Gli "angoli" di Vinciguerra |
La leggenda di Colapisci
23-11-2001 La leggenda di
Colapisci da Messina è indubbiamente il mito d’amore e morte più famoso
della tradizione siciliana; il più celebre dono volontario per la «causa del
popolo»; il più teatrale tra gli inviti al riscatto contro i rischi della
cultura mafiosa. Il Colapisci postmoderno è volto della resistenza che non affoga nello Stretto popolato dai nuovi mostri, ovviamente in una personale versione del mito ben contestualizzata nella prospettiva dell’educazione alla legalità. Segue però a far disperare la madre con lunghe assenze ed è ancora maledetto fino a divenire pesce e dover vivere nelle profondità.
Il mito della Perlungo incontra ancora il
re (forse Federico II), ne ripesca l’anello, si rituffa per conoscere gli abissi
e scopre ancora che l’Isola poggia su tre colonne «di cui una corrosa, quasi
spezzata», e che il fuoco le scorre sotto. E nel rispetto del mito scompare
ancora, e ligio al volere del re ritorna sott’acqua per «reggere la colonna
spezzata su cui poggia Messina, per impedire che la Sicilia (affondi) nello
stesso mare».
La Perlungo indaga la
letteratura che di Cola ha trattato. Dagli spagnoli (par che lo stesso Don
Chisciotte interrogato sulle virtù per divenire un cavaliere errante rispose che
si doveva «saper nuotare… come Colapesce») all’umanista Pontano, ai
contemporanei. La poetessa scopre così un Cola che si apparenta con San Nicola
di Bari (protettore dei pescatori), un Cola che nasce dalle paure degli
siciliani della costa orientale per le eruzioni e i tremuoti, fino a vederne un
«dio minore… più consanguineo».
Daltronde la
letteratura su Colapisci è assai ampia, corre dal provenzale Jordan e dai suoi
contemporanei inglesi che dissero di tale «Nicolaus», alla favola di fra
Salimbene da Parma che ne scrisse come di un nuotatore messinese «messo alla
prova da re Federico». Ed ancora il bolognese Pipino (con cui compare il
soprannome pesce e la maledizione della madre), i siciliani Tommaso Fazello e
Giulio degli Omodei, i tedeschi Kircher ed ancor più Federico Schiller. Il Pitrè
ne studiò invece i tratti epico-letterari, «valorizzando la tradizione orale
della zona nord-orientale della Sicilia», e fu infine un rivoluzionario per il
catanese Domenico Tempio.
E di recente Benedetto
Croce, Leonardo Sciascia, Francesco Maurolico, fino all’opera che più piace alla
Perlungo e di cui più risente: la versione teatrale del 1986 di Ignazio
Buttitta. Ed è lì che Cola è il salvatore che vuole liberare la Sicilia
dagli ingannatori, l’«innamorato della luna» che continua a cantare: e
daltronde, come la stessa poetessa ammette, l’opera vuole abbracciare «due
ambienti: quello dei valori della legalità e quello della cultura della memoria
e del nostro dialetto siciliano».
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