Il
ritorno di Cola Pesce
La storia di Cola Pesce è uno dei più
antichi racconti che, da secoli o da millenni, si rinnova da
padre in figlio, in questa terra di Sicilia.
Alcuni autori gli danno natali
relativamente recenti, ritenendolo vissuto nel periodo del Regno
dell'imperatore Federico Il di Svevia. Giovanni Meji è tra
costoro e così s'esprime a proposito di Cola Pesce:
- Conosciutu
è in Sicilia l'anticu nomu di Cola Pisci, anfibiu natu sutta di
lu secunnu Fidiricu. Omu in sustanza ben proporzionatu, pisci
pri l'attributu singulari di stari a funnu cu li pisci in
mari.
Un'ultramillenaria leggenda
pretenderebbe, invece, che Cola Pesce fosse un antichissimo
mito, che risalirebbe addirittura alla caduta di Troia, e che
sarebbe stato padre e marito delle dolcissime, quanto
pericolosissime Sirene.
Sia l'una sia l'altra ipotesi
affermano l'eterno legame simbiotico dell'uomo di Sicilia con il
mare e che irrimediabilmente Cola Pesce rappresenta il
rinnovarsi di questo veritiero rapporto, che è, alla fine, la
conferma della dipendenza della vita dall'acqua, sostanza che
avvolge l'essere umano sin dalla sua concezione, come liquido
amniotico.
Cola Pesce vive nella profondità
delle movimentate acque marine, di Scilla e Cariddi. La
tradizione più consolidata lo vorrebbe un essere mostruoso,
mezzo uomo e mezzo pesce. In altri termini sarebbe una Sirena di
sesso maschile, fornita d'una acuminata e lunga spada piantata
sulla testa.
Tale mostruosa protuberanza non
gli è, invero, comunemente attribuita, così come le pinne
natatorie nella parte inferiore del suo corpo. Spesso, infatti,
è ritenuto un magnifico essere umano, abituato a vivere nelle
acque marine come un pesce.
Il mito della mostruosità di
Cola Pesce resta, comunque, il più diffuso e consolidato.
La leggenda più antica su questo
essere, per volontà popolare, metamorfico, lo vuole capo e
progenitore delle Sirene, che risiedevano nelle acque
prospicienti Messina.
Il canto magico melodiosissimo di
queste dee marine, tra cui eccellevano per bellezza Partenone,
Ligea e Leucosia, ammaliava con le sue incantevoli note i
naviganti che coi loro legni solcavano quelle acque. Cola Pesce
s'addossava il compito d'indirizzare le navi verso gli scogli,
contro cui i miseri marinai finivano per fracassarsi assieme
alle loro imbarcazioni.
I corpi dei naviganti catturati
divenivano pasto immondo delle antropofaghe Sirene. Cola Pesce
sarebbe, quindi, frutto mitologico locale d'origine sicula o
sicana, che, in seguito, subirà l'avvincente abbraccio della
cultura superiore del mondo greco, tramutandosi in Achebo, sposo
di Tersicore, oppure in Melpomene sposo di Forco.
Il mito originario, invece, fa
assomigliare Cola Pesce al gigante Atlante, condannato da Zeus a
portare la volta celeste sulle spalle. Il dio siculo
risiederebbe stabilmente a Capo Peloro, ove sosterrebbe con una
mano uno dei tre angoli di Sicilia.
Un'isola, per i popoli antichi,
era una terra galleggiante, trattenuta nel suo sito da qualche
dio o da giganti. La Trinacria a questo carattere comune
assommava le specificità di più grande isola dell'unico mare
conosciuto e la sua centralità. Queste peculiarità
contribuirono a generare una polposa mitologia, che investiva
ogni luogo, ogni anfratto di questo speciale sito isolano, che
sarà sempre, tra l'altro, punto d'incontro di culture diverse,
tema centrale d'ogni cantore antico, che con fervida fantasia ne
incrementava i misteri, che avvolgevano quella strana e
sconosciuta terra.
Il grande Omero fu uno dei grandi
fautori e diffusori delle leggende che avvolgevano l'Isola.
Alcuni autori, tra cui l'inglese Samuel Butler, affermano che
l'odissea d'Ulisse altro non è che la circumnavigazione della
Sicilia. Anche il pio Enea, per volontà del Sommo Virgilio, non
manca di sostare in più luoghi di questa fatidica terra marina.
Per gli antichi la Trinacria sembrerebbe, quindi, come una meta
preferita d'ogni viaggio, od almeno un sito d'obbligato
passaggio.
La trasportazione di miti e
leggende d'altri popoli quivi è il naturale sbocco di questo
cocente desiderio di conoscenza dell'Isola.
Anche il mito di Atlante, quindi,
per queste ragioni necessita d'essere impiegato qui, ne va di
mezzo la sua stessa eterna validità. La sua rinnovata
sperimentazione isolana serve a rafforzarlo e a renderlo
eternamente credibile nelle menti delle generazioni future.
L'innesto di tale mito con altre
culture non può essere privo di alterazioni, di mutazioni,
senza le quali non resisterebbe, di certo, all'usura del tempo
per mancanza di legittimi interessi della civiltà accettante a
difenderlo. Ed ecco comparire a riconoscimento del mito di
Atlante la leggenda di Cola Pesce, che vuole il gigante
siciliano incaricato da Zeus di sostenere con una mano un angolo
della Sicilia, quello di Capo Peloro. Le scosse telluriche non
sono altro che la conseguenza dell'affaticamento di Cola Pesce
per l'immane fatica sopportata, che lo costringe, di tanto in
tanto, a cambiare la mano di sostegno. E' proprio in quel
momento che la Sicilia traballa, ma per poco tempo, perché
subito dopo il gigante ricrea le condizioni di geo-stabilità.
Cola Pesce è, quindi, la sintesi
di più culture e di più miti: è padre delle terribili Sirene,
secondo l'interferenza greca, ma nel contempo è anche uno dei
punti cardini della resistenza isolana, per volontà popolare.
Risiede a Capo Peloro, come una delle tre colonne che sostiene
l'Isola, ma provvede secondo altra leggenda ad aiutare le figlie
nella cattura dei naviganti. E' a Capo Peloro, ma
contemporaneamente le popolazioni della Sicilia occidentale ne
registrano la presenza nelle loro acque.
Cola Pesce, col tempo, diviene la
chiave d'accesso per penetrare ogni misterioso fenomeno marino,
irrisolvibile.
La mitologia ricorda che soltanto
due uomini resistettero alla seduzione fascinosa del canto
fatale delle Sirene: Orfeo ed Ulisse.
Orfeo, grazie al suono celestiale
della sua lira, più melodioso dello stesso canto delle Sirene,
passò indenne da quelle acque marine assieme agli Argonauti,
guidati da Giasone alla volta della Colchide per la conquista
del vello d'oro tenuto dal re Eeta.
Anche Ulisse superò quella
distesa acquea, infestata dalle Sirene, senza cadere preda di
Cola Pesce e delle sue numerose figlie. L'astuto figlio di
Laerte, smanioso di conoscenza, giunto in prossimità del
terribile Stretto pretese d'ascoltare la voce delle mostruose
dee del mare. Era una esperienza che andava fatta, prendendo
ovviamente i necessari provvedimenti contro l'incombente
pericolo.
Dopo avere comandato, quindi, a
tutta la sua ciurma di tapparsi le orecchie con la cera per non
ascoltare i cori irresistibili delle figlie di Cola Pesce, si
fece legare all'albero della nave, con l'ordine perentorio di
non slegarlo per nessuna ragione, se non dopo che fosse cessato
il pericolo dell'adescamento da parte delle Sirene. E così
avvenne. A nulla valse che il poderoso Cola Pesce spingesse le
prore delle navi dell'Itacese verso gli scogli costieri, perché
la forza dei rematori ed il benevolo Eolo vinsero la resistenza
del mostro.
Ad un tratto un terribile grido
disumano fracassò il canto delle Sirene. Poi, si vide Cola
Pesce uscire fuori dalle acque con tutto il suo corpo ed
inabissarsi nelle profondità marine, scomparendovi. Un'onda
immane s'abbatté contro il naviglio, che soltanto per
l'intervento di qualche pietoso dio dell'Olimpo, evitò di
capovolgersi.
Con Cola Pesce scomparvero anche
le Sirene, che morse dalla fame s'avventarono contro lo stesso
loro genitore. Il mare incominciò a ribollire, la terra
circostante a scuotersi. Cola Pesce resisteva egregiamente
all'assalto delle terribili dee marine. Man mano che infilzava
le sue assalitrici con la lunga spada della sua testa, le
scagliava con indicibile violenza sovrumana contro gli scogli
circostanti.
La terra ritornava a sussultare,
il mare s'ingrossava fino a generare onde altissime che
concludevano la loro spumosa corsa, avventandosi contro gli
scogli e le rocce, posti ai lati dell'esiguo budello di mare.
Quando la battaglia ebbe termine le acque erano di colore rosso
vermiglio del sangue delle Sirene.
Scilla da un lato e Cariddi
dall'altro provarono a cibarsi delle carni delle Sirene uccise.
Ma ogni volta che le addentavano, le figlie di Cola Pesce si
tramutavano immediatamente in scogli, ancor oggi visibili lungo
tutta la costa dello Stretto.
Cola Pesce, colpito da sommo
dolore per l'attentato subito dalla sua stessa infame progenie,
s'avventò con tutta la sua forza e a grande velocità contro le
rocce per porre fine ai suoi tristi giorni. L'urto violentissimo
della sua spada contro la dura roccia scosse l'intera isola di
Sicilia, producendo un terremoto d'immani proporzioni. Restò
tramortito dalla potenza del colpo. Si riprese soltanto dopo un
lungo tempo per le cure delle amorevoli Nereidi accorse, perché
mandate dal loro affettuoso padre Nereo e dalla loro pietosa
madre Doride. La testa di Cola Pesce non aveva, però, più la
sua micidiale spada. Essa per la spinta s'era rotta contro la
dura roccia, ove era rimasta piantata.
Cola Pesce stabilì, allora, di
lasciare quelle tormentate acque per mari più tranquilli. Le
Nereidi lo seguirono nel suo viaggio disperato per dargli divino
conforto.
Aveva attraversato tutto il
Mediterraneo e nessun luogo lo soddisfaceva. Le povere Nereidi
erano allo stremo delle loro forze. Nessun mare gli piaceva,
nessuna costa l'attraeva, nessun fondale l'affascinava. Più
volte la cara Orizia l'aveva inutilmente invitato ad arrestare
la forsennata corsa verso l'ignoto. Avevano finanche passato le
Colonne d'Ercole, ma nemmeno l'immenso Oceano fu di suo
gradimento.
Qui fu assalito assieme alle sue
compagne di viaggio da una schiera di mostri giganti dal volto
disumano e forniti di tentacoli lunghissimi. Soltanto
l'intervento personale del dio Nereo ricacciò quegli esseri
ripugnanti nelle loro abissali dimore.
Al ritorno dal lungo peregrinare
per mari ed oceani, giunto nelle acque prospicienti la città
falcata, Cola Pesce decise, finalmente, di concludere la sua
stancante ricerca d'un nuovo domicilio.
Quel mare lo soddisfaceva,
perché era ricco di pesci, ma soprattutto di tonni, di
pescispada e di delfini, coi quali Cola Pesce era in buonissimi
rapporti, perché ne conosceva il linguaggio, i movimenti, le
esigenze ed i problemi.
Eppoi quella costa piatta, senza
dirupi, quei fondali perlacei d'intenso verde ed azzurro
cangianti l'avrebbero, di certo, aiutato a dimenticare i
travagli ed il dolore della sua triste esistenza.
Una delle Nereidi, la dolce
Orizia, quando si trattò di fare ritorno al suo usuale luminoso
palazzo sottomarino, ove le magnifiche dee erano solite dimorare
per allietare il padre Nereo con canti e danze, manifestò la
sua intenzione di restare con l'amato Cola Pesce, di cui era
follemente innamorata.
Venere, dall'alto del suo divino
scanno ericino, non restò indifferente all'amore dei due
giovani amanti, per cui rinvigorì inverosimilmente il loro
desiderio fino a vincere ogni possibile, minima titubanza
derivante dalle insistenti preghiere delle splendide sorelle di
Orizia, che con le lacrime agli occhi ed il cuore infranto la
imploravano di riprendere il viaggio di ritorno.
Orizia fu irremovibile, anche se
provava a lenire il dolore delle altre dee del mare con dolci
parole e con la promessa che, un giorno, si sarebbero
rincontrate.
La privazione della spada dalla
testa di Cola Pesce aveva reso il mostro mezzo uomo e mezzo
pesce un essere d'indicibile bellezza, di cui, invero, non
soltanto Orizia s'era innamorata, ma anche tutte le Nereidi e le
altre dee del mare. "Cola Pesce", ripeteva in cuor suo
ogni dea marina, è più bello del divino Apollo e
dello stesso Adone".
Orizia accompagnò le sorelle per
un breve tratto di mare, poi fece ritorno al suo Cola Pesce con
cui giacque in un amplesso infinito.
Da quell'amore divino, benedetto
dalla passionale Venere, nacquero tre bambine d'impareggiabile
bellezza, ancor oggi viventi: Aegusa, Hiera e Pharbantia.
Cola Pesce con la sua amata
Orizia vive tuttora in quello splendido mare. Non è difficile
incontrarlo, soprattutto durante il periodo della mattanza del
tonno. Capita spesso, infatti, di vederlo assieme alla sua
Orizia uscire in tutto il suo corpo dalle acque marine e
librarsi in aria verso l'azzurro cielo, per, poi, inabissarsi
delicatamente nelle calde acque aegusee. Saluta tutti con
leggeri e brevi sorrisi amabili. Sono i suoi arrivederci. A
volte ti s'avvicina per augurarti che l'amorosa Venere possa
essere benevola anche con te.
Ama ogni essere vivente, come mai
nessun uomo abbia saputo amare i suoi simili e la natura. Cola
Pesce rappresenta per tutte le popolazioni la speranza del
futuro, la gioia di vivere, la proiezione del bisogno eterno
d'amare e d'essere amati, il rispetto incondizionato degli altri
esseri, di tutti gli esseri: uomini e non, in quanto nostri
fratelli planetari coi quali ognuno ha l'obbligo di dividere
quel poco o quel molto che ha. E' la necessità morale di vivere
in pace col mondo, ma anche con se stesso. Cola Pesce è l'uomo
maligno cambiato, per la grande forza dell'amore, in essere
affettuoso, pacifico, rispettoso e gaudente della felicità
altrui. E' l'uomo come dovrebbe essere.
Il nome di Cola Pesce è,
comunque, di fattura men che millenaria. E' nella seconda metà
del Millecento che compare, per la prima volta, nella
letteratura e precisamente nelle "Nugae curialium" di
Gualtiero Map, il racconto dell'antico mito di Andrittios o
dell'Homo Piscis, rivisitato con profonde variazioni tematiche,
ma non solo. Infatti, l'antichissimo mito di Cola Pesce viene
tramutato in fatto reale, comprovato finanche da testimoni, che
giurano o meglio spergiurano d'averlo visto di persona.
Ne raccontano ogni peculiarità,
ogni forma strutturale del corpo, ogni movimento. Man mano che
passa il tempo Cola Pesce è visto in tutti i mari attorno
all'Isola e fino in Puglia in Calabria, in Campania, in
Basilicata, ed ognuno ne fa una descrizione accurata, ma
diversa, mai coincidente con quelle precedenti. I caratteri
perduranti, evidenziati dai pescatori, erano d'un "homo
aequoreus", fornito di branchie e pinne, che nuotasse come
un pesce o meglio d'un pesce.
Alcuni scrittori, più
opportunamente definibili involontari mitografi, tra cui Ulisse
Aldrovandi, aggiungevano alla figura di Cola Pesce altre
mostruosità oltre alle già elencate, quali squame in buona
parte del corpo, braccia brevi e mani con artigli al posto delle
dita, piedi pinnati, copricapo con lunga sahariana e mantello
incorporati.
Altri, dando freno alla fantasia,
gli davano caratteri terricoli ed umani più marcati, privandolo
delle branchie, delle squame, e fornendolo di grandi capacità
natatorie, per cui lo definivano un essere anfibio, in grado di
vivere senza problemi anche sulla terraferma.
Il Fazello, come il Meli non si
mostrò propenso ad accogliere l'incredibile, come verità
assoluta, per cui viaggiò col suo pensiero verso lidi più
razionali, meno fantastici e più realistici. Non negava
l'esistenza di Cola Pesce, oramai consolidata dalla martellante
letteratura ultracentenaria, ma gli dava forma umana e
"polmoni molto fungosi e grandemente concavi", tali da
consentirgli un immenso accumulo d'aria e di competere in
velocità e resistenza con gli stessi pesci.
Il ritorno e l'insistente
interesse verso Cola Pesce della letteratura per quasi un
millennio necessitano d'un obbligato approfondimento logico e
culturale per capire le motivazioni originarie, che provocarono
la ripresa dei frammentari e contraddittori racconti mitici
attorno all'Uomo-Pesce. La nuova esplosione d'interesse verso
Cola Pesce non dovette essere frutto della mitomania di
Gualtiero Map, ma di un evento realmente accaduto, poi, gonfiato
dalla fantasia popolare fino a trasfigurarlo e a renderlo
affatto incredibile a qualsiasi mente scientifica.
Sfrondando la storia di Cola
Pesce o Nicola Pesce d'orpelli e volute fantastiche ne
scaturirebbe un racconto scialbo, quasi insignificante, perché
privato delle ali del fantastico, su cui ha spesso bisogno di
viaggiare il pensiero per percepire con maggiore gusto i piaceri
dell'inverosimile, da cui la mente umana trae l'unico alimento
per il suo dolce sonniveglia, che le consente d'uscire fuori da
ogni tristezza e dalla durezza del reale quotidiano.
E' con la fantasia che l'uomo
effettua le più grandi e meravigliose conquiste, e con essa che
riesce a lenire il dolore dell'esistenza, i travagli della vita,
perché essa soltanto genera speranza di realizzare i desideri,
che perseguitano con costanza l'intero processo vitale
dell'essere.
Raccontare, quindi, la storia di
Cola Pesce, come la biografia d'un grande nuotatore, privando
l'illustre personaggio d'ogni aspetto fantastico, sarebbe
l'unica verità verosimile, ma anche la più distruttiva del
mito di Cola Pesce stesso, oramai affidato all'eternità delle
sue incredibili gesta.
Proporre questa via sarebbe un
grave crimine culturale e letterario, un'infamità perpetrata
dalla ragione e dalla fredda scienza.
Cola Pesce è il grande mito
della Sicilia nostra. E nessuno ha il diritto di distruggerlo.
Anzi, ognuno ha l'obbligo di rafforzarlo nelle menti e nei cuori
delle nuove generazioni, perché esse possano trarre alimento
dalla sua esemplare vita per i loro comportamenti futuri e
conservare vividi i passati resoconti della cultura isolana.
Non c'è speranza di futuro per
quei popoli che rinunciano al loro passato.
Il mito di Cola Pesce è
proponibile, invero, anche come una delicata fiaba con una sua
intrinseca ed alta morale. Nessuno tra i cultori di questo
eterno mito è mai esentato dal riproporne la storia, la
propria storia, spesso diversa da quella degli altri, in quanto
frutto della fantasia della speranza d'ognuno.
C'era una volta nella città di
Messina una donna sposata con un pescatore. Erano trascorsi
oramai alcuni anni dal loro matrimonio, ma di bambini nemmeno a
parlarne. Più il tempo passava più la donna si rattristava di
questa disgrazia.
- Chi avrà cura di me e di mio marito, se
cadremo ammalati? Chi ci aiuterà, quando un giorno saremo
entrambi vecchi? - si ripeteva di continuo la poveretta.
La tristezza per la mancanza di
figli regnava sovrana nella casa di Agatina. (Questo era il nome
della sventurata). Un giorno, presa da sommo sconforto, decide
di porre fine alla sua vita, gettandosi in mare.
Prende una resistente corda e
s'avvia speditamente verso la marina. Le comari che
l'incontravano le chiedevano:
- Cosa devi fare con quella
corda, Agatina?
- Devo impiccarvi il destino - rispondeva.
Nessuna intuì le reali intenzioni della donna,
ognuna credeva che Agatina scherzasse o perlomeno che
farneticasse. Ella era solita comportarsi in modo strano, per
cui nessuno se ne preoccupò più di tanto.
Giunta che fu alla marina,
raccolse una grossa pietra s'imbracò e se la legò al collo.
Proprio quando stava per compiere l'insano gesto, sentì una
voce proveniente dalle limpide acque dello Stretto che le
gridava:
-
Fermati, Agatina! Stai commettendo un
sacrilegio
La donna si guardò attorno per capire chi le
avesse urlato. Scrutò a destra e a manca, niente. Non c'era
nessuno.
Aveva ripreso tra le mani la
pesante zavorra, quando la voce si rifà viva, invocandola
accoratamente di desistere dal compiere il drammatico gesto. Era
un pescespada, che per farsi notare scodinzolava con insistenza
la spada. La donna sbigottita dal grande portento s'arrestò di
colpo.
- Un pescespada parlante? - si domandò stranita - E' possibile?
- continuò dentro di se.
- Sì, è possibile - le rispose il pesce, leggendole i
pensieri. Ed aggiunse:
-
Io conosco il perché del tuo
dolore ed il necessario rimedio. Vedi quella conchiglia, che sta
attaccata alla roccia? Prendila e mangiala intera. Tra nove mesi
sarai madre d'un bel bambino. Perché tuo figlio cresca sano e
forte, dovrai immergerlo, appena nato, tre volte in
quest'acqua
Finita la frase, senza attendere
che Agatina parlasse, il pesce si rituffò nella profondità del
mare, scomparendo.
La donna restò qualche istante
titubante e pensierosa, convintasi, poi, delle parole del
pescespada, raccolse la conchiglia e la divorò con tutto il
guscio.
Si sentì subito gonfiare lo
stomaco, come se avesse ingerito chissà quale ricco e
succulento pranzo. Subito dopo ascoltò un vagito flebile di
bambino provenirle dalla pancia. Era impossibile che in così
breve tempo fosse accaduto il grande miracolo.
La sera, quando il marito
rientrò a casa dal mare, la donna gli raccontò nei minimi
particolari quello che le era successo.
Il buon pescatore, anche se non
prestò fede al racconto, finse di crederci per non rattristare
la moglie, che sembrava piena di gioia.
Man mano che trascorrevano i
mesi, Agatina mostrava con sempre maggiore evidenza i segni
della sua gravidanza. Alla fine, anche il marito dovette
convincersi che la moglie gli aveva raccontato la verità. Al
nono mese, puntuale, venne alla luce un meraviglioso bambino,
dai capelli corvini e dagli occhi verde-smeraldo, come le acque
del mare. I suoi felicissimi genitori gli imposero, come voleva
la tradizione, il nome del nonno paterno, Nicola, ma lo
chiamavano con l'abbreviativo di Cola.
L'infanzia di Cola fu gioiosa e
spensierata. Agatina notava, pero, un eccessivo attaccamento del
figlio per il mare. Se mancava di casa, non era difficile
scoprire dove fosse:
alla marina o tra le travagliate
onde dello Stretto. Mamma Agatina si disperava. Aveva paura di
quelle acque ove i due terribili mostri Scilla e Cariddi ogni
anno facevano un elevato numero di vittime.
-
Cola -
gli ripeteva in maniera ossessiva - tu non farai il
mestiere di tuo padre. Non sarai un pescatore. Il mare è
pericoloso. E' bello di fuori, ma terribile di dentro.
Cola sembrava ascoltare con attenzione gli ammonimenti della
madre, ma come attratto da una forza irresistibile, subito dopo
ritornava alla marina, di cui conosceva oramai ogni scoglio,
ogni anfratto, ogni lido.
La sua mente aveva soltanto una
passione: il mare. Niente e nessuno l'avrebbero potuto
distogliere dal contemplare quell'immensa massa d'acqua, dal
penetrare i misteri delle profondità marine, di nuotare a
fianco dei pescispada, dei saltellanti delfini con cui spesso
era solito gareggiare in resistenza e velocità. Il mare per
Cola era la vita, lo scopo della sua esistenza. Si sentiva un
tutt'uno con quel mondo sconosciuto, ma pieno di vita, di esseri
strani per la loro forma, ma coi quali era facile intrecciare
rapporti sinceri di amicizia e solidarietà. Le murene
l'aspettavano con ansia, per poi strofinarsi con delicatezza sul
corpo del ragazzo, che le accarezzava per tutto il tempo che
restava in acqua. Quand'egli stabiliva di fare ritorno a terra,
una processione di pesci l'accompagnava fino a riva. Le murene e
i delfini facevano da battistrada. Non era raro vedere Cola
solcare quelle acque sul dorso d'un veloce delfino o d'un
pescespada.
Cola aveva un infinito rispetto
per tutti quegli esseri viventi, che riteneva inviolabili ed
indisponibili per le brame dell'uomo. I pesci erano amici e
compagni dell'uomo, per cui nessuno aveva il diritto di
pescarli, nemmeno suo padre. Infatti, i pesci catturati dal
genitore finivano sistematicamente ributtati da Cola in acqua,
tra la disperazione del caro padre.
Dei pesci Cola aveva appreso
finanche il linguaggio, per cui non era difficile vederlo
parlare con loro, così come faceva con gli uccelli e coi lupi
S. Francesco d'Assisi.
La morte d'un pesce per lui era
causa d'indicibile dolore.
Questa perfetta simbiosi tra Cola
e i pesci suonava a stranezza per i più, che col tempo finirono
con l'identificare Cola con i suoi stessi amici del mare. Per
identificare il giovane ognuno era solito oramai aggiungere il
termine di Pesce.
Cola, quindi, un bel giorno,
perdette il suo cognome di Rizzo, per l'altro più significativo
di Pesce. "Di Nicola Rizzo Missina n'è china, ma di Cola
Pesci sulu unu n'avimu", recita un'antica filastrocca
messinese.
Cola Pesce era diventato una
croce per i suoi genitori, che non comprendevano perché
gettasse via quella grazia di Dio di pescato, buttando la
famiglia nella miseria più nera.
Agatina, disperata
dall'incomprensibile comportamento del figlio, in un momento di
somma angoscia, gli lanciò una terribile maledizione:
- Dato che tu ami i pesci più degli uomini e della tua
famiglia, possa tu diventare un pesce, così come tutti ti
chiamano.
Le maledizioni delle madri sui
figli, si dice che siano le peggiori, perché spezzano un eterno
legame naturale, inscindibile. E' direttamente Satana che
s'incarica di realizzare la maledizione materna, contro il cui
arresto nessuno può niente, nemmeno la stessa madre pentita.
Agatina, di certo, non avrebbe
voluto che la sua maledizione si fosse realmente avverata. Era
uno sfogo momentaneo di disperazione. Il re degli Inferi,
invece, le diede subito corso.
La donna aveva appena finito di
pronunciare la snaturata maledizione, quando Cola incominciò a
cambiare le sue sembianze umane. Il corpo si copri di orride
squame, i piedi si tramutarono in pinne, la gola ed il petto
divennero un tutt'uno per la comparsa di poderose branchie.
Anche i suoi splendidi occhi subirono una pesante metamorfosi,
divenendo spropositatamente grandi, vitrei e spenti. Le dita
delle mani s'erano trasformate in artigli simili a quelli degli
uccelli rapaci. La sua voce s'era alquanto ingrossata, perdendo
la sua naturale dolcezza.
Le repentine mostruosità fecero
impallidire Agatina, che iniziò ad inveire contro sé stessa
per l'inaudita maledizione pronunciata. Piangeva ed invocava Dio
perché Cola ritornasse uomo, ma la nuova metamorfosi invocata
dalla crudele madre, ora pentita, restava soltanto chimerico
desiderio. Cola Pesce non si capacitava di cosa gli fosse
accaduto. Quando scopri allo specchio le sue nuove sembianze,
corse gioioso alla volta del vicino mare. Era davvero un pesce,
così come i suoi sinceri amici, con cui avrebbe potuto vivere
fino all'ultimo dei suoi giorni.
Il demonio per la felicità di
Cola si morse la coda.
Scornato per l'inano risultato
ottenuto, fece ritorno con le pive nel sacco nel suo infimo
regno. L'amore di Cola Pesce per il mare e per i suoi abitatori
aveva vinto finanche il maligno Satana.
Le cosiddette mostruosità di
Cola Pesce erano, invero, solamente dettate dalle necessità
marine. Infatti, quando il giovane usciva dalle acque del mare,
come per incanto, il suo corpo riprendeva le perfette sembianze
umane giovanili. Questa perenne metamorfosi servì a lenire, e
di parecchio, il dolore di Agatina, causato dalla sua terribile
maledizione, "perché in fondo", si ripeteva, "ho
reso felice Cola".
Non appena il giovane
s'avvicinava al mare, il suo corpo incominciava a scuotersi. Ma
solamente, quando Cola era affatto immerso nelle acque marine,
s'aveva la metamorfosi del suo corpo in pesce. Le sue immersioni
non avevano tempi stabiliti, e potevano durare ore, giorni, mesi
e talora anni.
Una volta, annunciò che sarebbe
partito per un viaggio che l'avrebbe condotto fino al mare
Oceano per conoscerne le strane e misteriose creature che
l'abitassero, di cui i naviganti, quei pochi che vi s'erano
avventurati, raccontavano cose mirabolanti, e visitarne gli
sconosciuti profondissimi abissi.
Passò il primo anno, il secondo,
il terzo, ma di Cola Pesce non giungeva alcuna notizia. Qualcuno
incominciò ad avanzare l'ipotesi che uno squalo avesse
banchettato con le carni del giovane o che fosse finito nel
ventre d'una balena.
Quando il ricordo dell'Uomo-Pesce
sembrava quasi cancellato dalla memoria d'ognuno, ecco
ricomparire Cola.
Lo trovarono alcuni pescatori
messinesi imbrigliato tra le loro reti. Fu scambiato per un
orrendo mostro marino, ma quando fu issato nella barca, Cola
Pesce riacquistò il suo magnifico umano sembiante.
- E'
Cola - gridò qualcuno, - sì, è Cola Pesce - concordarono tutti.
- Amici - iniziò con
voce rauca per la lunga residenza marinara, il giovane,
ergendosi in tutta la sua possente figura - cose
incredibili e straordinarie ho visto. Vi porto conoscenza
specifica dell'infinito mare Oceano, che non ha né confini, né
fondo. Stranissime e singolari creature abitano in quegli oscuri
abissi. Vidi un drago lungo quasi una lega con pinne ed ali
amplissime sollevarsi dalle acque e volare meglio d'un uccello.
I suoi colpi di ali agitavano con cotale possanza il mare da
generare onde alte quanto una montagna. Il suo largo e capiente
ventre era insaziabile. La sua bocca doveva essere fornita d'una
potente calamita, se attraeva i pesci da distanze
impensabili.
Cola Pesce continua nel suo
racconto, affermando che il terribile drago l'aveva attaccato
tre volte, e che per tutte e tre le volte era riuscito a
sfuggire alle sue fameliche brame. L'ultima volta, però, il
mastodontico mostro l'insegui per leghe e leghe. Non s'arrestò
nemmeno innanzi alle due rupi eraclee. Proseguì nel mare Nostro
fin alle vicine isole eoliane, ove Cola Pesce si salvò,
discendendo in una profonda e stretta caverna, impraticabile dal
drago per la sua smisurata mole. Durante il suo lungo viaggio
Cola aveva visto città sottomarine coi palazzi costruiti d'oro,
d'argento e di perle più splendenti del sole, abitati da uomini
giganti. Esisteva al di là delle Colonne d'Ercole un mare di
alghe auree, che accecava soltanto a guardarlo. Tanto intensa
era la sua luminosità.
- Le ricchezze del mare sono
incommensurabili,
spiegò, concludendo il suo racconto,
spesso frammezzato da domande che i pescatori gli ponevano, cui
il giovane rispondeva con vero piacere. Il racconto del viaggio
che Cola aveva fatto ai suoi amici pescatori e che sarà
costretto, in seguito, a fare mille volte per le insistenti
richieste d'ognuno, fece il giro dell'Isola, generando grande
meraviglia ed ammirazione di tutti. Cola Pesce era divenuto,
così come era successo nell'antichità, il mito del mare di
Sicilia.
Capitava spesso che i naviganti
l'incontrassero durante i loro lenti viaggi. Dapprima si vedeva
in lontananza un puntino avvicinarsi a grandissima velocità,
per tramutarsi in pochi istanti nella figura del giovane Cola.
Lasciava dietro di sé una scia spumeggiante e luminosa.
Generalmente, saliva a bordo delle navi, dove era solito
banchettare in allegria coi marinai, cui dava preziosi consigli
sulle correnti, sulle burrasche in arrivo, sulla rotta più
sicura, sui fondali marini, sulle secche e sugli scogli
affioranti.
Era diventato anche una specie di
messo del mare, perché accettava di buon grado di portare
messaggi per tutto il Mediterraneo. Non poche volte il Re di
Sicilia l'incaricò tramite suoi legati di portare urgenti
dispacci ai sovrani di Spagna, di Napoli. Prestava i suoi
servizi spontaneamente e senza pretendere alcuna ricompensa. Nei
tragitti più lunghi, si riposava su qualche scoglio che
incontrava oppure s'aggrappava a qualche legno che trovava in
mare. Talora si serviva della disponibilità d'un delfino, che
lo trasportava sul dorso per leghe e leghe.
Passando vicino alle navi, i
marinai lo riconoscevano subito e gli gridavano festosi:
- Possa tu, o Cola, giungere alla tua meta sano e
salvo
- Anche voi, amici miei - rispondeva,
mentre spariva veloce all'orizzonte.
Messina gioì sempre della
disinteressata e preziosa opera di Cola Pesce. Più volte,
scoprendo nel fondo del mare galeoni pieni di monete d'oro, ne
fece dono alla sua città, arricchendola ed impreziosendola.
Il mito di Cola Pesce, col tempo,
superò finanche gli stretti confini del Regno di Sicilia per
acquistare i cuori e le menti delle genti di Spagna, di Francia,
di Germania, d'Inghilterra. Le imprese mirabolanti ed i servizi
resi al Re di Sicilia da Cola Pesce convinsero il sovrano ad
incontrarlo per provare la veridicità dei molteplici racconti.
Il Re giunse a Messina con tutto
il suo numeroso codazzo e con la sua splendida figlia Costanza.
Il sovrano prese un anello d'oro incastonato di diamanti e lo
scagliò dalla sua nave nel centro dello Stretto, ove più
accanite apparivano le correnti marine. "Ripescalo",
ordinò a Cola Pesce. L'Uomo-Pesce si tuffò nel vortice delle
agitate acque, cercò, ricercò, alla fine vide l'anello tra le
spire d'un terribile e viscido serpente. Senza tema alcuna,
ingaggiò una furibonda lotta col mostro marino. Il mare si
riempì di spuma, mentre i poderosi colpi di coda del serpente
alzavano delle impressionanti onde. Poi, tutto ad un tratto, il
mare si placò. Ed ecco venire fuori dalle acque Cola Pesce con
l'anello tra le mani. Un grido di vittoria si levò dagli
astanti che a frotte erano colà convenuti con le barche, mentre
altri assistevano alla scena in piedi sugli scogli.
Il Re si congratulò vivamente
col giovane per la grande impresa compiuta. La principessa era
affascinata da Cola Pesce, da cui non tolse per un istante i
suoi luminosi occhi azzurri. Cola non s'era ancora ripreso
dall'immane fatica che il sovrano ributtò l'anello in acqua.
- Vai, Cola, e raccontami tutto quello che vedrai
Le
parole del Re furono seguite dall'immediato tuffo di Cola Pesce.
L'anello d'oro era caduto dentro una voragine oscurissima.
Dall'alto non se ne scopriva il fondo. Cola, allora, scende con
velocità incredibile nel tetro baratro marino, ma l'anello
scompare dalla sua vista. Inizia una minuziosa ricerca di quel
sito, abitato d'animali immondi ed orridi, da serpenti, da
polipi giganti forniti di mille tentacoli, da voluminose
salamandre velenose, da gronchi con corpo e testa spropositati,
da draghi vomitanti fiamme. Supera ogni pericolo con abilità e
con la lotta corpo a corpo. Penetra quell'infinita profondità
fino a raggiungere le viscere magmatiche, infuocate dell'Etna.
Qui, finalmente, ritrova l'anello, che riporta in superficie
inseguito da un polipo gigante, con cui preferisce non
ingaggiare battaglia per la mole smisurata del mostro.
Trascorse un intero giorno prima
che Cola Pesce facesse ritorno dal cuore dell'Etna. Salì
sfinito sul galeone del Re, tra il tripudio generale del popolo
ed il consenso tacito del cuore della principessa, che gioiva
dell'incredibile impresa dell'aitante giovane. Costanza lo
guardava con lo sguardo fisso. Tremava come una foglia al vento.
Aveva avuto paura che Cola non avesse fatto ritorno. S'appoggiò
amorevolmente al braccio del Re, che le sfiorò la mano
delicatamente.
Quell'apparente gesto
insignificante servi a darle coraggio e a rasserenarla. Poi, il
sovrano tuonò con la sua cavernosa ed inconfondibile voce:
- Cola, cosa hai visto?
- Somma Maestà, animali
terribili e perniciosi, un abisso profondo un numero imprecisato
di leghe ed il fuoco rosso dell'Etna, che faceva ribollire
l'acqua, come le caldaie dell'inferno
- Bravo, Cola.
Hai compiuto due imprese davvero mirabolanti, impossibili per
qualsiasi altro uomo al mondo. Ma non sono ancora sufficienti,
perché tu possa andare a pari con la tua fama. Necessita che tu
scopra in quali condizioni sia il reggimento marino del nostro
regno - concluse il sovrano, tra l'approvazione del suo
cortigiano codazzo.
Soltanto la principessa si
mostrò contraria alla nuova impresa
- Padre, padre
mio - iniziò Costanza - che ragione c'è di codesta
nuova perigliosa intrapresa. Circumnavigare la nostra Isola a
nuoto è rischiosissimo. Nessun uomo al mondo ne sarebbe capace.
Nemmeno Cola. Perché, padre mio adoratissimo, vuoi ch'egli
perisca? Sarei infelice per tutta la vita, se questo terribile
evento dovesse accadere.
Mentre la giovane principessa
parlava, continuava a guardare ammirata Cola, che ora le
appariva un dio marino dalle perfette fatture.
L'affettuoso Re comprese il
grande travaglio amoroso che stava attanagliando la figlia.
Invero, anche Cola Pesce era stato punto dagli acuminati strali
di Cupido. Il suo sguardo dolce e languido lo testimoniava.
Avrebbe voluto spiegare a Costanza il suo amore impossibile, che
lo frastornava e lo sconvolgeva impetuosamente. Un popolano,
qual egli era, non poteva aspirare alla mano d'una principessa.
Lo sapeva benissimo, anche se il suo cuore non conosceva
ragioni.
A scuotere i due innamorati dalla loro malcelata
passione, intervenne il Re, che con voce pacata, ma senza
preamboli disse:
- Cola, la Trinacria ha bisogno dite.
Scopri lo stato del suo reggimento. Tutto il popolo te ne sarà
grato. Ed io, Re di Trinacria, ti farò principe di tutte le
acque marine del Regno.
- Maestà, preferirei vivere
come ho sempre vissuto: senza ricchezze e senza titoli.
Esentatemi, Cristianissimo Sire, da quest'impresa. Ve ne
supplico.
La richiesta di Cola scaturiva dal suo grande
timore di dovere accrescere il dolore della principessa, giammai
da preoccupazioni per la sua incolumità personale.
Il Re, alle parole del giovane,
s'infuriò alquanto e con tono minaccioso disse:
- Non vuoi
tu, Cola Pesce, aderire alla volontà del tuo Re?
L'ordine del Sovrano s'era fatto
perentorio. Un rifiuto sarebbe equivalso ad una condanna a
morte.
- No, padre mio - gridò Costanza terrorizzata.
Ma il Re, prima ancora che la figlia avesse concluso la sua
frase di dissenso, aveva già buttato un'altra volta l'anello
d'oro a mare, per indicare a Cola Pesce di tuffarsi per la
grande ricognizione sottomarina.
Il giovane prese una ferula ed un
pugno di fave e disse:
- Sire, se questa ferula e
queste fave verranno a galla, vuol dire che sarò morto.
S'avvicinò, poi, alla principessa, la baciò pudicamente sulle
rosse guance tra lo sbigottimento generale e dello stesso Re.
- Ad un popolano non sarebbe stato ammesso baciare Costanza,
ma ad un sicuro prossimo principe, sì - aveva ripetuto
mentalmente tra sé Cola, prima di prendere quell'azzardatissima
decisione.
Quindi, si tuffò nelle acque dello Stretto,
inabissandosi.
La buona e dolce principessa al bacio di Cola
stava per cadere in deliquio, soltanto l'immensa forza del suo
grande amore la tenne in piedi. Dopo qualche attimo di
smarrimento, preoccupata e sconvolta profondamente per i
pericoli contro cui stava andando incontro il giovane messinese,
non resistette oltre e si gettò disperata in mare.
Un vortice determinato dalla
fortissima corrente la trascinò subito a fondo, sottraendola
agli sguardi spaventati degli increduli astanti. Il Re comandò
che qualcuno si buttasse in mare per salvare la principessa. Tre
valentissimi nuotatori accolsero subito l'ordine del sovrano. La
ricerca durò per tutto il giorno, ma della principessa nemmeno
l'ombra.
Cola Pesce, avvisato da una
murena, era subito risalito alla ricerca del suo amato bene.
Vide la principessa, inghiottita dall'inesauribile gorgo, le
corse incontro, per strapparla al terribile mostro. Cola si
ricordò della maledizione della madre Agatina e del suo
effetto. Quindi, con voce rotta dal dolore, le gridò con quanto
fiato avesse ancora:
- Possa, tu, o Costanza, diventare
pesce!
La principessa, come per
sortilegio, assunse subito le stesse sembianze di Cola. Il
giovane le si avvicinò, la baciò, la strinse forte a sé ed
insieme s'avviarono alla ricerca dell'eterna loro dimora marina.
Il Re si convinse della morte
d'entrambi, perché risalirono a galla sia la ferula di legno
sia le fave.
Si dice, invece, che i due amanti avessero scoperto
che la Trinacria si regge sopra tre colonne, di cui soltanto due
stabili. Mossi d'amorevole affetto per il popolo e la terra di
Sicilia, Cola e Costanza si sarebbero fermati sotto Capo Peloro,
sede della colonna logorata, per sostenere il peso dell'Isola.
Qualcuno che li ha visti, giura
che vivono ancor oggi felici e contenti tra i pesci e le
correnti.
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