Nini Ravazza
Sogni
e Miti
Ma cos'é che spinge un uomo a scegliere una
vita fatta sì di liberta', ma anche di duro lavoro, di terribili levatacce
all'alba, di immersioni nell'acqua gelida della primavera, di pericoli
mortali e di immani fatiche fisiche, senza mai la certezza del domani?
Perché si insegue l'oro rosso, sapendo che difficilmente da esso
proverranno ricchezza e fama? Tralasciando in questa sede le
citazioni più o meno dotte sul fascino che le profondità marine hanno
sempre esercitato presso gli uomini, basti pensare alla leggenda di
Cola
Pesce, che sia pure sotto forme diverse è diffusa praticamente in tutti i
Paesi lambiti dal mare.
La ritroviamo con alcune varianti già nel 1190 in
Walter Mapes, che sarebbe divenuto canonico di Salisbury, e sembra che
l'autore inglese l'avesse appresa in Italia. Cola è un uomo che
abbandona la sua condizione "terrestre" per vivere nel mare, di cui
conosce i segreti, ma anche i pericoli; è mezzo uomo e mezzo pesce, ma a
differenza delle sirene la sua parte - come dire? - "marina" non sta nella
coda o nelle squame, bensì nel suo adattarsi ad un elemento diverso da
quello naturale.
Anzi, di avere scelto quell'elemento quale "suo". E' il
suo cuore ad essere di pesce, non il corpo. Con la terraferma Cola ha
pochi rapporti - secondo alcune varianti della leggenda addirittura
nessuno - ma continua ad essere amico degli uomini, sia che vada incontro
alle navi dirette in porto, sia che obbedisca agli ordini di un re che gli
intima di raccontare su cosa poggi l'isola di Sicilia o di recuperare una
tazza o un anello d'oro gettati sul fondo. Cola sa benissimo che
l'ultima immersione può essergli fatale - e infatti non riemergerà più -
ma si tuffa lo stesso per riportare in superficie il tesoro.
E' il pegno
da pagare per quella sua scelta di vita.
L'oro, il tesoro, sono sempre
stati in relazione con i pesci e con il mare: lo sono nei miti orientali,
li ritroviamo nelle tradizioni greche quando Teseo si tuffa in fondo al
mare per recuperare un anello ed una corona d'oro e dimostrare di essere
figlio di Poseidone, nell'Edda (romanzo epico islandese del XII secolo) un
nano sotto forma di luccio vigila sull'oro in fondo al mare. E cosa
cerca a 60/70/100 metri di profondità il corallaro, l'uomo che ha scelto
di giocarsi la vita ed il futuro in un elemento che non è più il suo dalla
nascita, da quando ha abbandonato il liquido amniotico che per mesi lo ha
avvolto? La ricchezza? Nessun corallaro che io conosca è divenuto
ricco; se si è bravi e fortunati si guadagna abbastanza, ma spesso si
spende il doppio perché il rischio fa perdere di vista l'immediato futuro.
Ogni immersione potrebbe davvero essere l'ultima. Sono tanti gli amici mai
più riemersi da quell'ultimo tuffo. La gloria? Nessuna fama c'è per chi
lavora laggiù in fondo al mare, da solo, nel silenzio assoluto rotto dal
sibilo dell'erogatore. No, il corallaro cerca ogni giorno il suo
tesoro. Non sa mai cosa troverà su quello scoglio che l'ecoscandaglio gli
ha indicato: ci sarà l'oro rosso inseguito e vagheggiato, o solo gorgonie
senza valore? L'anello d'oro o la roccia nuda?
L'ARCOBALENO IN FONDO AL MARE
E' come seguire un arcobaleno
che si tuffa dove il sole non arriva ed i colori non esistono più; e dove
finisce l'arcobaleno si cerca il tesoro, la pentola d'oro nascosta dagli
Dei del mare.
Non è un caso che la scoperta dei Banchi
coralliferi di Sciacca nella tradizione popolare venne interpretata come
la "truvatura di San Marco". La "truvatura", cioè la scoperta del tesoro
di San Marco (in effetti il Banco era al largo della punta San
Marco).
Io sono convinto che alla fine, lasciando per un attimo da
parte l'aspetto economico, poco importa se il tesoro venga davvero trovato
ai piedi di quell'arcobaleno di speranze: è la ricerca che rende il
corallaro felice, l'alternarsi di illusioni e delusioni che lo rende vivo
e sempre disposto a sfidare i suoi limiti per ottenere di più. E' una
ricerca interiore prima ancora che reale.
Esce in questi giorni nella
sale cinematografiche italiane un bellissimo film di Luc Besson,
"Le grand
bleu", che ripercorre la corsa verso l'abisso del francese Jacques Mayol e
dell'italiano Enzo Maiorca, impegnati in una gara a chi riusciva a
scendere più profondo senza l'ausilio dell'autorespiratore. Entrambi
superarono i 100 metri: il loro anello d'oro lo portavano dentro, non
c'era un vero tesoro in fondo al cavo di discesa. Il premio per ogni
immersione più fonda della precedente era solo il superamento del limite
prima raggiunto. Recentemente Mayol, da tempo ripiegatosi in se stesso, si
è suicidato nella sua casa davanti al mare dell'Elba; il regista Besson,
che ha girato il film 14 anni fa, aveva tragicamente anticipato questo
triste epilogo: nelle scene finali Jacques scompare nel blu abbracciato ad
un delfino, per non più riemergere, proprio come Cola Pesce.
Il mare
inoltre, per chi lo ama, più ancora di qualsiasi altro mondo è capace di
creare e tramandare culture e credenze, leggende e tradizioni, forgiando
gli uomini che ci vivono e regalando loro un afflato comune che al di là
del tempo e dello spazio ne rende simili i comportamenti.
E' come se
ogni uomo divenisse tutt'uno con chi lo ha preceduto e chi lo
seguirà.
......
ATTI DEL CONVEGNO NAZIONALE DI STUDI
"Un fiore dagli abissi: corallo storia, economia, pesca,
leggenda, arte"
San Vito lo Capo e
Trapani 11 - 13 ottobre, 2002.
DA COLA PESCE A MOBY DICK, INSEGUENDO L'ORO ROSSO
di Ninni
Ravazza (giornalista e subacqueo)
www.cosedimare.com
www.colapisci.it
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