Progetto
IHAD: Achab the sailor
Cola
Pesce
Mi mancava il
sonno.
Dalla taverna d'angiporto, satura delle roche parole dei marinai e del silenzio della
ragione, sono fuggito in cerca della mia ombra.
Ho camminato a lungo, sui moli silenziosi, contando fantasmi di barche dondolanti pigre
alla carezza del mare, sentendo il mormorio costante del sartiame rispondere alle domande
del vento.
I miei piedi hanno lasciato le murate ed hanno trovato gli scabrosi scogli, duro passo
ricolmo di odori; ho cercato la sommità, per interrogare la massa scura e viva, salata e
crestata.
Aspetta, c'è un'ombra: i miei passi uguali mi portano avanti, e l'ombra prende contorni,
si fa cosa, poi persona, poi donna, un mantiglio nero che ne nasconde il corpo, uno
scialle nero che ne copre il capo.
Sul promontorio che si fa strada, all'ultima punta che precipita verso il seno crestato,
dove il fiato del mare è più sonoro, la donna è ritta, lo sguardo perso nella notte
buia
La luna è tramontata e le argentee stelle non sono che scintille incapaci di aprire le
tenebre, il vento ha disperso il latteo chiarore dei giorni di bonaccia.
Il cielo, il mare fusi in un'unica essenza, forse qualche luminescenza antica, forse il
guizzo di qualche marina fiaccola accende or qua or là la massa scura
Son fermo, a fianco la figura che non s'è mossa, non ha girato il capo, non ha dato segno
d'essersi accorta di me
Fisso il mare e lascio la mia mente a sciacquarsi di tutte le brutture, in un bagno
purificatore, facendo scorrere il tempo inconsapevole fra le dita.
"E' passato
tanto tempo, ed ancora lo aspetto"
Le parole mi
giungono da un profondo dolore, senza essere inaspettate, senza essere richieste. Non mi
giro, non guardo la donna, è la voce del mare.
"Non so più
quanti anni sono, quante volte Cassiopea s'è tuffata in mare, scomparendo per lunghe
notti, per poi tornare a splendere nel cielo. Ma io l'aspetto.
Eravamo felici su questo pezzo di mare, ed ancora i moli non rompevano con le lunghe dita
la dolcezza del seno in cui le barche dei pescatori entravano, dopo lunghe e faticose
battute alla ricerca del pesce. La sabbia era sottile, venata di quarzi di argento ed oro,
intrisa di sale, ed era larga, con le dune su cui aspre erbe ritte di spine si
abbarbicavano ancora, a contrastare il regno salato del mare ed il continuo venire del
vento.
Le nostre capanne, dietro, povere di spazio e ricche di canti, i panni stesi al sole, i
vecchi seduti, i giovani affannati sul ranno o sulle reti, a lavare od a rammendare, il
canto di voci libere, il canto del cuore.
Cento erano i giovani pescatori, ma il più bello era lui, il mio Cola, Cola Pesce: una
criniera leonina di splendidi e neri capelli, due occhi neri come carboni ardenti, la
fronte alta, il naso duro e forte, aspro come gli scogli, fremente come le vele tese dal
vento, la bocca disegnata da un grande pittore, ora rossa come le ciliege, ora riarsa e
screpolata dalla salsedine, i denti bianchissimi e forti, tali da spezzare il refe più
spesso, taglienti. Il corpo di un dio, il torso d'un guerriero, fianchi stretti e svelti,
coperti dalla ruvida stoffa, gambe come colonne vive: oh, si, era il più bello.
Quando tornavano a riva, le reti ancor colme di prede guizzanti e di verdi baffi d'alghe,
quando i muscoli duri si tendevano alla fatica, ed i torsi si torcevano come archi allo
sforzo di trascinare in secca le barche colme, era una gioia per noi giovinette e
fanciulli correre a dare il nostro aiuto, sciamando come libellule liete.
Ed io sempre cercavo il suo scafo, io sempre alla sua barca andavo, ed ero bella nei miei
quattordici anni, coi miei capelli lunghi, il mio seno appena sbocciato, il fuoco che già
mi correva nelle vene. Ed un giorno Cola mi guardò. Credo d'aver sentito colare nelle
viscere oro fuso, tanto il suo sguardo mi accese.
Canzoni, stornelli, barcarole e balli furono quel giorno, per la pesca abbondante, e Cola
Pesce mi scelse, mi volle come compagna di balli e di grida, di pesce succulento e di
fresco vino chiaro. I suoi occhi mi accesero, e quando, il sole a morire dietro le dune,
già spenta la festa pagana, quando, dicevo, la sua mano cercò la mia, io gliela diedi,
ed un languore di brace mi sciolse le paure, mi dette l'oblio.
Camminammo a lungo, mano nella mano, nel fresco del primo tramonto, colla brezza nei
capelli, col mormorio delle onde come una canzone.
Mi stese sulla sabbia, accompagnando il mio corpo con le sue braccia robuste, scese su di
me come un'aquila gloriosa, la sua bocca scese su di me come una rosa di fuoco, prese le
mie labbra, volle i miei denti, violò la mia mucosa, s'impadronì della mia lingua.
Avevo smesso di respirare, di pensare, di vivere, ero una cosa sola con quel bacio fatto
di vino, di sapide cibarie, di salmastro e d'amore, il mio primo bacio. Il tempo passava
lento con le nostre salive che si mischiavano, con le mie mani nei riccioli duri e setosi,
con le sue braccia a stringere il mio corpo.
Gli occhi chiusi, la sua bocca già lontana, ho sentito mani frugare e sciogliere i miei
panni, ho sentito mani cercare la mia carne innocente, calde come l'inferno di cui mia
madre mi parlava, ma dolci e tenere come i miei sogni segreti, mani che mi hanno liberata
d'ogni barriera, mani che m'han lasciato vergine nuda, sulla rena sottile ed accogliente
Gli occhi chiusi, non ho visto Cola liberarsi anch'esso delle pastoie delle vesti: sentivo
l'ansito del mare mischiato al mio respiro aspro di desiderio
Gli occhi chiusi, ho sentito il suo corpo adagiarsi sul mio, lento, dolce, attento a non
pesarmi, e la sua carne era di fuoco.
Gli occhi chiusi, ho cercato con le mani il suo volto, il naso forte, le labbra.
Gli occhi chiusi, ho sentito la sua voce chiamarmi
Ho aperto gli occhi, e lui era sopra di me, la testa ed il torso sonoro, il viso più
bello di quello dell'arcangelo disegnato sulla pala dell'altare a cui portavo le mie
preghiere, gli occhi dolci e larghi, grandi più delle polle che il mare lascia dopo
l'alta marea negli anfratti. Dio, se era bello!
- Ti farò mia,
vuoi essere mia? - La sua voce sapeva di suoni d'organo - Di fronte a questo
mare, vuoi essere la mia donna?
Io avevo
quattordici anni, il seno in fiore, ed un dio sopra di me che mi chiedeva in sposa. Ho
chiuso gli occhi, e con entrambe le mani ho cercato i suoi riccioli, li ho afferrati, ho
tratto a me la sua testa leonina, mi sono lasciata aprire dalle sue labbra e dalla sua
lingua in un sì detto con l'anima mia trasfusa nel bacio.
Gli occhi chiusi, ho sentito il suo potere bussare alla piccola porta mia rabbrividente, e
mi sono aperta, piantando i miei calcagni sulle dure carni dei suoi reni. Ah, spada di
fuoco, splendida spada, ma cortese, ma tenera, ma dolce, ma premurosa, che mi hai aperto
il ventre, che hai raccolto le stille rosse del mio giuramento, spada incommensurabile che
hai frugato nell'intimo stesso dell'anima mia, che hai creato onde nel mio ventre, che hai
dato voce al mio essere donna!
E la tua bocca, Cola, incollata alla mia, a bere i miei spasimi, il dolore lancinante e
subito dimenticato, il crescente piacere, la palla incandescente che cresceva nella mia
carne, esplosa in gemiti. Ah, spada di fuoco, come ho avvertito il depositarsi del tuo
seme nella mia matrice, come ho sentito il patto eterno che ancora ci tiene"
La voce della
figura è profonda e piana come è profonda e senza increspatura l'acqua delle buche
oceaniche, sembra venire dal seno della terra, non dalla bocca della donna.
Monocorde, senza inflessioni di passione, dolore, odio, appare come il passare del vento
costante fra i canneti del delta paludoso dei fiumi.
Mi giro a guardarla, mentre una pausa trafigge la notte, ed il suo volto, ritagliato dallo
scialle, come nei quadri delle Madonne antiche, è una macchia chiara, febbrile, un
profilo antico e bello, su cui il tempo ha lasciato tracce cortesi, in modo che l'antica
bellezza traspare sotto le vestigia dei dolori. Doveva essere bellissima, doveva essere
bellissima.......
Non si è mossa, la figura, ed il suo profilo è un cammeo antico, in cui le pieghe amiche
del tempo hanno solo attenuato, come velato, la bellezza.
"E tornammo,
allacciati, la vita davanti, alle nostre case, ma lui volle che io entrassi subito nella
sua, senza neppure passare dalla famiglia che mi aspettava, e , secondo l'antica usanza,
mi fece spogliare e lavare il lavacro sacrale, appendendo i miei vestiti, tutti,
all'esterno della porta della sua capanna, lasciando fuori tutto quello che ero stata
prima, lasciando oltre la soglia la mia appena sbocciata giovinezza, la mia famiglia,
tutto."
La voce tornava a
spandersi nell'aria, ed i miei occhi son tornati al mare. Lontano, le lanterne delle
lampare per la pesca di notte disegnavano in mare le costellazioni del cielo.
"Come ci amammo, e come i canti nascevano nella nostra capanna, spandendosi per le
strade, raggiungendo le soglie del mare, ad offrire a tutti il segno tangibile della
nostra felicità!
Cola era il migliore, le sue reti sempre le più colme, le sue mani le più forti, il suo
cuore il più grande. Non v'era scafo che non avesse le mani di Cola Pesce nel suo
fasciame, non v'era albero od antenna che non avesse i segni della sua ascia. E se un
giorno qualcuno tornava senza preda, i fianchi opimi della barca di Cola rovesciavano
preda sufficiente anche per l'altro. Il mio cuore era colmo di lui, come il mio ventre, e
gli diedi un figlio.
Quando, ancora viscido del liquido amniotico, il cordone con cui lo avevo nutrito appena
tagliato, lui lo volle prendere fra le braccia e consacrarlo al mare, io vidi il dio
stesso della vita e dell'amore in lui.
E vivemmo felici, ed un dono lui mi diede per il figlio che avevo partorito: Con le perle
che aveva raccolto nel ventre fecondo degli abissi, dove nessuno gli era maestro, volle
fare una collana, splendida di barbagli, e la legò col filo tenace del refe delle reti, e
me la mise al collo. Ci amammo, e la nostra casa era benedetta ed i nostri giorni erano
lieti. Ma....."
La voce cambia,
sembra ancor più fonda, cavernosa se non fosse per l'armonia femmina che la distingue, ma
lugubre e scura come i cumuli all'orizzonte neri quando cambia il vento e maestrale
arriva.
"Ma un mattino
di un giorno qualsiasi, un mattino uguale a mille altri, prendemmo il bimbo e decidemmo di
andare alla città. La barca correva spinta dal vento, il timone saldo governava lo scafo,
i gabbiani erano alti ed una bava d'argento si allungava a prua, argentina come le risa
del mio bambino. Approdammo, ancorammo saldo lo scafo, imbragammo le vele, ed
andammo camminando per le strade. Folla, luci, suoni, odori, tutto era gioia e voglia di
conoscere, gli imbonitori ed i saltimbanchi, i cesti colmi di frutta sciorinati fuori dai
negozi, la gente coi vestiti multicolori, il cicaleccio le grida, il rumore dei carri
trascinati da maestosi buoi. Vedemmo l'uomo che sputava fuoco, il carro di Tespi con i
suonatori di strada, le mille stranezze dei funamboli che camminavano sulle nostre teste.
D'improvviso, squilli di trombe e rullio di tamburi chetarono il brusio, mentre due messi
dai costumi ricchi e scintillanti, accompagnati da tamburini e trombettieri si fermarono
al quadrivio.
Ci avvicinammo incuriositi, e sentimmo l'annuncio
- Udite, udite,
udite! Per il giorno anniversario della nascita della Principessa, il Magnifico nostro
Signore e Re concede a tutto il suo popolo di partecipare al banchetto che si terrà
domani sulla grande spianata
E l'annuncio fu
ripetuto dall'altro messo, nell'altra direzione. Chi ebbe l'idea di partecipare al
banchetto, forse io, per sfoggiare il mio abito da festa, i miei gioielli? Non lo ricordo
più, ma certo fu il destino a decidere. Tornammo a casa, lieti, felici per la festa
dell'indomani, Cola scese in mare e tornò con le reti gonfie, scelse un regale
accostamento di prede da portare come omaggio al Sovrano, lui tanto altero da non
conoscere il ricevere senza dare, e non contento, scese coi suoi polmoni nelle profondità
del mare per carpire enormi e bellissime, vive, aragoste.
Dormimmo, ed al mattino io indossai i miei panni più belli, vestii il mio piccolo ed il
mio Cola con quanto di meglio, tersi e lindi e senza pieghe.
Ci avviammo, la
barca docile ci portò in città. La spianata grande era piena di gente e di tavole,
multicolore e rumorosa, colma di risate e di richiami. Uno splendido palco coperto da una
ricca tenda, col pavimento carico di spessi tappeti, guardie ed armigeri a circondarlo,
era lo spazio per la tavola del re e dei suoi dignitari. Allegria, cibarie, vino si
rincorrevano sulle tavolate, e noi eravamo in buona compagnia. Cola aveva deposto il suo
omaggio insieme ad altri, frutta ed altro che qualcuno aveva portato. Il cicaleccio era
intenso e tutti erano felici in questo giorno speciale.
Sul palco regale, agitazione contenuta, galateo, gesti cortesi. Si vedeva poco, era
lontano.
Chissà perché il mio sguardo fu attirato da pochi movimenti sotto la tenda, chissà
perché mi chiesi se non avevo osato troppo ad ingioiellarmi con le poche cose che avevo,
e perché guardai la collana di perle regalo di Cola, che quel giorno avevo messo.
Ma era destino....
I movimenti alla tavola del re si fecero più vivaci, e vidi che portavano al sovrano i
poveri doni del popolo. Ad un tratto, un dignitario si staccò dalla tavola, confabulò
con alcune persone, poi scese in mezzo alle tavolate. Perché seguivo tutto ciò?
Man mano che si avvicinava lo seguivo con sempre maggior interesse, man mano cresceva in
me come un disagio. Il personaggio scambiava parole cortesi quasi con ogni tavolo, ed
infine si fermò al nostro, augurandoci il buon giorno e la felicità. Poi chiese se tra
noi c'era tal Cola Pesce, che il Re voleva ringraziare per l'omaggio molto gradito.
Cola si alzò e rispose con garbo, ma il dignitario chiese di accompagnarlo al cospetto
del Sovrano. Cola mi prese la mano, prese suo figlio con l'altra, ed insieme ci avviammo
dietro il personaggio, fermandoci più volte quando lui si fermava. Ci avvicinavamo al
palco reale e la mano forte di Cola mi infondeva coraggio. Presi il bimbo in braccio.
Salivamo i gradini del palco, quando la vide, e rimase folgorato. Potei vedere l'effetto
del fulmine su di lui, rendermene conto a vista e dalla sua mano, improvvisamente morta.
Come era bella!!!
Le Madonne degli altari erano l'unico paragone, e lei le vinceva. I suoi capelli, d'oro
fuso, lucenti, lunghi ed ondosi, i suoi occhi grandi, abbaglianti sotto le ciglia
lunghissime e morbide, verdi come lo smeraldo più fine e trasparenti come l'acqua delle
polle, l'ovale perfetto del volto, il rosso corallino delle labbra, il colore morbido e
setoso delle pesche, il collo sottile, armonioso, il vestito che faceva risplendere il suo
corpo.
Come era bella!!!
E Cola era lontano, già perso per me. La sua mano gelida, inerte, il suo corpo rigido,
l'occhio che scorgevo dilatato e fisso. Le parole del cerimoniere lo scossero e lo
portarono avanti al Re, che con grazia e cortesia lo ringraziò dell'omaggio veramente
splendido, come disse, e Cola balbettò poche parole inebetite, il corpo, gli occhi,
l'anima già presi nella morsa della passione. Che suono melodioso si diffuse quand'ella
schiuse le labbra chiedendo di vedere le mie perle, dicendole degne di una regina, e come
brillava più di mille soli il suo sorriso dolcissimo, quando, toltami la collana,
tremante gliela porsi perché la guardasse.
Ella la rigirò fra le diafane dita, la saggiò con l'unghia falcata, me la ridiede con un
gesto cortese, dicendo che nessuno meno di un re poteva fare simili regali"
La voce è
profonda, la figura immobile, il vento sottile della notte mi accarezza il viso con le sue
ali umide
"La sua voce
aveva una musicalità infinita, bella come era bella lei.
E Cola rispose. Gli occhi sbarrati, in fiamme, il volto tirato, i lineamenti come
stravolti, Cola rispose. La sua voce usciva dalle tenebre, inflessioni metalliche, rovente
come la fiamma che lo stava bruciando:
- Domani, una più bella e luminosa splenderà per te, domani a quest'ora te la
porgerò .
E prima che le
parole si spegnessero nell'alito del vento, era fuggito. I miei occhi erano asciutti, nel
mio ventre la burrasca. Raccolsi il figlio mio, ed andai via. Via da quei suoni, via da
quella luce, via, via, con davanti la lunga strada fino alla mia casa.
Era vespro, quando arrivai, e Cola non c'era. Detti il cibo al figlio, lo coprii con le
coltri, aspettai che dormisse. Ed attesi. Passava il tempo, lontane le stelle segnavano la
loro posizione in cielo, attesi.
Piano, come mai era stato, piano nel cielo e nel mio cuore le dita rosee dell'aurora
cominciarono ad alzare lo scuro velo della notte. Ed attesi.
Il disco del sole iniziò ad alzarsi, ramato dapprima, fulgido ed inguardabile poi, ed
attesi.
Il mio cuore era una caverna sorda e vuota ed attesi.
La prima parola di mio figlio al giorno mi svegliò dal torpore, lo alzai, lo rivestii,
gli diedi il povero pasto. Poi, presolo, lo portai senza parole a chi me lo tenesse.
Abbandonai mio figlio, abbandonai la casa, abbandonai il mio sogno.
Lunga fu la strada, lunga e faticosa per arrivare in città, ma non v'era fatica maggiore
dell'orrido che si andava allargando nel mio cuore.
Raggiunsi il
palazzo e mi fermai. Non ho visto nulla, non ho sentito nulla, c'era quel portone chiuso,
ed io in un angolo della spianata, a fissarlo.
E lui arrivò. Oh, in che stato era, il mio Cola: stracciati i suoi vestiti, segnato dalle
punte degli scogli il suo corpo, sangue rappreso e dilavato sulle sue carni, la bella
chioma leonina incrostata di alghe, fradicia di salsedine, cerchi feroci a segnargli gli
occhi, come era ridotto, Cola Pesce!!!
Si fermò febbricitante di fronte agli sgherri, parlottò, si infuriò, venne respinto con
parole che io non potevo, lontana, udire.
Ed allora iniziò ad urlare quel nome, impazzito, rabbioso, come un mannaro alla luna.
E tant'ebbe voce e fiato (quante pugnalate al mio cuore, dio degli eterni astri, quante
ferite inferse quel nome) che il portone si spalancò, e lei apparve, col codazzo dei
cortigiani e cicisbei.
Dio, com'era bella!!!
E Cola frugò la
blusa stracciata, porse un sacchetto, lei si ritrasse un poco, Cola lo aprì.
Da dov'ero, vidi i barbagli di luce delle bellissime perle, vidi gemme di mare grosse come
nocciole.
Ma lo schernirsi della fanciulla, il risolino della piccola corte non erano d'approvazione
Vidi più volte il gesto d'offerta, vidi il rifiuto vidi il corpo di Cola piegarsi come
sotto un maglio, vidi finalmente il gesto sprezzante della fanciulla che passava indolente
e leggera il sacchetto appena toccato ad uno del seguito.
Ed udii il grido di Cola, la sua promessa:
- Ancora più
belle, domani, ancora più grandi, sulla mia vita-
Chiusi gli occhi,
chiusi forte gli occhi, li strinsi fino a farmi male. Io sapevo, io so quanto il mare è
geloso delle sue gemme vive, e quanto dolore ha racchiuso in se ogni atomo dell'arcobaleno
vivente che chiamiamo perla. Io sapevo, io so come nascoste e segrete siano nel ventre
tremendo delle onde,. Ed ebbi paura.
Quando ho riaperto gli occhi, il portone era nuovamente chiuso, Cola scomparso, la terra
arida e matrigna.
Ho dimenticato la casa, ho dimenticato il figlio, ho dimenticato la vita. Ho lasciato
scorrermi addosso il lento fluire del tempo, all'estremo dello spiazzo, senza muovermi,
senza cercare ricetto, senza lacrime.
Ho aspettato, l'ombra mia sempre più lunga, quasi a lambire il lontano portone, e poi il
crescere dell'oscurità, l'accendersi di Venere, la prima delle stelle, il comparire delle
lente e silenziose costellazioni, il calmo procedere della luna, regina della notte.
Ho atteso, gli occhi fissi sul dolore della mia carne, l'anima tesa verso quegli abissi di
acque nere dove il mio uomo sfidava un dio geloso, strappandogli tesori.
Ho atteso, arida come la pietra, riarsa come una pianta morta, bolo di carne dolente.
E di nuovo l'aurora, il sole, la luce, il calore che si fermava contro la barriera gelida
del mio dolore. E di nuovo l'ombre sempre più lunghe, di nuovo il limite del giorno.
Ma Cola Pesce non poteva mancare alla sua parola. Un uomo schiantato, screziato di sale e
di dolore, il torso (oh, il torso di Apollo eraclide era il suo!) contorto, storto,
spremuto, lunghi solchi violacei da cui lenti rivoli rossi macchiavano le carni, sale sul
viso, nei capelli, nel naso, occhi d'un rosso caprino, bordati di nero, le colonne
splendide delle sue gambe straziate, squarciate, i tendini scoperti.
Un istinto di vita mi fece correre a lui, dolente come le merope, anelante come Niobe.
Non mi vide, a due passi da lui non mi vide!
Le guardie lo fermarono ed egli si divincolò, strana bestia metà marina metà umana, ed
urlò, ancora un urlo tremendo, lungo come un gelido inverno, ed il suo nome risuonò come
l'ululato iroso dell'uragano nelle gole spezzate dei monti.
Urlò, urlò senza fine, belva ed uomo assieme. Tendeva mani scarnificate, racchiuse a
coppa a tenere le più belle e pure perle che l'oceano abbia prodotto, bianche ed
abbaglianti alcune, nere come la notte altre, e screziate, e lattiginose, ed arcobaleni
pietrificate.
Urlava, Cola Pesce, e tendeva al portone le mani sanguinanti, il bianco del tendine
esposto a contendere il lucore della perla, il rosso rubino del sangue ad esaltare il nero
delle preziose.
Ed il portone si aprì, lei venne, col suo codazzo.
Non vedevo più la sua bellezza, non vedevo più niente, se non Cola, se non il mio uomo
cambiarsi in servo, in buffone, mentre le sue membra si piegavano, si torcevano, mentre i
suoi occhi cercavano il volto di lei, la bocca gonfia e violacea storta in un ghigno
doloroso, il sangue che colava da un lato.
Camminò fin qui, la fanciulla, qui dove or son io, senza degnare d'uno sguardo colui che
era stato Cola Pesce, ed il codazzo mormorava, rideva risolini di scherno. Camminò, e
sembrava non toccasse terra, tanto era leggiadra e sapiente la sua andatura.
Il vento della sera gonfiò i suoi capelli color del grano, colorò d'un tenue rosa le sue
gote di pesca, fece fremere i delicati pori del suo nasino.
E Cola dietro, arrancando, senza parole, offrendo i tesori come un cane offre il groppone
al bastone, dietro, buffone sconnesso e contorto, ed io dietro a lui, incapace di
sorreggerlo, incapace di riprendermelo.
Finalmente, la fanciulla lo guardò, ed i suoi occhi dicevano noia. Con fare ritroso,
raccolse le perle, le soppesò nella diafana mano, alzò nuovamente gli occhi. Mi vide!
Ero a due passi, inchiodata al mio dolore, vuota. Mi vide. Guardò nuovamente l'uomo rotto
che era stato Cola Pesce, e con la sua voce melodiosa:
- A chi vuoi
dare questi scarti? Non son degni che della tua puttana.
Le perle
scivolarono dalla sua mano, rimbalzarono sullo scoglio, qualcuna cadde in mare.
Un uragano scosse il corpo di Cola, lo raddrizzo , gli alzò fiero la testa. Come gonfiato
dall'ira cieca che si stava scatenando in lui, ebbe un movimento verso la fanciulla. Ma si
fermò. Con doloroso amore si chinò, ad una ad una raccolse le lacrime del mare, le strinse nel
pugno.
Volli correre a lui, dirgli che ero lì, che ero sua. Ma era distante, come le stelle che
stavano accendendosi in cielo, irraggiungibile.
Guardò la fanciulla, ed il suo sguardo era senza nome. Poi si girò verso di me, lento
come la faccia che la luna ci rivolge. E lo riconobbi, riconobbi il suo sguardo d'amore,
la promessa di quel giorno sulla rena. Mi disse:
- Perdonami.
Non disse altro. Un
balzo, un volo come d'angelo, e Cola raggiunse le onde.
Già l'ombra era fitta, ma il suo capo si vedeva, e si vedeva il suo braccio teso verso il
cielo, con nel pugno le perle
Ancora uno sguardo. Ed era mio.
Ancora un saluto. Ed era mio.
Un ultimo grido:
- Ricordati di
Cola Pesce.
Ed era per il mare
eterno.
Poi si tuffò, con l'agile grazia che gli era usuale, e scese verso gli abissi.
Forse eran l'ombra delle mie lacrime, ma mi sembrò che creature marine lo
accompagnassero."
La voce si placa, la brezza leggera cambia direzione, lontano, ai confini del mondo un
lucore appena accennato parla della nascita di un nuovo giorno, ancora promessa.
Io guardo il mare.
"Ecco, da
allora, per tutte le notti, per tutti gli anni, io son qui, ad aspettare Cola Pesce."
C'è una nota di
pianto? Mi giro. Il volto della figura è asciutto.
"Aspetto che,
restituiti i tesori al mare, torni da me. Lo aspetto."
Torno a guardare la
distesa, ora più netta al primo chiarore che cancella le stelle più piccole.
In silenzio, scruto il ventre infinito del mare, con le mille increspature.
Il bordo rossigno del disco solare si affaccia all'orizzonte................... laggiù,
in mezzo ai barbagli, mi pare di intravedere una testa fiera, una capigliatura riccia,
leonina, ormai verde come i pascoli dell'oceano, mi par che il lieve vento mi porti una
voce:
- Ricordati di Cola
Pesce!
achab the sailor
© 1998-99 by Progetto I.H.A.D.
Progetto ihad
(salvato dal Web da Colapisci)
www.colapisci.it
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