La leggenda di Colapesce

C'era una volta nella città di Messina una donna sposata con un pescatore. Erano trascorsi oramai alcuni anni dal loro matrimonio, ma di bambini nemmeno a parlarne. Più il tempo passava più la donna si rattristava di questa disgrazia.
- Chi avrà cura di me e di mio marito, se cadremo ammalati? Chi ci aiuterà, quando un giorno saremo entrambi vecchi? - si ripeteva di continuo la poveretta.
La tristezza per la mancanza di figli regnava sovrana nella casa di Agatina. (Questo era il nome della sventurata). Un giorno, presa da sommo sconforto, decide di porre fine alla sua vita, gettandosi in mare.
Prende una resistente corda e s'avvia speditamente verso la marina. Le comari che l'incontravano le chiedevano:
- Cosa devi fare con quella corda, Agatina?
- Devo impiccarvi il destino -
rispondeva.
Nessuna intuì le reali intenzioni della donna, ognuna credeva che Agatina scherzasse o perlomeno che farneticasse. Ella era solita comportarsi in modo strano, per cui nessuno se ne preoccupò più di tanto.
Giunta che fu alla marina, raccolse una grossa pietra s'imbracò e se la legò al collo. Proprio quando stava per compiere l'insano gesto, sentì una voce proveniente dalle limpide acque dello Stretto che le gridava:
- Fermati, Agatina! Stai commettendo un sacrilegio
La donna si guardò attorno per capire chi le avesse urlato. Scrutò a destra e a manca, niente. Non c'era nessuno.
Aveva ripreso tra le mani la pesante zavorra, quando la voce si rifà viva, invocandola accoratamente di desistere dal compiere il drammatico gesto. Era un pescespada, che per farsi notare scodinzolava con insistenza la spada. La donna sbigottita dal grande portento s'arrestò di colpo.
- Un pescespada parlante? -
si domandò stranita - E' possibile? - continuò dentro di se.
- Sì, è possibile - le rispose il pesce, leggendole i pensieri. Ed aggiunse:
- Io conosco il perché del tuo dolore ed il necessario rimedio. Vedi quella conchiglia, che sta attaccata alla roccia? Prendila e mangiala intera. Tra nove mesi sarai madre d'un bel bambino. Perché tuo figlio cresca sano e forte, dovrai immergerlo, appena nato, tre volte in quest'acqua

Finita la frase, senza attendere che Agatina parlasse, il pesce si rituffò nella profondità del mare, scomparendo.
La donna restò qualche istante titubante e pensierosa, convintasi, poi, delle parole del pescespada, raccolse la conchiglia e la divorò con tutto il guscio.
Si sentì subito gonfiare lo stomaco, come se avesse ingerito chissà quale ricco e succulento pranzo. Subito dopo ascoltò un vagito flebile di bambino provenirle dalla pancia. Era impossibile che in così breve tempo fosse accaduto il grande miracolo.
La sera, quando il marito rientrò a casa dal mare, la donna gli raccontò nei minimi particolari quello che le era successo.
Il buon pescatore, anche se non prestò fede al racconto, finse di crederci per non rattristare la moglie, che sembrava piena di gioia.

Man mano che trascorrevano i mesi, Agatina mostrava con sempre maggiore evidenza i segni della sua gravidanza. Alla fine, anche il marito dovette convincersi che la moglie gli aveva raccontato la verità. Al nono mese, puntuale, venne alla luce un meraviglioso bambino, dai capelli corvini e dagli occhi verde-smeraldo, come le acque del mare. I suoi felicissimi genitori gli imposero, come voleva la tradizione, il nome del nonno paterno, Nicola, ma lo chiamavano con l'abbreviativo di Cola.
L'infanzia di Cola fu gioiosa e spensierata. Agatina notava, pero, un eccessivo attaccamento del figlio per il mare. Se mancava di casa, non era difficile scoprire dove fosse:
alla marina o tra le travagliate onde dello Stretto. Mamma Agatina si disperava. Aveva paura di quelle acque ove i due terribili mostri Scilla e Cariddi ogni anno facevano un elevato numero di vittime.
- Cola - gli ripeteva in maniera ossessiva - tu non farai il mestiere di tuo padre. Non sarai un pescatore. Il mare è pericoloso. E' bello di fuori, ma terribile di dentro.

Cola sembrava ascoltare con attenzione gli ammonimenti della madre, ma come attratto da una forza irresistibile, subito dopo ritornava alla marina, di cui conosceva oramai ogni scoglio, ogni anfratto, ogni lido.
La sua mente aveva soltanto una passione: il mare. Niente e nessuno l'avrebbero potuto distogliere dal contemplare quell'immensa massa d'acqua, dal penetrare i misteri delle profondità marine, di nuotare a fianco dei pescispada, dei saltellanti delfini con cui spesso era solito gareggiare in resistenza e velocità. Il mare per Cola era la vita, lo scopo della sua esistenza. Si sentiva un tutt'uno con quel mondo sconosciuto, ma pieno di vita, di esseri strani per la loro forma, ma coi quali era facile intrecciare rapporti sinceri di amicizia e solidarietà. Le murene l'aspettavano con ansia, per poi strofinarsi con delicatezza sul corpo del ragazzo, che le accarezzava per tutto il tempo che restava in acqua. Quand'egli stabiliva di fare ritorno a terra, una processione di pesci l'accompagnava fino a riva. Le murene e i delfini facevano da battistrada. Non era raro vedere Cola solcare quelle acque sul dorso d'un veloce delfino o d'un pescespada.

Cola aveva un infinito rispetto per tutti quegli esseri viventi, che riteneva inviolabili ed indisponibili per le brame dell'uomo. I pesci erano amici e compagni dell'uomo, per cui nessuno aveva il diritto di pescarli, nemmeno suo padre. Infatti, i pesci catturati dal genitore finivano sistematicamente ributtati da Cola in acqua, tra la disperazione del caro padre.
Dei pesci Cola aveva appreso finanche il linguaggio, per cui non era difficile vederlo parlare con loro, così come faceva con gli uccelli e coi lupi S. Francesco d'Assisi.
La morte d'un pesce per lui era causa d'indicibile dolore.
Questa perfetta simbiosi tra Cola e i pesci suonava a stranezza per i più, che col tempo finirono con l'identificare Cola con i suoi stessi amici del mare. Per identificare il giovane ognuno era solito oramai aggiungere il termine di Pesce.
Cola, quindi, un bel giorno, perdette il suo cognome di Rizzo, per l'altro più significativo di Pesce. "Di Nicola Rizzo Missina n'è china, ma di Cola Pesci sulu unu n'avimu", recita un'antica filastrocca messinese.

Cola Pesce era diventato una croce per i suoi genitori, che non comprendevano perché gettasse via quella grazia di Dio di pescato, buttando la famiglia nella miseria più nera.
Agatina, disperata dall'incomprensibile comportamento del figlio, in un momento di somma angoscia, gli lanciò una terribile maledizione:
- Dato che tu ami i pesci più degli uomini e della tua famiglia, possa tu diventare un pesce, così come tutti ti chiamano.
Le maledizioni delle madri sui figli, si dice che siano le peggiori, perché spezzano un eterno legame naturale, inscindibile. E' direttamente Satana che s'incarica di realizzare la maledizione materna, contro il cui arresto nessuno può niente, nemmeno la stessa madre pentita.
Agatina, di certo, non avrebbe voluto che la sua maledizione si fosse realmente avverata. Era uno sfogo momentaneo di disperazione. Il re degli Inferi, invece, le diede subito corso.
La donna aveva appena finito di pronunciare la snaturata maledizione, quando Cola incominciò a cambiare le sue sembianze umane. Il corpo si copri di orride squame, i piedi si tramutarono in pinne, la gola ed il petto divennero un tutt'uno per la comparsa di poderose branchie. Anche i suoi splendidi occhi subirono una pesante metamorfosi, divenendo spropositatamente grandi, vitrei e spenti. Le dita delle mani s'erano trasformate in artigli simili a quelli degli uccelli rapaci. La sua voce s'era alquanto ingrossata, perdendo la sua naturale dolcezza.
Le repentine mostruosità fecero impallidire Agatina, che iniziò ad inveire contro sé stessa per l'inaudita maledizione pronunciata. Piangeva ed invocava Dio perché Cola ritornasse uomo, ma la nuova metamorfosi invocata dalla crudele madre, ora pentita, restava soltanto chimerico desiderio. Cola Pesce non si capacitava di cosa gli fosse accaduto. Quando scopri allo specchio le sue nuove sembianze, corse gioioso alla volta del vicino mare. Era davvero un pesce, così come i suoi sinceri amici, con cui avrebbe potuto vivere fino all'ultimo dei suoi giorni.
Il demonio per la felicità di Cola si morse la coda.
Scornato per l'inano risultato ottenuto, fece ritorno con le pive nel sacco nel suo infimo regno. L'amore di Cola Pesce per il mare e per i suoi abitatori aveva vinto finanche il maligno Satana.
Le cosiddette mostruosità di Cola Pesce erano, invero, solamente dettate dalle necessità marine. Infatti, quando il giovane usciva dalle acque del mare, come per incanto, il suo corpo riprendeva le perfette sembianze umane giovanili. Questa perenne metamorfosi servì a lenire, e di parecchio, il dolore di Agatina, causato dalla sua terribile maledizione, "perché in fondo", si ripeteva, "ho reso felice Cola".

Non appena il giovane s'avvicinava al mare, il suo corpo incominciava a scuotersi. Ma solamente, quando Cola era affatto immerso nelle acque marine, s'aveva la metamorfosi del suo corpo in pesce. Le sue immersioni non avevano tempi stabiliti, e potevano durare ore, giorni, mesi e talora anni.
Una volta, annunciò che sarebbe partito per un viaggio che l'avrebbe condotto fino al mare Oceano per conoscerne le strane e misteriose creature che l'abitassero, di cui i naviganti, quei pochi che vi s'erano avventurati, raccontavano cose mirabolanti, e visitarne gli sconosciuti profondissimi abissi.
Passò il primo anno, il secondo, il terzo, ma di Cola Pesce non giungeva alcuna notizia. Qualcuno incominciò ad avanzare l'ipotesi che uno squalo avesse banchettato con le carni del giovane o che fosse finito nel ventre d'una balena.

Quando il ricordo dell'Uomo-Pesce sembrava quasi cancellato dalla memoria d'ognuno, ecco ricomparire Cola.
Lo trovarono alcuni pescatori messinesi imbrigliato tra le loro reti. Fu scambiato per un orrendo mostro marino, ma quando fu issato nella barca, Cola Pesce riacquistò il suo magnifico umano sembiante. 
- E' Cola - gridò qualcuno, - sì, è Cola Pesce - concordarono tutti.
- Amici -  iniziò con voce rauca per la lunga residenza marinara, il giovane, ergendosi in tutta la sua possente figura - cose incredibili e straordinarie ho visto. Vi porto conoscenza specifica dell'infinito mare Oceano, che non ha né confini, né fondo. Stranissime e singolari creature abitano in quegli oscuri abissi. Vidi un drago lungo quasi una lega con pinne ed ali amplissime sollevarsi dalle acque e volare meglio d'un uccello. I suoi colpi di ali agitavano con cotale possanza il mare da generare onde alte quanto una montagna. Il suo largo e capiente ventre era insaziabile. La sua bocca doveva essere fornita d'una potente calamita, se attraeva i pesci da distanze impensabili.
Cola Pesce continua nel suo racconto, affermando che il terribile drago l'aveva attaccato tre volte, e che per tutte e tre le volte era riuscito a sfuggire alle sue fameliche brame. L'ultima volta, però, il mastodontico mostro l'insegui per leghe e leghe. Non s'arrestò nemmeno innanzi alle due rupi eraclee. Proseguì nel mare Nostro fin alle vicine isole eoliane, ove Cola Pesce si salvò, discendendo in una profonda e stretta caverna, impraticabile dal drago per la sua smisurata mole. Durante il suo lungo viaggio Cola aveva visto città sottomarine coi palazzi costruiti d'oro, d'argento e di perle più splendenti del sole, abitati da uomini giganti. Esisteva al di là delle Colonne d'Ercole un mare di alghe auree, che accecava soltanto a guardarlo. Tanto intensa era la sua luminosità.
- Le ricchezze del mare sono incommensurabili,
spiegò, concludendo il suo racconto, spesso frammezzato da domande che i pescatori gli ponevano, cui il giovane rispondeva con vero piacere. Il racconto del viaggio che Cola aveva fatto ai suoi amici pescatori e che sarà costretto, in seguito, a fare mille volte per le insistenti richieste d'ognuno, fece il giro dell'Isola, generando grande meraviglia ed ammirazione di tutti. Cola Pesce era divenuto, così come era successo nell'antichità, il mito del mare di Sicilia.

Capitava spesso che i naviganti l'incontrassero durante i loro lenti viaggi. Dapprima si vedeva in lontananza un puntino avvicinarsi a grandissima velocità, per tramutarsi in pochi istanti nella figura del giovane Cola. Lasciava dietro di sé una scia spumeggiante e luminosa. Generalmente, saliva a bordo delle navi, dove era solito banchettare in allegria coi marinai, cui dava preziosi consigli sulle correnti, sulle burrasche in arrivo, sulla rotta più sicura, sui fondali marini, sulle secche e sugli scogli affioranti.
Era diventato anche una specie di messo del mare, perché accettava di buon grado di portare messaggi per tutto il Mediterraneo. Non poche volte il Re di Sicilia l'incaricò tramite suoi legati di portare urgenti dispacci ai sovrani di Spagna, di Napoli. Prestava i suoi servizi spontaneamente e senza pretendere alcuna ricompensa. Nei tragitti più lunghi, si riposava su qualche scoglio che incontrava oppure s'aggrappava a qualche legno che trovava in mare. Talora si serviva della disponibilità d'un delfino, che lo trasportava sul dorso per leghe e leghe.
Passando vicino alle navi, i marinai lo riconoscevano subito e gli gridavano festosi:
- Possa tu, o Cola, giungere alla tua meta sano e salvo
- Anche voi, amici miei -
rispondeva, mentre spariva veloce all'orizzonte.

Messina gioì sempre della disinteressata e preziosa opera di Cola Pesce. Più volte, scoprendo nel fondo del mare galeoni pieni di monete d'oro, ne fece dono alla sua città, arricchendola ed impreziosendola.
Il mito di Cola Pesce, col tempo, superò finanche gli stretti confini del Regno di Sicilia per acquistare i cuori e le menti delle genti di Spagna, di Francia, di Germania, d'Inghilterra. Le imprese mirabolanti ed i servizi resi al Re di Sicilia da Cola Pesce convinsero il sovrano ad incontrarlo per provare la veridicità dei molteplici racconti.
Il Re giunse a Messina con tutto il suo numeroso codazzo e con la sua splendida figlia Costanza. Il sovrano prese un anello d'oro incastonato di diamanti e lo scagliò dalla sua nave nel centro dello Stretto, ove più accanite apparivano le correnti marine. "Ripescalo", ordinò a Cola Pesce. L'Uomo-Pesce si tuffò nel vortice delle agitate acque, cercò, ricercò, alla fine vide l'anello tra le spire d'un terribile e viscido serpente. Senza tema alcuna, ingaggiò una furibonda lotta col mostro marino. Il mare si riempì di spuma, mentre i poderosi colpi di coda del serpente alzavano delle impressionanti onde. Poi, tutto ad un tratto, il mare si placò. Ed ecco venire fuori dalle acque Cola Pesce con l'anello tra le mani. Un grido di vittoria si levò dagli astanti che a frotte erano colà convenuti con le barche, mentre altri assistevano alla scena in piedi sugli scogli.
Il Re si congratulò vivamente col giovane per la grande impresa compiuta. La principessa era affascinata da Cola Pesce, da cui non tolse per un istante i suoi luminosi occhi azzurri. Cola non s'era ancora ripreso dall'immane fatica che il sovrano ributtò l'anello in acqua. 
- Vai, Cola, e raccontami tutto quello che vedrai

Le parole del Re furono seguite dall'immediato tuffo di Cola Pesce. L'anello d'oro era caduto dentro una voragine oscurissima. Dall'alto non se ne scopriva il fondo. Cola, allora, scende con velocità incredibile nel tetro baratro marino, ma l'anello scompare dalla sua vista. Inizia una minuziosa ricerca di quel sito, abitato d'animali immondi ed orridi, da serpenti, da polipi giganti forniti di mille tentacoli, da voluminose salamandre velenose, da gronchi con corpo e testa spropositati, da draghi vomitanti fiamme. Supera ogni pericolo con abilità e con la lotta corpo a corpo. Penetra quell'infinita profondità fino a raggiungere le viscere magmatiche, infuocate dell'Etna. Qui, finalmente, ritrova l'anello, che riporta in superficie inseguito da un polipo gigante, con cui preferisce non ingaggiare battaglia per la mole smisurata del mostro.
Trascorse un intero giorno prima che Cola Pesce facesse ritorno dal cuore dell'Etna. Salì sfinito sul galeone del Re, tra il tripudio generale del popolo ed il consenso tacito del cuore della principessa, che gioiva dell'incredibile impresa dell'aitante giovane. Costanza lo guardava con lo sguardo fisso. Tremava come una foglia al vento. Aveva avuto paura che Cola non avesse fatto ritorno. S'appoggiò amorevolmente al braccio del Re, che le sfiorò la mano delicatamente.
Quell'apparente gesto insignificante servi a darle coraggio e a rasserenarla. Poi, il sovrano tuonò con la sua cavernosa ed inconfondibile voce:
- Cola, cosa hai visto?
- Somma Maestà, animali terribili e perniciosi, un abisso profondo un numero imprecisato di leghe ed il fuoco rosso dell'Etna, che faceva ribollire l'acqua, come le caldaie dell'inferno
- Bravo, Cola. Hai compiuto due imprese davvero mirabolanti, impossibili per qualsiasi altro uomo al mondo. Ma non sono ancora sufficienti, perché tu possa andare a pari con la tua fama. Necessita che tu scopra in quali condizioni sia il reggimento marino del nostro regno
- concluse il sovrano, tra l'approvazione del suo cortigiano codazzo.
Soltanto la principessa si mostrò contraria alla nuova impresa
- Padre, padre mio - iniziò Costanza - che ragione c'è di codesta nuova perigliosa intrapresa. Circumnavigare la nostra Isola a nuoto è rischiosissimo. Nessun uomo al mondo ne sarebbe capace. Nemmeno Cola. Perché, padre mio adoratissimo, vuoi ch'egli perisca? Sarei infelice per tutta la vita, se questo terribile evento dovesse accadere.
 Mentre la giovane principessa parlava, continuava a guardare ammirata Cola, che ora le appariva un dio marino dalle perfette fatture.
L'affettuoso Re comprese il grande travaglio amoroso che stava attanagliando la figlia. Invero, anche Cola Pesce era stato punto dagli acuminati strali di Cupido. Il suo sguardo dolce e languido lo testimoniava. Avrebbe voluto spiegare a Costanza il suo amore impossibile, che lo frastornava e lo sconvolgeva impetuosamente. Un popolano, qual egli era, non poteva aspirare alla mano d'una principessa. Lo sapeva benissimo, anche se il suo cuore non conosceva ragioni. 
A scuotere i due innamorati dalla loro malcelata passione, intervenne il Re, che con voce pacata, ma senza preamboli disse:
- Cola, la Trinacria ha bisogno dite. Scopri lo stato del suo reggimento. Tutto il popolo te ne sarà grato. Ed io, Re di Trinacria, ti farò principe di tutte le acque marine del Regno.
- Maestà, preferirei vivere come ho sempre vissuto: senza ricchezze e senza titoli. Esentatemi, Cristianissimo Sire, da quest'impresa. Ve ne supplico.
La richiesta di Cola scaturiva dal suo grande timore di dovere accrescere il dolore della principessa, giammai da preoccupazioni per la sua incolumità personale.
Il Re, alle parole del giovane, s'infuriò alquanto e con tono minaccioso disse:
- Non vuoi tu, Cola Pesce, aderire alla volontà del tuo Re?
L'ordine del Sovrano s'era fatto perentorio. Un rifiuto sarebbe equivalso ad una condanna a morte.
- No, padre mio - gridò Costanza terrorizzata.
Ma il Re, prima ancora che la figlia avesse concluso la sua frase di dissenso, aveva già buttato un'altra volta l'anello d'oro a mare, per indicare a Cola Pesce di tuffarsi per la grande ricognizione sottomarina.
Il giovane prese una ferula ed un pugno di fave e disse:
- Sire, se questa ferula e queste fave verranno a galla, vuol dire che sarò morto.
S'avvicinò, poi, alla principessa, la baciò pudicamente sulle rosse guance tra lo sbigottimento generale e dello stesso Re. 
- Ad un popolano non sarebbe stato ammesso baciare Costanza, ma ad un sicuro prossimo principe, sì - aveva ripetuto mentalmente tra sé Cola, prima di prendere quell'azzardatissima decisione.
Quindi, si tuffò nelle acque dello Stretto, inabissandosi.
La buona e dolce principessa al bacio di Cola stava per cadere in deliquio, soltanto l'immensa forza del suo grande amore la tenne in piedi. Dopo qualche attimo di smarrimento, preoccupata e sconvolta profondamente per i pericoli contro cui stava andando incontro il giovane messinese, non resistette oltre e si gettò disperata in mare.
Un vortice determinato dalla fortissima corrente la trascinò subito a fondo, sottraendola agli sguardi spaventati degli increduli astanti. Il Re comandò che qualcuno si buttasse in mare per salvare la principessa. Tre valentissimi nuotatori accolsero subito l'ordine del sovrano. La ricerca durò per tutto il giorno, ma della principessa nemmeno l'ombra.
Cola Pesce, avvisato da una murena, era subito risalito alla ricerca del suo amato bene. Vide la principessa, inghiottita dall'inesauribile gorgo, le corse incontro, per strapparla al terribile mostro. Cola si ricordò della maledizione della madre Agatina e del suo effetto. Quindi, con voce rotta dal dolore, le gridò con quanto fiato avesse ancora:
- Possa, tu, o Costanza, diventare pesce!
La principessa, come per sortilegio, assunse subito le stesse sembianze di Cola. Il giovane le si avvicinò, la baciò, la strinse forte a sé ed insieme s'avviarono alla ricerca dell'eterna loro dimora marina.
Il Re si convinse della morte d'entrambi, perché risalirono a galla sia la ferula di legno sia le fave. 
Si dice, invece, che i due amanti avessero scoperto che la Trinacria si regge sopra tre colonne, di cui soltanto due stabili. Mossi d'amorevole affetto per il popolo e la terra di Sicilia, Cola e Costanza si sarebbero fermati sotto Capo Peloro, sede della colonna logorata, per sostenere il peso dell'Isola.
Qualcuno che li ha visti, giura che vivono ancor oggi felici e contenti tra i pesci e le correnti.

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