La leggenda di
Niccolò Pesce
Quando, passando pel vicolo di
Mezzocannone s'entra nel quartiere di Porto, si vede, incastrato nel muro d' una
vecchia casa, un bassorilievo, che rappresenta un uomo velloso, quasi belva, con
un lungo pugnale nudo nella mano sinistra. E' il ritratto di
Niccolò Pesce, dice il popolo. E chi era
Niccolò Pesce?
«Niccolò Pesce era un mirabile uomo, che viveva nei tempi antichi alla Corte
di un Re di Napoli , e avea la virtù di partecipare della natura dei pesci, e
perciò si chiamava Niccolò Pesce. Poteva starsene lunghe ore e lunghi giorni nel
fondo del mare, senza bisogno di respirare, come se si trovasse nel suo proprio
elemento. Il re se ne servì più volte per cavarsi varie voglie, di vario genere:
una volta per esempio, volle sapere com'é fatto il fondo del mare, e Niccolò
Pesce, dopo averlo ben visitato, gli seppe dire che é tutto formato di giardini
di corallo, che l'arena è cosparsa di pietre preziose, che qua e là s'incontrano
mucchi di tesori, armi, scheletri umani, navi sommerse ecc. Un'altra volta gli
ordinò di indagare come l'isola di Sicilia si regga pel mare, e Niccolò Pesce
gli disse che la Sicilia poggia su tre immense colonne, e la terza é spezzata.
Un'altra volta ancora lo fece scendere nelle misteriose grotte di Castel
dell'uovo, e Niccolò Pesce ricomparve con le due mani cariche delle gemme, che
v'avea raccolte; e così via.
Viaggiava in questo modo: si gettava nel mare, si faceva ingoiare, intero
intero, da qualcuno degli enormi pesci, che incontrava, e, nel ventre di esso,
percorreva, in poco tempo , straordinarie distanze. Quando voleva venir fuori,
con un coltello (il coltello, che, anche nel bassorilievo, gli è messo in mano )
tagliava il ventre del pesce, e, libero e franco, faceva le sue ricerche, Volle
un giorno il Re sperimentare fino a che punto proprio potesse giungere della
profondità del mare: lanciò una palla di cannone, e gli disse di riportargliela.
Maestà, rispose Niccolò Pesce, io mi perderò, io non tornerò più; ma, se così
volete, farò la prova.
Il re insistette. Niccolò si slanciò allora nello onde: corse, corse senza posa
dietro la palla, e a un tratto gli riuscì di raggiungerla: ma, nel sollevare il
capo, si vide disopra le acque, che lo coprivano come un marmo sepolcrale, e
s'accorse di trovarsi in uno spazio vuoto, tranquillo, silenzioso, senz'acqua.
In vano tentò di riafferrare le onde, e di riattaccare il nuoto. Restò lì
chiuso, e lì morì»
Così più o meno, e con maggiore o
minore varietà nella descrizione delle cose trovate o viste da Niccolò Pesce, la
leggenda si racconta; e merita la spesa, mi sembra, tanto e curiosa,
d'illustrarla un poco.
Prima di tutto, quell' immagine scolpita nel sedile del porto non ha nulla a che
fare con la leggenda stessa. Il connubio tra leggenda e immagine s'é conchiuso
in tempi relativamente molto recenti. Quell'immagine, secondo una vecchia
tradizione, che non c'è ragione di mettere in dubbio, anzi c'e ragione di creder
vera, fu trovata nel cavare i fondamenti dell'edifizio, che doveva servir di
Seggio pei Nobili di Porto; compiuto l'edifizio, seguendo un lodevole uso allora
in voga, fu incastrata nel muro, a mano sinistra. I nobili di Porto la presero
per loro insegna. Ciò avvenne probabilmente ai tempi di Carlo I d'Angiò, sotto
il quale si vuole che quel seggio fosse fondato; o le
armi angioine, un leone o cinque gigli, che vi si vedono in cima, sembrano
attestarlo. Per un pezzo nessuno si diè la briga di cercare ciò che quella
figura potesse essere.
Il popolo la chiamava «un uomo selvaggio», denominazione, che gli era
spontaneamente suggerita dalla semplice vista della cosa rappresentata.
Solo nel 1592 Giulio Cesare Capaccio pubblicando il suo libro delle Imprese,
nel capo XII del L. II, riferì l'opinione di un suo amico, che quella fosse un
Orione, deità tutelare dei marinai, e vi aggiunse di suo parecchie prove:
«Meco ragionando con Giovan Battista Rota, Cavaliere del purgatissimo ingegno
dell'impresa che fa il seggio si Porto dell'uomo selvaggio con il pugnale in
mano, benché altri non hanno saputo dare contezza.... mi piacque l'opinion sua,
che fusse l'Orione armato, si per esser quello Dio dei marinari, e già quel
luogo era tempo di pirati, si perché la statua dimostra un geroglifico
dell'acque cadenti, e delle piogge di quella stella, significata in quei lunghi
peli, come anche significarono i raggi del sole nella lunga barba di Pane, dio
dei pastori».
In seguito, nel 1631, nel suo prezioso Forestiero, ripeté la
stessa opinione, e la ribadì con nuove prove.
Il Forestiero domanda:
«Nel seggio di Porto, ho veduto, passando di là, una immagine di mezzo rilievo
in un marmo posto in alto attaccata ad un muro. E dimandai pure ad alcuni che
ivi sedeano, che cosa quell'immagine significar volesse. Mi fu risposto che era
un uomo selvaggio; non badai ad altro.
Ed il Cittadino, che fa da Cicerone, risponde:
- Quella è una delle curiose antichità, che stanno in Napoli - e dopo
aver ripetuto presso a poco ciò che sta detto nel libro
delle Imprese, conchiude:
- A questa deità (Orione) consacrarono i napoletani un tempio in quel luogo,
ove in quel tempo era il Porto, e tutto il convicino, Piazza di Porto, che
correttamente dicono piazza dell'Olmo, volendo dire Piazza dell'Ormo, che tanto
è quanto Piazza di Porto, il quale in greco idioma si dimanda Ormo. Si ché per
la salvezza delle navi, per comodo della marmaresca, e per adorazione dei numi
marittimi ad Orione dedicarono il suo tempio rappresentandolo coi suoi
principali geroglifici, che sono i peli nei quali significarono le piogge
cadenti dall'aria. e la spada che dinotava la crudeltà e il furono di quello,
onde disse il Petrarca: Vidi le stelle ed Orione armato»
Gli altri eruditi, venuti dopo, si contentarono tutti di riferire ciò, che
riferiva il popolino, che fosse un uomo selvaggio, e ciò che congetturò il
Capaccio (senza nominarlo però mai) che fosse Orione. Così il Sarnelli, il
Celano, il Parrino. Nessun di essi fa menzione mai del fatto che il popolo lo
avesse intitolato Niccolò Pesce. Il Celano anzi accenna ad altra favola, e dice:
- Altri vogliono che questo seggio faccia quest'impresa, perché in questo
luogo comparve un huomo marino di questa forma, ma questo sa di favola
Questi scrittori scrivevan tutti sul finir del seicento.
La presente tradizione si trova citata per la prima volta nella descrizione di
Napoli del Sigismondo:
- Il volgo crede che questa sia l'immagine di Niccolò Pesce napoletano,
celeberrimo nuotatore e marinaio.
La descrizione di Napoli del Sigismondo fu stampata nel 1788 e tutto fa
credere non prima del secolo scorso il popolo applicasse al voluto
Orione il nome di Niccolò Pesce
Le navi di Porto trasportarono nel 1742 il loro seggio ad Ospedaletto, e in
quella occasione credetter bene di mettere sotto l'antico loro stemma
la seguente inserzione, che ancora vi si legge, e nella quale il fatto di
ritrovamento di quel marmo in quel posto ricordato:
Curia Nobilium de Portu
heic ubi olim navium statio fuerat
fundata
inventoque in effossionibus Orionis signo
distincta
nunc sede in elegantiorem urbis Regionem
translata
ne converso in privates usus loco
longaeva vetustate facti fama aboleretur
aeternum apud seros nepotes testem
hunc lapidem esse
voluit Anno Aerae Christ. MDCCXLII.
La leggenda, però, era diffusa già da un pezzo , e se ne trovan notizie nel
seicento, nel cinquecento, nel trecento , nel dugento. Diciamolo subito: essa ha
un nucleo storico, e un breve esame, che faremo degli scrittori che ne parlano,
ci farà seguire in gran parte la graduale trasformazione della storia in
leggenda.
Fra Salirnbene da Parma (1225-1290?) nella sua importantissima Cronaca,
pubblicata per la prima volta nel 1857, giunto all'anno 1250, parlando della
morte dell' Imperator Federico II di Svevia, fa, quasi come un elogio funebre di
lui guelfo arrabbiato a quel gran Ghibellino, una rassegna di un buon numero
delle sue follie, pazzie , bricconerie, o, come dice con una sola parola
intraducibile, nel suo latino medioevale, della superstitiones di
Federico.
Primo, fece una volta tagliare il pollice a un suo segretario, perché aveva
scritto Fredericus e non Fridericus, com'ei voleva.
Secondo, fece allevare alcuni bambini, proibendo alle balie, quando li
assistevano, di parlare, per vedere poi che lingua sarebbe loro venuta
spontaneamente in bocca, se l'ebraica, o qualche altra.
Terzo, quando vide la Terra Santa disse che Dio non doveva certo conoscere i
suoi regni, Calabria, Puglia, Sicilia, Terra di Lavoro, che non avrebbe allora
tanto lodato quella sua brutta terra promessa.
Quarto, (e qui viene il caso nostro), quarta ejus superstitio fuit, «che
più volte mandò un certo Nicola contro sua voglia nel fondo del mare, e costui
più volte tornò; e volendo Federico più chiaro conoscere se davvero scendesse
fino al fondo, o no, gittò una coppa d'oro, dove credeva che più il mare fosse
profondo , e Niccola, scendendo la trovò, e gliela riportò. E volendolo allora
mandar di nuovo, Niccola gli disse:
- Non mi ci mandate, perché, se mi manderete, io Più non ritornerò
Tuttavia, volle mandarlo, ed ei non torno più, e là perì, perché nel fondo
vi sono scogli e molte navi sconquassate, com'egli stesso riferiva. E ben
poteva costui dire a Federico ciò che si ha di Giona, II: Mi gittasti nel
fondo, ecc. ecc.
Questo Niccola fu siciliano; e una volta gravemente offese e irritò sua
madre, che gli dié per maledizione, che sempre abiterebbe nelle acque, o di rado
comparirebbe in terra; o così gli avvenne»
Fra Salimbene era contemporaneo; attinse questo fatto dalla viva voce di
testimonii o di quasi testimonii, e da quel galantuomo ch'egli è, non dimentica
di farci sapere che glielo raccontò:
«Le cose suddette udii cento e cento volte dai frati di Messina, che furono
miei grandi amici. Io ebbi anche nell'Ordine dei Minori un mio fratello
consanguineo, Giacomo de Cassio, Parrnense, che abitava nella città di Messina,
e queste cose mi riferì».
Più ancora di queste testimonianze ch'egli invoca, e che noi volentieri gli
crediamo, perché Fra Salimbene é veridico scrittore, vale il carattere
perfettamente storico del suo racconto. Qui non c'e nulla dl miracoloso; c'é
anzi molto di umano.
- Niccola era un valente palombaro - fece contro sua voglia dei tentativi di
escursione nel fondo del mare - ritrovò una coppa, che l' imperatore
aveva gittato - conscio del pericolo corso nel suo primo ardimento, non volea
rinnovar la prova - e, rinnovatala, perì. -
Che c'e di strano o d'inverosimile? Sono cose che possono capitare
benissimo, e il contro voglia, e il dubbio, e la paura, è
tutta roba, come dicevo, niente miracolosa, e molto umana, Ne l'effetto mirabile
(e per noi un po' incredibile) della maledizione materna può dar sospetto, chi
conosca l'indole del cronista. Un uomo che afferma, per esempio, d'aver visto
coi proprii occhi la Madonna, San Giuseppe e il Bambino, passeggiar per Parma, o
parlargli in sogno, poteva tanto più illudersi e credere a un legame religioso
fra due cose, che non ne hanno alcuno. Ma il fatto per se, pel modo com'é
raccontato, senza intenzione di destar meraviglia, e per lo sue modeste
proporzioni, e indubitatamente storico.
L'alterazione in leggenda cominciò più tardi.
Frate Pipino, bolognese, che fioriva intorno il 1320, nome non ignoto, e che il
Tiraboschi annovera tra i viaggiatori italiani di quel tempo, nella sua cronaca
pubblicata dal Muratori, nel Tomo IX della Gran Collezione, ha un capitoletto
intitolato : De Nicolao Pisce.
Dopo aver parlato precedentemente di alcuni fatti successi intorno il 1239,
racconta:
«Nacque in questo tempo nel Regno di Sicilia Niccolò Pesce. Costui, da
fanciullo si dilettava d'esser sempre nelle acque, e sua madre , di ciò irritata
, gli chiamò sul capo una maledizione, che, cioè, si diletterebbe d'esser sempre
nelle acque, e mai fuor d'esse non potrebbe vivere. E così avvenne : d' allora
in poi visse sempre come pesce nelle acque, e a lungo non poteva star fuori
delle acque. Compariva ai naviganti, e si tratteneva con esso sulle navi,
predicendo le tempeste, e raccontando i segreti visti nel fondo del mare, Disse
che l'anguilla e il più gran pesce, e che fra Sicilia e Calabria c'e un
profondissimo mare. L'Imperator Federico ebbe con lui discorso, e gittata una
coppa d' argento nel mare, lo eccitò a scender giù e a riportargliela. Ma quello
disse:
- Se scenderò giù, più non ritornerò.
Promise tuttavia di fare l'esperimento, e, disceso, più non comparve a
occhio umano.
Io ricordo che, quando era fanciullo, udii spesso le madri per intimorire i
bambini che vagivano ricordare loro Niccolò Pesce.»
Questi sono presso a poco gli stessi fatti di Fra Salimbene: ma l'ordine e
il modo, in cui son raccontati, accennano alla leggenda in formazione. Quel che
per Salimbene era Nicolaus quidam, qui è divenuto Nicolaus Piscis;
la maledizione della madre, che era un incidente per Salimbene, qui passa
in prima linea, ed è la causa da cui tutto il resto dipende; s'esagera il suo
starsene del continuo nel mare; si cominciano a descrivere le meraviglie, che
avea visto, ciò che in seguito diventa il pezzo di resistenza della
leggenda; il ricordo infine, che servisse per spauracchio ai bambini è prova
sicura che correva, chissà in che strano modo trasformata, per la bocca del
volgo.
Altre notizie che del resto ci saranno di sicuro, non m'è riuscito di trovare
fino, al cinquecento.
Una prova certa della persistenza e dell'incremento della leggenda in questo
tempo si può vedere nelle seguenti parole, che si leggono a carte 10 della
Siracusa pescatoria di Paolo Regio (1545-1607), Napoli appresso Giò. de
Bay MDLXVIII, e delle quali son debitore alla cortesia del chiaro Prof.
Vittorio Imbriani:
«Certo questo vince tutto quello che si disse un tempo del pesce Nicolao nella
famosa Sicilia».
L'autore accenna evidentemente alla tradizione popolare. E si noti che il
Nicolaus Piscis di Fra Pipino, è ora il Pesce Nicolao: prima il pesce, e poi
Nicolao. Mutazione nel l'ordine di due parole, che importa, nientemeno la
mutazione di un uomo in un pesce!
Nel 1608 fu stampato in Barcellona il seguente opuscolo, che é citato dagli
autori del supplemento a Brunet, e che io desidererei (oh quanto! ) di aver
letto, se, a bella prima, la nota che nel succitato catalogo vi è apposta non me
ne avesse tolta ogni speranza.: Pieces d'une tres grande rareté.
Fortunatamente il titolo, che come titolo è pessimo, perché è lunghissimo,
qui m'aiuta in qualche modo, e mi rende meno duro l'atto di rassegnazione che ho
dovuto fare:
Relacion de como Pece Nicolao se ha parecido de nueco en el rnar, y hablò
con muchos marineros en deferentes partes, y de las qrandes maravillas que le
contò de secretos importantes a la naveqacion. Este pece Nicolao es medio hombre
y medio pcscado cuja figura es esta que aqui va retratada .... En Barcelona por
Sebastian de Cormellos al Call, Año de 1608. Vedense en la mesma emprenta in 4
de 4 ff. fig, s. b. segn. A
Gli spagnuoli che allora stavano in casa nostra, evidentemente la preser da
noi, e la trapiantarono nel loro paese. Il titolo e la descrizione
bibliografica, che abbiamo di questo opuscolo, fa credere che fosse uno di quei
libriccini popolari, come se ne stampano ancora, o che ognuno ricorderà d'aver
visti tante volte su pei muricciuoli. Forse il nome di Niccolò Pesce, qui
serviva più che altro da tema per sfoggiar notizie sull'arte della navigazione.
Il racconto però, che si trova stampato in tutti gli scrittori di cose
napoletane, che non potevano far di proposito ricerche, come fo io, su la fonte
primitiva della leggenda, è tolto da un libro del Padre Kircher, intitolato
Mundus subterrameus.
In quest' opera, dove son raccolte e date per vere quanto superstizioni sono
mai nate nella testa dell'uomo prima o dopo l'incarnazione di Cristo, nel L. II.
C. 15. come prova dell'ineguaglianza del fondo del mare, si riferisce la storia
di Niccolò Pesce, e occupa lo spazio nientemeno di tre colonne in folio.
Il Kircher (che è poi il fondatore del Museo Kircheriano) afferma d'averla
saputa dal segretario dell'archivio tal quale si legge negli atti Regii,
Prout in Actis Regiis descripta fuit a Secretario Archivi mihi comunicatam.
Ma è una bugia: sua o del segretario, non saprei.
Prima di tutto, negli Atti Regii non si registrano di queste cose: poi, se fosse
stata tolta dagli Atti Regii non si registrano di queste cose: poi se fosse
stata tolta dagòo Atti Regii non c'era bisogno di quei si dice e si
narra (dicunt, narratur), che tratto tratto gli scappano dalla penna;
infine, non l'ha tolta dagli Atti regii, perché chi considera con un po' di
malizia la sua narrazione, s'accorge subito che egli non ha fatto altro se non
assumere come stoffa, la tradizione popolare, e sottometterla una elaborazione
letteraria. Un'elaborazione, che ne ha fatto sparire il troppo strano, ha
attenuato certe tinte, ha reso logico con qualche aggiunta ciò che sarebbe
sembrato illogico, e ha svolto quelle parti più convenienti al fine scientifico
(dico scientifico per intenderci), che il Kircher si proponeva. lnfatti il suo
racconto, ad abbreviarlo, è questo:
«Vi fu in Sicilia ai tempi dell'Imperador Federico un famosissimo palombaro (urinator),
che per la gran perizia nel nuoto dal volgo era chiamato Pesce cola, cioé
Niccolò Pesce.
Abituato da fanciullo al mare, e essendo tra i più, eccellenti nel nuoto,
sosteneva la vita col raccogliere ostriche e coralli e simili cose in fondo al
mare. Restava nelle acque per questo suo commercio quattro o cinque giorni,
nutrendosi di pesi crudi. Andava e tornava, di Sicilia in Calabria come
portalettere. Spesso penetrò, nuotando, tra le isole Lipari. Fu varie volte
scontrato dai naviganti nel mezzo del mare procelloso, simile a un mostro,
all'aspetto.
Ricevuto sulla nave, e domandatogli dove andasse , mostrò le lettere, che
portava in una borsa ad armacollo, impenetrabile all'acqua.
Dopo aver ben mangiato, salutò i naviganti, e si gittò di nuovo nel mare,
Dicono che diventasse quasi un anfibio: gli nacque tra le dita una cartilagine,
come l'hanno i paperi, adatta al nuoto; e il polmone si conformò in modo che si
riempiva di tant'aria da bastargli tutta una giornata.
Federico venuto a Messina, volle vederlo, e fece l'esperimento della coppa
d'oro. Restò nel mare circa tre quarti d'ora (tres horae quadrantes, e non tre
ore, come dice, intendendo male il latino, il Dott. Sigismondo), e poi a un
tratto lo si vide comparire che agitava con una mano la coppa, che aveva
ritrovata.
Fu ricevuto nel palazzo reale, e dopo essersi riposato, e dopo aver mangiato,
lauto prandio refocillatus , condotto alla presenza del Re, gli tenne questo
discorso. ... »
Ma il discorso è troppo lungo, e quantunque scritto in latino non mediocre,
io non posso in nessun modo riferirlo e debbo contentarmi di accennarlo appena:
«O re clementissimo, gli disse, Clementissime rex, se io avessi saputo
dapprima quel che avrei visto, per la metà del tuo imperio non sarei disceso
laggiù ...
Sappi che ci son quattro cose lì impenetrabili, non dico io ai palombari come
me, ma agli stessi pesci.
Primo, l'impeto di un fiume, che violentemente sorge dalle profonde voragini del
mare.
Secondo, gran moltitudine di scogli, che intricano la via...
Terzo, gli Euripi, cioè il flusso e riflusso dell' acque dell'interno del
mare...
Quarto, gran quantità d'immensi polipi, che attaccati agli scogli, coi lunghi
cirri stesi, mi faceano orrore; e ce n'era a guardar solo la polpa del corpo,
corporis pulpam, qualcuno maggiore d'un uomo. Se mi avessero stretto, guai a me
»
Interrogato poi come avesse trovato la coppa, rispose che la coppa pel veemente
flusso e riflusso, era stata gittata nella cavità d'uno scoglio. Dimandatogli se
si sentiva l'animo di rinnovar la prova, rispose che no.
Ma Federico gittò nel mare un sacchetto di monete, e lui, per avidità,
acconsentì a cercar di prenderlo, e si mise nel mare, e più non comparve.
La fine e press'a poco simile a quella delle altre versioni, ma non alla
vivente tradizione popolare , così come sul principio l'ho riferita. E il
perché è chiaro.
Il popolo aveva il bisogno fantastico di colmare l'ignoto, che seguirebbe la
sparizione di Niccolò Pesce: e il padre Kircher invece non poteva colmarlo,
senza dar nell'assurdissimo, e da quel bravo scienziato ch'egli era, a
tanto non voleva giungere, e si contentava del solo assurdo!!
Niccolò Pesce fu preso a tema di un dramma dal celebre barone Cosenza, e di un
episodio di un suo romanzo da Carlo Tito Dalbono
Il dramma del barone Cosenza «rappresentato la prima volta in Napoli dalla
Real Compagnia Fabbrichesi nel teatro Fiorentini, la sera del 23 ottobre 1818
» è, s'intende bruttissimo.
Il Cosenza, seguendo uno sbaglio del Sigismondo e di altri, pone il fatto ai
tempi di Aragona e non di Federigo di Svevia.
«Alla singolarità. di quest' uomo riunendo l'alleanza seguita al 19 agosto
1302 tra l'anzidetto re ( Federico d' Aragona) e Carlo II re di Napoli ne
formai la mia favola».
Lo scopo poi lasciamoglielo dire a lui stesso:
«Scopo ne fu di mostrare un uomo che più volte avventura la sua vita per la
sua gloria, e per salvare il proprio onore : meta del come i traditori di
questo sacro nome vengono avvolti e distrutti dal tradimento istesso.
- Onore! Fosti tu dall'antichità personificato in bronzo, in marmo? Perché ti
credette ognuno insito nel cuore dell'uomo!! ma fatalmente nella società!!! agli
antipodi dell'onore sembra insipida questa mia commedia»
E tutto questo a proposito di Niccolò Pesce! Pare impossibile
- Messina è assediata dai Veneziani. Il Governatore Rainulfo, che Re Federigo
d'Aragona v'aveva messo un traditore, che se la intendeva coi nemici. Niccolò
Pesce, eroe patriottico, fa tutto il possibile per isventar le occulte trame di
costui. Ma è accusato proprio lui, perfidamente, di segrete intelligenze coi
Veneziani, e condannato a morte, e solo colla sua abilitä nel nuoto riesce a
scampare. Dopo mille pasticci, finalmente tutto si risolve pel meglio: Rainulfo
è ucciso dalla moglie di Niccolò Pesce e Niccolò Pesce salva la patria.
Finisce così: Niccolò con sommo entusiasmo sempre crescendo: Per la salvezza
dei miei concittadini mi rispettaron gli elementi in furore. Ruggiero dell'Oria,
cui qiunse nuova del blocco erasi di già per qui incaminato: sopra agile legno:
io solo a voga insieme precedetti la flotta, l'armata nemica salpa l'ancora e
fugge: ed io mercé al Fattor dell'Universo giungo a tempo onde serbar Messina a
Federico, la patria ai miei concittadini, l'onore a tremenda memoria degli
scellerati.
- Voci: viva Niccolò Pesce.
- Tutti: viva.
L'episodio del Dalbono sta in uno dei racconti del suo
libro Vizii e virtù d'illustri famiqlie; ed è così infelice, che io, che
stimo tanto quell'uomo benemerito delle cose nostre, credo conveniente di far la
parte di Sem e Iafet, e di non parlarne!
Benedetto Croce
Roma, giugno 1885.
Per non tempestare di note: ad ogni periodo, questo articolo, metto qui in
fondo tutte le citazioni e gli avvertimenti, che mi bisogna fare.
- P. Sarnelli. Nova guida de' Forestieri. In Napoli 1772 P. 35. La 1a
ediz. è del 1685
- Parrino. Nova guida dei Forestieri. Napoli 1714! P. 113. La 1a
ediz. che io conosca, è del 1700
- Summonte. Storia della città. e Regno di Napoli. P. 1. Napoli 1602 P. 208
- C. Tutini, nella sua pessima opera: Dell' Orig. e fondat. dei Seggi di Napoli.
Napoli 1644. P. 52
- G. Sigismondo, Descrizione delta città di Napoli e suoi borghi. Napoli presso
i Fratelli Torres. 1788 Vol. II P. 193.
- G. C. Capaccio. Delle Imprese in tre libri diviso. Napoli app. G. C. Carlino
1582 L. II. P. 26
- G. C. Capaccio. Il Forestiere Dialogi. Napoli 1631. P. 86-8
- Nel libro: Dell'antichità di Napoli di F. Luigi Contarino stampato da Giuseppe
Cacchii in Napoli 1579 non si parla né di Orione, né di Niccolò Pesce, né
dell'uomo selvaggio
- Celano. Delle notizie del bello, dell'antico e del curioso della Città di
Napoli. In Napoli 1691 Giorn. IV. P. 57
- C.T. Dalbono Guida di Napoli e dintorni. 6a
ed. Napoli 1871. P. 258, 294
- Chronica F. Salirnbene Parmensis Ordinis Minorum ex Codice Bibliothecae
Vaticanae nunc primum edita. Parmae 1857 P. 168· 169
- Chronicon Fratris Pipini Bononiensis ab anno 1176 ad aD num circiter 1313 in
Rev. Ital. Scriptor. Tomo IX. Co-. 69
- Supplemento al Manuel du libraire del Brunet. Paris 1880. Vol. 2° P. 23.
- Athanasii Kircherii Mndus subterraneus in XII libros digestus Quo divinum
subterrestris mundi opificium ecc. ecc.Amstelodami (? Amsterdam) Apud loannem
Tanssonium 167878. L. II. C.. X V. Vol. 1° P. 87.
- Niccolò Pesce- Commedia in quattro atti del Barone Gio. Carlo Cosenza. Napoli
Dalla Stamperia Francese 1826. Pag. 78 1num.
- Carlo Tito Dalbono, Vizii e virtù d'illustri famiglie Napoletane Tipogr.
dell'lndustria, 1871 P. 204-207
- Strano che i cronisti e gli storici Siciliani , da me riscontrali, non ne
parlino punto. Oltre Le cronache stamp. dal Muratori (R.l.S.) io ho riscontrato
la collezione. «Bibliotheca historica Regni Siciliae ecc. ecc. Amplissima
Collectio Opera et studio brevibusque annotationibus J. B. Carusii, Panormi
1723. 2 vol. in folio».
E ho riscontrato anche la voluminosa storia di Sicilia, o , meglio «Memorie
istoriche di quanto è accaduto in Sicilia dal tempo dei suoi primi abitatori
sino alla Coronazione del del Re Vittorio Amedeo, ecc. » dello stesso G.B.
Caruso barone di Xiureni. 6 vol. in 4a grande. Palermo 1742-1745.
Dell'avermi indicato alcuni dei libri succitati son debitore al signor Giuseppe
Ferrarelli , al quale qui rendo grazie. La vivente versione popolare, riferita
in principio, l'ho trascritta, senza nulla alterare, da una comunicazione
fattami da un mio amico.
www.colapisci.it
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