Nino Campagna e la leggenda di Colapesce
18 febbraio 2009
di Alfio Pellegrini

Domenica scorsa, 8 febbraio, all’Affratellamento di Firenze, in via Orsini, nell’ambito della mostra di pittura di Giuliano Pini che vi è esposta, alle 17,30 si è tenuta la presentazione del libro di Nino Campagna, dell’Acit di Pescia, La leggenda di Colapesce e i miti dello “stretto” nella letteratura europea.
Presente l’autore, sono intervenuti, dopo una breve introduzione di Luigi Mannelli per conto del circolo, Alfio Pellegrini e Alberto Brasca. Pellegrini si è servito di appunti che, rimessi in ordine, costituiscono il testo che qui pubblichiamo, con il rincrescimento di non poter fare altrettanto dell’intervento di Brasca, che ha parlato interamente a braccio, dando una bella prova di eloquente penetrazione del mito e del libro. Nino Campagna ha illustrato Der Taucher, di Schiller. [NdR]
Ho detto altre volte, in incontri dell’Acit di Pescia, di non avere alcun titolo per intervenire fuorché quello di essere un uomo che legge. Pare che anche questa categoria, dei lettori, si stia sempre più assottigliando, quindi lo dico persino con un certo orgoglio, non per un atto di modestia, illudendomi che ad una specie in via di estinzione (ma mi auguro che il destino non ci riservi proprio questo approdo) sia concesso o almeno perdonato di dire più di quanto ammetterebbero le competenze.
Per un toscano della mia età l’incontro con Colapesce difficilmente avrebbe potuto verificarsi se non attraverso le Fiabe italiane di Italo Calvino, ed è effettivamente quello che è accaduto anche a me. Italo Calvino, che era appena uscito dalla scrittura della trilogia che poi ha preso il titolo complessivo di I nostri antenati, e che sicuramente anche voi tutti conoscerete almeno sotto i più noti titoli singoli, Il barone rampante, Il visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente, ricevette incarico da Einaudi, presso cui lavorava, di mettere mano al progetto, proposto da Giuseppe Cocchiara, di realizzare “una raccolta delle più belle novelle del popolo italiano”, da porre accanto alle Fiabe dei Grimm ed a quelle, russe, di Afanas’ev.
Il lavoro preliminare, di raccolta della nostra favolistica, era stato già compiuto, sul finire dell’Ottocento, da scrupolosi studiosi di impronta positivistica, che avevano ripreso dalla viva voce dei narratori e delle narratrici, con fedeltà addirittura pedantesca, questo patrimonio e l’avevano riunito in libri di non agevole reperibilità, nei vari dialetti e vernacoli d’origine. Il compito di Calvino, ugualmente non facile, sarebbe consistito nella scelta e nella 5 riscrittura di questo materiale in versione italiana, per dare ad esso unitarietà e senso poetico, e se dapprima era stato ipotizzato di non intervenire sulle fiabe toscane e di altre regioni linguisticamente già più italianizzate, giustamente la scelta finale fu di riscrivere anche queste. Sarà Calvino stesso, nel ’74, in un ricordo del Cocchiara, a raccontare di un suo viaggio a Palermo, da cui ritornò con “una cinquantina di volumi in massima parte rarissimi, più una decina di annate di riviste”.
L’impresa, prospettata in idea al principio del ’54, fu completata nel ’56, ed ha il merito, appunto, con le sue molte riedizioni e ristampe, di aver diffuso la conoscenza delle nostre fiabe.
Accanto così alle molte altre fiabe, non solo europee, l’editore Giulio Einaudi ha lungamente avuto in catalogo anche quest’opera, affidata a uno dei nostri migliori scrittori del secolo scorso. Ed è lì che anch’io ho fatto conoscenza, come dicevo, con la leggenda di Colapesce, in una delle numerose versioni che ne aveva dato il Pitré, il quale ne aveva raccolte (mi pare) diciotto in Sicilia, ma una sola, ovviamente, scelta come la migliore e riscritta in italiano da Italo Calvino.

Nino Campagna, siciliano, nato a Calatabiano in provincia di Catania e trasferitosi ben presto a Messina, nel ’46, ne ha avuto una conoscenza molto più precoce e diretta.
A Messina Colapesce era di casa. Lì la leggenda aveva origine e proprio quello era l’ambiente di riferimento. Così ne è stato accompagnato lungo l’intera sua esistenza, rappresentando un richiamo costante alla sua terra nativa, al mare rischioso che la circonda, al popolo che vi vive, ed è stato per lui spontaneo intriderla di nostalgia: una nostalgia della propria giovinezza e degli affetti, ancora vivissimi, che l’animarono, dalla madre, apprensiva come gran parte delle madri (ma, ci assicura lui, specialmente le siciliane), agli studi, agli amici, ai compagni di scuola, con le feste cittadine tradizionali e le sfide marine che vi si celebravano tra coetanei, anche disobbedendo alle raccomandazioni familiari.
Sarebbero bastate, credo, queste sole circostanze a conferire un sapore particolare, unico, alla leggenda di Colapesce, quale si veniva disegnando nella peculiare personalità di Nino, ma c’è di più. C’è che egli ha compiuto studi di germanistica, ha frequentato le università tedesche, è diventato quello che è: un appassionato conoscitore di letteratura e storia tedesche e un divulgatore, non meno appassionato e coinvolgente, delle conoscenze acquisite e delle esperienze proprie di vita, attraverso l’associazione culturale italo-tedesca, prima a Firenze, insieme al professor Bevilacqua, poi a Pescia, dove ha costituito lui stesso una sede dell’associazione ed ha dato vita ad una miriade di iniziative, infaticabilmente distribuite tra Lucca, la Valdinievole, Pistoia e, ancora, come stasera, Firenze.
Insisto sulla parola, “appassionato”; perché Nino non ama presentarsi (e del resto non è) come un freddo e distaccato espositore di conoscenze elaborate in modo scientifico. Al contrario. In queste sue attività mette l’anima (si sarebbe detto una volta) e trascina nelle sue stesse passioni coloro che lo frequentano ed i suoi ascoltatori. Parla infatti preferibilmente di autori che ama in modo viscerale, si tratti di Brecht o di Büchner, di Heine, di Hölderlin o di Kafka, e non nasconde certe sue idiosincrasie, certe sue prese di distanza, certi suoi umori, insomma le sue simpatie ed antipatie. Parla a braccio, ed è un buon conferenziere. Capita ovviamente, anche al buon conferenziere, di avere giorni meno felici, ed allora il discorso esce fuori meno chiaro, meno preciso, più caotico, ma anche in queste rare occasioni Nino lascia cogliere, nella maggior confusione delle frasi e dei richiami, l’intimo rapporto che ha con l’autore o con la vicenda di cui tratta, il rovello di pensieri e sentimenti che si accavallano in lui mentre espone. Questo, che ad alcuni potrebbe anche apparire come un difetto, è invece secondo me un pregio, perché pure l’attività culturale, ed in modo particolare quella che si rivolge alla narrativa e alla poesia, o è ancorata alla nostra vita concreta o ha senso solo per conventicole ristrette: un tempo si sarebbe detto è affare da torri d’avorio. E Nino non è uomo che possa ritirarsi in una torre d’avorio.  Ora, questa particolarità degli studi di Nino in germanistica importa anche nel nostro contesto perché la Germania ha prestato grande attenzione, nella sua stagione romantica, alle tradizioni popolari e quindi anche alla fiabistica. Non occorre fare il nome dei Grimm, per altro già ricordati. Ma accanto ai Grimm incontriamo Brentano, incontriamo Schiller, incontriamo insomma la più alta intellettualità dell’epoca. Ed incontriamo anche Colapesce. Lo incontriamo precisamente nel senso che, come recita il titolo di uno dei capitoli del libro di Nino che oggi presentiamo, c’è il mito di Colapesce anche nella letteratura tedesca; vi sono cioè autori tedeschi che se ne sono occupati e ne hanno scritto. Le fiabe, come sappiamo, sono un patrimonio popolare la cui diffusione non ha confini. Per vie spesso sconosciute e solo in certi casi invece chiare ed evidenti, si trasmettono come scorrendo per mille rivoli sotterranei da un luogo all’altro. Il romanticismo, come movimento, tendeva a mitizzare il popolo, ne ricercava le radici culturali, ne valorizzava le testimonianze orali e, in certi casi, ne trovava di scritte, perché magari qualche studioso vi aveva attinto in precedenza.  Il fatto che nella cultura tedesca si ritrovi la leggenda di Colapesce è dunque una ragione in più perché questa presenza divenisse tanto forte e radicata nella vita di Nino Campagna. Il quale non è la prima volta in questo libro che vi si cimenta. Molte altre volte ne ha parlato ed altre ne ha scritto nei libri suoi. Vi dico soltanto che un capitolo dedicato a Colapesce si trova anche in Spigolando tra le fiabe europee, stampato nel settembre del 1997, già con i disegni di Giuliano Pini.  Ma questa prova recente, questo libro di formato un po’ ingombrante, finito di stampare invece nel settembre scorso, a distanza di undici anni, è particolarmente felice; dell’opera di Nino può essere detto sostanzialmente la summa.

Ma diciamo a questo punto che cos’è questo libro e perché è da ritenersi così felice. Ho appena fatto un fugace cenno al formato, dicendolo un po’ ingombrante. C’è un motivo. Non si tratta, infatti, solo del libro di Nino. Accanto al testo scritto ci sono le immagini. Il formato serve ad accogliere queste immagini serbandone il fascino. Sono le splendide foto in bianco e nero di Salvatore Centorrino, che documentano in modo perfetto un paesaggio tanto aspro quanto meraviglioso: protagonista ne è il mare, sia pure accanto a Messina (il porto, la vista dal liceo Maurolico), insomma i luoghi privilegiati della stessa giovinezza di Nino Campagna, ed evidentemente da Centorrino amati con altrettanto amore. Ma, appunto, è il mare a darci questa sensazione di asprezza, di forza indomita della natura, nonostante la antichissima presenza antropica: il mare con i suoi scogli, le sue onde ribollenti, la sua spuma furiosa, il suo mischiarsi come in una sfida al cielo, ora placido, ora non meno tempestoso. E sono le illustrazioni fantastiche, i disegni, di Giuliano Pini. Fantastiche, com’è la vicenda di Colapesce a cui s’ispirano. Giuliano le ha realizzate, nel ’97, con questo preciso proposito, dando un volto ed un corpo a Cola come agli altri personaggi della fiaba: la madre, la fanciulla (che pur non appartiene alla tradizione, ma vi è introdotta da Schiller), perfino le colonne che sorreggono Messina, una già crollata, una incrinata ed una soltanto ancora integra – tutto rappresentato con il bel tratto elegante di Giuliano, sinuoso ma limpido, di evidenza immediata, come nei bei quadri che ornano stasera questa spoglia sala dell’Affratellamento in cui ci siamo raccolti come in un cortile, diceva Gigi Mannelli dando con sobrietà il via alla nostra conversazione, per trascorrere insieme un po’ del nostro tempo, quanto meno col profitto dell’amicizia. Insomma, il libro è il risultato dell’incontro di tre amici: il fotografo, il pittore e l’appassionato studioso e divulgatore. Stavo addirittura per dire di quattro amici, perché scorrendo le prime pagine scorgiamo, tra le premesse di altre autorità, una introduzione di Nanni Ricevuto, che interviene in qualità di presidente della Provincia di Messina ed è amico intimo di Nino dai lontani tempi degli studi al Maurolico. E se può accadere (mi scuso di tornarvi sopra come se si trattasse di cosa frequente, mentre invece non è) qualche rara volta che il divulgatore nella giornata infelice non sia al massimo dell’efficacia del suo eloquio, la sua scrittura invece è sempre piacevolmente scorrevole. Lo è particolarmente in questo caso, perché la combinazione di un naturale coinvolgimento emotivo, della profonda conoscenza della materia, compagnia di una vita, di questo incontro fortunato tra amici e della tendenza spontanea dell’autore a fare, col suo lavoro, testimonianza di vissuto e quindi anche autobiografia – be’ tutto questo ha dato a Nino, starei per dire con espressione terra terra, una marcia in più, ed anche il testo scritto appare, per quanto è di questo mondo, perfetto. Sembra proprio che vi abbia contribuito, per dirla in una maniera che, mutuata da Marx, sulla bocca di Nino ricorre spesso, “la ragion d’essere del caso”. E il lettore vi si avventura come in un romanzo e ne esce fuori, chiusa l’ultima pagina, sentendosi partecipe a fondo di un mito che è un mito europeo a tutti gli effetti. Su questo mito il volume si diffonde, con un primo capitolo in cui esso è rivisitato nella sua genesi messinese, per passare poi, nei successivi, alla letteratura tedesca. Incontriamo, allora, nel secondo, Atanasius Kircher, un gesuita del XVII secolo che ne scrisse nel suo Mundus subterraneus, attribuendo a Cola una ingordigia di ricchezza, e Franz von Kleist, un giovane poeta morto nel 1797, che compose un poemetto, Nikolaus, der Taucher, in cui incontriamo per la prima volta questa parola, “der Taucher”, che offre a Nino l’occasione di fare anche della filologia, spiegandoci che il suo significato effettivo è “colui che sa stare a lungo sott’acqua” e che non ha un corrispettivo italiano, tanto da risultare intraducibile, non essendo certo proponibili, come pur è stato fatto, i nostri “palombaro” o “sommozzatore”. 
Del poemetto, quasi sconosciuto, Nino Campagna ci fornisce una propria versione letterale, oltre a darci integralmente il testo tedesco in appendice. Nel capitolo terzo incrociamo la redazione di un anonimo di Eisenach e nel quarto, infine, leggiamo la versione di Der Taucher, di Schiller, un’antica e celebre versione di Angelo Calvino, commentata passo passo da Nino con il ricorso all’originale tedesco.
Della leggenda in sé non dico nulla. Ricordo solo che una sua versione ce l’ha fornita anche Benedetto Croce nel suo Storie e leggende napoletane, ristampato sul finire del secolo da Adelphi, a testimonianza della diffusione che essa ha avuto pure nella campana capitale borbonica, limitandomi a soggiungere che è un mito del mare, del coraggio, della giovinezza e, insieme, della oziosa gratuità dell’imperativo dei potenti; è un mito del rapporto dell’uomo con la natura ed una esaltazione della terribile forza di questa. Do notizia, per chiudere, che con il mito di Colapesce, a ulteriore conferma della sua immortalità e della forza che ne sprigiona, si è misurato in tempi più recenti un altro nostro grande scrittore, Raffaele La Capria, allungandone il racconto e mutando la tragedia finale in una astuta beffa compiuta dal nostro protagonista, con l’aiuto di una vecchia e saggia tartaruga di mare, ai danni del solito potente vanamente capriccioso.  Dovesse capitarvi tra le mani, ve ne raccomando senz’altro la lettura. Ma intanto vi auguro buona lettura, di fronte a questo bel libro di Nino Campagna, magnificamente illustrato dalle foto di Salvatore Centorrino e dai disegni del nostro Giuliano Pini.

   

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