianzi
esaminata, localizzandola in Napoli, fin nell'esplorazione delle basi del
Castel dell'Uovo e qualche volta anche restituendo alla Sicilia lo strano protagonista.
"Quello, diceva un vecchio napoletano additando il bassorilievo, è il
Pesce Niccolò, che fuje n'ommo che pe 'na jastemme che le mandaie la
matre, addeventaje pesce e se perdette dinto il Faro de Messina, e
se chiamma il Pesce Niccolò”
È curioso che un bassorilievo simile a questo di Napoli si veda
inquartato in uno stemma gentilizio dentro l'atrio del Palazzo
Pantelleria in Palermo. Prima che la mia attenzione si fissasse sul
Niccolò Pesce di Napoli, questa figura mi era nota per quella di
Pescecola, o di Cola Pesce come mi era stato detto più volte. Io non
so che relazione possano avere i due nomi e le due qualificazioni di
Napoli e di Palermo; dico però che la somiglianza tra i due
bassorilievi è sommaria, ma manca nei particolari; perchè il nostro
Pescecola ha un ramo d'albero alla mano destra appoggiato alla
spalla del medesimo lato, e lo scudo con lo stemma alla sinistra, ed
il Niccolò Pesce di Napoli ha un pugnale alla destra.
Abbiamo qui un esempio di più di adattamenti popolari di leggende e
nomi antichi a edifici, statue e monumenti d'ogni genere, formati
dopo le leggende e i nomi; adattamenti che in Palermo ci offrono le
leggende della Croce dei Vespri in Piazza Valguarnera, della statua
del Palermo in Piazza Fieravecchia, della statua del giovane
principe detto il Re Picciriddu nel Palazzo Platamone in via
S. Cecilia, della Discesa dei Giudici, della statua di Carlo V° in
Piazza Bologni, della Pietra Galera all'Acquasanta e di altri siti,
edifici e case popolari.
Nella contrada Giallonardo in Siculiana, sotto la torre delle
Pergole, è una casetta a pianterreno, a forma di capanna svizzera,
nella cui facciata è raffigurato con cocci piccolissimi di tegole
attaccati alla calce ed alla sabbia Cola Pesce, la metà superiore
del corpo uomo, con le dita delle mani unite da pelle cartilaginea;
la metà inferiore, pesce squamoso. Negli stabilimenti di bagni che si alzano ogni anno lungo la marina
di Messina, uno va tradizionalmente col nome di Cola Pesce.
Quattordici anni fa, nel "Maneggio di Marionette", della medesima
città (Dicembre 1890) furono ripetutamente rappresentate Le gesta di
Niccolò Pesce nel Faro di Messina, come pur si fa in teatrini
popolari simili di Napoli.
Un'affabulazione, come la direbbe Quintiliano, della provincia di
Palermo, e specialmente del Parco, dice che
lu Piscicola firria,
firria; poi ‘nta lu Galofaru di Missina s’anniò, (il Pescecola
gira, gira; poi annegò nel Garofalo di Messina), ed equivale al modo
proverbiale: Tanto gira la farfalla intorno al lume che vi s'abbrucia. Secondo una tradizione palermitana, quando i bambini vogliono uscir
di casa ad ore insolite o sconvenienti, si fa loro paura col motto:
Veni lu Piscicola, come a dire: Veni lu Grecu Livanti
(Palermo), Veni Vóta-casacchi (Palermo), Veni Para-saccu
(Messina), Veni lu babbau, o lu lupu! Ed ecco alla distanza di sei secoli ripetuta in Sicilia una formola
paurosa comunissima in Bologna ai tempi di Francesco Pipino; il
quale ci dà a conoscere che quando era fanciullo le mamme bolognesi
facevano star buoni i bambini solo nominando Nicola. Questa particolarità con altre non poche ci porta ad affermare in
una maniera sicura ed assoluta la popolarità e diffusione del
racconto nella Penisola italiana, oltre che in Sicilia. Se un minuto
esame comparativo mi fosse consentito, io verrei fino alla evidenza
dimostrando come quel che fa scritto da molti del medio evo concordi
pienamente con ciò che il popolino racconta ai dì nostri, senza che
esso abbia avuto contezza della leggenda stampata e molto meno della
scritta, la quale fino agli stessi uomini di lettere è rimasta quasi
ignota in Sicilia. Ma la identità del racconto letterario e del
popolare salta agli occhi di tutti, quando si pensi all'insieme ed
ai particolari del racconto, che l'intelligente lettore potrà vedere
da sé.
Un punto solo resta a chiarire ed a provare: la tradizionalità del
poetico racconto di Gioviano Pantano da me intraveduta ed affermata
nel 1° capitolo del presente lavoro; ma su di esso tornerò nel cap. IV, per riassumere il già
esposto e dire, secondo il mio debole intendimento, delle fonti e
della formazione della leggenda di Cola Pesce.
Giuseppe Pitré
Studi di Leggende Popolari in Sicilia
Torino - Carlo Clausen
1904
www.colapisci.it
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