La vera storia di Colapesce - Flavio Minelli -
Roma - 2009
Adattamento grafico
LA VERA STORIA DI COLA PESCE
PREMESSA
Una volta, tanto tempo fa, prima di internet, prima della televisione e
della radio, perfino prima dei libri stampati e dei giornali, le
storie e le notizie le raccontavano i
cantastorie. Questi uomini in continuo movimento
tra paesi e città raccoglievano i racconti della tradizione e le novità
e le andavano riportando nei paesi vicini, spesso
arricchendole artisticamente con dettagli non
proprio fedeli all’originale.
La storia di Cola Pesce era una di quelle preferite dai
cantastorie siciliani, ne esistono decine di
versioni, tutte diverse, e si raccontava perfino
in Campania.
Oggi che i cantastorie non ci sono più tutte queste storie si
trovano nei libri che raccolgono fiabe e leggende d’Italia e se
siete curiosi potete andare a leggervele.
Io vi voglio invece raccontare la vera storia di Cola, una volta che
tutti gli abbellimenti artistici e i riferimenti
a personaggi storici, re e regine, siano stati
rimossi: la storia di un ragazzo come tanti ma con una particolarità che
lo rese unico e lo fece diventare una leggenda.
UN BIMBO SPECIALE
Dunque, c’era una volta una coppia di umili siciliani che viveva nei
pressi dello stretto di Messina. Antonio era
pescatore e Santina, come tutte le sua amiche e
conoscenti, curava la casa, cresceva la famiglia e coltivava un po’
di orto con cui integrare il frutto del lavoro del marito.
Avevano già altri figli, maschi e femmine, quando
in una limpida e fredda giornata d’autunno nacque
Nicola, con
la camicia. Non intendo dire che nacque
particolarmente fortunato, anche se alla fine qualcuno potrà pensare che
tutto sommato fu così, ma proprio che venne al mondo con il corpo
ricoperto da una specie di materiale giallino, elastico e un po’
appiccicoso, che nel giro di qualche giorno si
asciugò e sparì.
Allora non c’erano certo ospedali e cliniche e i pochi medici,
dalle scarse conoscenze, si trovavano solo al
servizio dei ricchi e dei potenti. I figli del
popolo nascevano in casa, dove la partoriente era assistita dalle sue
vicine o amiche e in particolare da una anziana che rivestiva
nella zona il ruolo di levatrice o, come la
chiamavano da quelle parti, “mammana”.
La donna che assisteva Santina, visto il
bambino appena nato, si affrettò a pronunciare
parole di sorpresa e di gioia, assicurando alla madre che la
presenza di questa “camicia” era un fatto sorprendente e
meraviglioso, che assicurava al maschietto un
futuro di fortuna e di felicità, ma il suo sguardo
diceva altro.
Comunque si affrettò a fare quel che doveva, lasciano poi il
bimbo nelle braccia della mamma, e questa alle cure delle sue
amiche.
Quando, dopo pochi giorni, la “camicia” sparì Mamma Santina si
accorse subito che c’era qualcosa che non andava: il bimbo aveva
la pelle secca e spessa, faceva fatica a prendere
il latte perché le sue labbra sembravano non
riuscire a chiudersi bene, così come gli occhi che
restavano sempre un po’ aperti, anche mentre dormiva.
La povera donna era sola, Antonio era in mare, e
lei aveva paura che le vicine potessero pensare
che un bambino così strano fosse frutto di qualche maledizione, di
un peccato dei suoi genitori o perfino di una sua innaturale
infedeltà.
D’altra parte a quei tempi le cose andavano così, nessuno dei suoi
conoscenti aveva mai visto un libro se non, a Natale e a Pasqua,
la Bibbia nelle mani del Parroco che diceva messa
in quella lingua a loro sconosciuta, figuratevi
leggere o scrivere. Lo studio era una occupazione per chi non
doveva preoccuparsi di mettere in tavola qualcosa ogni giorno e
gli episodi della vita venivano valutati sulla
base della sola esperienza, unita agli
insegnamenti della tradizione orale, trasmessa di madre in figlia.
Quello che questi genitori non potevano dunque
nemmeno immaginare – e che riguardava Nicola –
era che questa sua caratteristica gli era stata trasmessa
da loro stessi che l’avevano dentro di sé, anche se non si vedeva
(1).
A quei tempi ogni evento fuori dall’ordinario poteva essere preso
come un messaggio soprannaturale o una minaccia per la comunità,
e nella lotta per la sopravvivenza non ci si
curava molto dei deboli o dei diversi, e al bimbo
stava venendo una pelle molto strana, scura e spessa, piena di
squame grandi e pronunciate. Mamma Santina cercò quindi di
nascondere la particolarità del piccolo Nicola, e
si sforzò di affrontare la situazione. Il modo
glielo suggerì accidentalmente la figlia Lucia quando, mentre metteva
in tavola la cena, si fermò a giocare con il fratellino e senza
volere gli versò addosso una bella dose di olio
di oliva.
Ora, in Sicilia l’olio non era costoso come
altrove, ma comunque non era una cosa da sprecare così, e la piccola
Lucia si prese dalla mamma una bella strigliata, non appena
questa ebbe finito di ripulire sommariamente
Nicola da tutto quell’unto.
Il giorno dopo, però, Santina si accorse che il
bimbo aveva la pelle, dove era finito l’olio e
dove lei l’aveva strofinato con uno straccio, molto più liscia e
morbida, con le squame che si notavano molto
meno.
Da allora una parte della piccola scorta di olio fu dedicata a
ungere il corpo di Nicola, tutte le volte che la
mamma se ne ricordava o quando il piccolo si
lamentava di più. Infatti questo trattamento non sembrava solo
essere utile all’apparenza della sua pelle, ma era anche
evidentemente un momento di grande piacere per
lui, quando la mamma gli dedicava qualche minuto
del suo tempo in esclusiva, per massaggiarlo con l’olio finché non si
fosse completamente assorbito.
Anche a Santina, che non aveva mai capito come
fosse potuto accadere che a suo figlio fosse venuta una pelle così,
faceva piacere carezzarlo, anche se aveva sempre paura di fargli
male e se continuava a ripensare a tutto quello
che aveva fatto e detto durante la gravidanza, in
cerca di una sua colpa, una omissione o una voglia che avesse
portato a questo risultato.
Papà Antonio era rimasto anche lui molto colpito
quando, al suo ritorno da una pesca particolarmente fruttuosa, aveva
trovato il nuovo nato nelle braccia della moglie. Era felice che
tutto si fosse svolto senza inconvenienti, come
spesso allora capitava, ma neanche lui poteva
spiegarsi il perché della pelle di questo ultimo figlio, e in fondo in
fondo pensava anche lui che quella potesse essere una punizione per
qualcosa che Santina poteva aver combinato e si sentiva poco a
suo agio con il bambino.
Ma i papà di allora non avevano molto tempo da trascorrere con i
loro figli piccoli, le cure della mamma erano
sufficienti, e loro dovevano pensare a procurare
il cibo per tutta la famiglia.
Solo quando sarebbe stato più grandicello Antonio
avrebbe iniziato a portarlo sulla barca con sé, come già
faceva con i suoi fratelli più grandi, e a insegnargli il
mestiere.
Cola, come venne presto soprannominato il
bambino, crebbe quindi in casa con la
mamma i fratelli e le sorelle. Più con le sorelle che con i fratelli,
dato che questi ultimi iniziavano presto a fare
lavoretti fuori di casa, nelle campagne o con
qualche artigiano del paese, in attesa di poter andare a fare i
pescatori come Papà; le sorelle invece aiutavano
la mamma in casa, cucivano e facevano ceste di
vimini da vendere al mercato.
Alla mamma non dispiaceva che Cola stesse con
loro perché preferiva tenerlo lontano dagli occhi
dei paesani, sempre pronti a parlar male e a giudicare. La voce che
“l’ultimo figlio di ‘Ntoni e della Santina è un bambino strano”
correva però lo stesso.
Antonio e Santina erano d’altra parte già di mezza età e avevano
figli a sufficienza e fu così che non ne ebbero altri.
COLA PESCE
Quando Cola fu grande abbastanza da poter nuotare la mamma lo
lasciò andare coi fratelli a fare il bagno alla spiaggetta di
fronte alla casa, dove Antonio tirava in secco la
sua barca al ritorno dalla pesca. Non c’era da
preoccuparsi, perché era al riparo dalle correnti e i fratelli tenevano
d’occhio il più piccolo con attenzione.
L’incontro con il mare fu un momento importante
per Cola: nonostante l’olio della mamma lo si poteva
vedere spesso aggirarsi per casa con fare un po’ rigido e
muovendo poco braccia e gambe.
In particolare d’inverno, quando il vento freddo e secco
sembrava entrare dappertutto, la pelle di Cola si spaccava e le
squame diventavano così evidenti che perfino alla
mamma faceva venire in mente una la pelle di una
lucertola o di un pesce.
Ma quando Cola iniziò a frequentare la spiaggetta
le cose cambiarono ancora: fuori di casa, tra sole,
sabbia e acqua di mare la sua pelle sembrava un’altra, molto più
sottile, con l’abbronzatura che sostituiva
l’usuale scuro delle squame, più morbida e
compatta.
Lui stesso si rendeva conto di stare molto meglio, anche se non
avrebbe saputo dire perché, e passava quindi la maggior parte del
tempo a mollo a pochi metri dalla battigia,
raccogliendo dal fondo conchiglie e saporiti
molluschi e guardando i pesciolini che gli passavano tra le gambe.
Solo quando il sole era più forte stare all’aperto diventava per
lui una sofferenza, dato che per quanto caldo
facesse non sudava mai e la testa iniziava a
fargli male. Ma anche per questo il mare era la sua cura ideale: gli
bastava gettarsi a capofitto tra le onde e lasciare che l’acqua
lo rinfrescasse a dovere prima di tornare a casa
per il pranzo o per la cena.
Così Cola finì per crescere più nell’acqua che fuori, estate o inverno.
Alla mamma non dispiaceva ed essendo l’ultimo – be’ – capita spesso che
gli ultimi nati in una grande famiglia siano un po’ viziatelli…
Comunque Cola era diventato oramai un asso del
nuoto, si era fatto due spalle così grazie a
tutto quell’esercizio e riusciva a battere tutti in resistenza,
nell’apnea e nella profondità a cui riusciva ad
immergersi. Anche i paesani avevano ormai fatto
l’abitudine a vederlo spuntare nel porticciolo dal paese, come se
fosse un delfino curioso, e non lo ritenevano più tanto una
minaccia o una premonizione quanto una presenza
caratteristica, oggi diremmo un’attrazione.
Quelli di loro che si spostavano verso i paesi vicini, un paio
di mulattieri, qualche commerciante ambulante e ovviamente la
levatrice che l’aveva portato al mondo,
iniziarono a parlare di Cola anche a gente di
fuori tanto che – riprendendo magari il discorso lasciato in sospeso per
concludere l’affare – si sentivano chiedere “Cola chi?” e
rispondevano “Cola
Pesce!”, per
capirsi, e da lì venne il nome con cui il giovane iniziò ad
essere conosciuto per il Regno
(2).
Con il passare degli anni Cola ampliò sempre di più il raggio delle sue
escursioni marine, arrivando senza particolare sforzo a Messina o
a Scilla, in Calabria, attraversando lo stretto
nonostante le correnti, temute dai pescatori ma
che lui conosceva perfettamente, e anzi spesso perfino con il
loro aiuto. Era amico dei delfini che vivevano in quel tratto di
mare, dividendosi il pesce abbondante con i
pescatori, e passava con loro tutto il tempo che
poteva.
A terra invece si sentiva poco a suo agio, “un pesce fuor
d’acqua”, potremmo dire. I suoi capelli erano pochi e radi, anche
se era solo un ragazzo, e la sua pelle che
rimaneva strana non lo aiutava a fare amicizia
con i ragazzi del paese o delle coste che frequentava. I bambini, nella
loro sincerità, possono essere a volte poco
gentili ma quelli che erano davvero
antipatici erano quasi sempre gli adulti, che lo scacciavano con male
parole, gesti di scongiuro o minacciando di
prenderlo a sassate, spaventati nella loro stessa
incapacità di comprendere e accettare un’apparenza così diversa
dalla loro.
Cola insomma si sentiva solo e poco amato, salvo che dalla mamma e
dai suoi fratelli e sorelle, ma Santina si faceva anziana, i
fratelli lavoravano tutti, col padre, in paese o
nelle campagne e le sorelle, anche l’amata Lucia,
non erano quasi mai a casa dei genitori, chi sposata, chi a servizio.
Antonio aveva anche lui rinunciato a insistere
perché Cola imparasse un mestiere o che venisse
con lui a pesca: a terra non ci sapeva stare, sempre a disagio,
lamentandosi perché la pelle gli dava noia, e in barca – dove
sarebbero magari state utili le sua grandi
capacità di nuoto – era più un problema che altro
perché non poteva soffrire di vedere i tanti pesci immangiabili morti
inutilmente sul fondo della barca o all’amo.
Una volta che avevano salpato una rete trovandoci
un delfino annegato, uno dei suoi amici fidati, era
scoppiato a piangere e dopo aver cercato di rianimarlo ignorando
i richiami del padre aveva abbandonato la barca
in mezzo al mare, andando via a nuoto e rimanendo
lontano da casa per una intera settimana, nutrendosi di
quello che il mare gli offriva in abbondanza.
LA BELLA
Le storie che riferiscono la leggenda di Cola Pesce parlano poco di
tutto quello che vi ho detto finora e molto di
come la vicenda andò a finire.
Mettono nel racconto una Regina (sempre bella come tutte le
regine: belle ma non sempre buone) o l’Imperatore
Federico
(3),
maledizioni familiari e tanto altro. D’altra
parte il lavoro dei cantastorie di cui parlavo all’inizio era
quello di trasformare le notizie del giorno in storie senza
tempo, in modelli di comportamento a cui
riferirsi, strumenti per educare il popolo e i potenti,
creando racconti popolari che lasciassero a chi li ascoltava un
insegnamento morale.(4)
C’era comunque davvero una nobildonna, bella e annoiata, e c’erano
dei cavalieri, eleganti e desiderosi solo di compiacere la bella
per ottenerne l’amore, di quelli che ogni tanto
arrivavano fino alla spiaggia di Cola a vedere il
portento dell’Uomo-pesce, di cui avevano sentito parlare dai servi
di palazzo.
Avendo sentito dire che Cola era nel porto di Messina, la Regina
arrivò a cavallo sul molo, col suo seguito di cavalieri e dame,
rivolgendosi a lui senza nemmeno mettere piede a
terra. Nessuno di loro poteva credere che ci
fosse qualcuno che conduceva una vita felice lontano dagli altri esseri
umani, senza dominare né essere dominato, libero nel grande mare,
senza possedimenti e senza leggi se non quelle
della natura.
Cola era davvero contento di fare la vita che
faceva, l’unica che sentisse adatta a sé, ai suoi
desideri e al suo corpo così speciale, ma non era felice. Gli mancava
proprio la vicinanza degli altri, avrebbe voluto
fare amicizia con giovani come lui, passeggiare
ogni tanto con qualche bella ragazza che invece si limitava ad
osservare sui moli di paese o a spasso sulle spiagge con gli
amici, ma non sopportava le parole di scherno, le
occhiate che tutti gli rivolgevano, un po’
curiose, un po’ impaurite.
E fu così che dopo che si furono osservati reciprocamente per un
pezzo la bella Regina gli rivolse la parola:
– Saresti dunque tu l’Uomo-pesce, quello che chiamano ‘Cola ‘u
pisci’?
A Cola sembrava incredibile che una così bella donna, una nobile, si
interessasse a lui e si era perso a guardarla, desiderando di
poterla conoscere meglio e magari poterle
mostrare qualcuna delle meraviglie del mare di
Sicilia.
- Si mia Signora
– rispose infine –
mi chiamo Cola e sono figlio di ‘Ntoni, il
pescatore
Non sapeva cosa dire, in verità, e non riuscì a tirare fuori nulla di
più. Un sorriso le increspò le labbra, facendola
apparire agli occhi di Cola ancora più bella.
– Un pesce figlio di un pescatore, ma guarda un po’!
I giovanotti che la circondavano, come a comando, scoppiarono a
ridere, scambiandosi rumorose battute dalle quali Cola udì
emergere solo le parole “creatura mostruosa” Si
sentì arrossire, e per nascondere la sua rabbia e
il suo imbarazzo fece un tuffo immergendosi verso il fondo del
porto. Mentre nuotava intravide un’ostrica
perlifera e la prese per le valve prima che si
chiudesse, forzandola a cedere la bellissima perla che portava
dentro di sé. Riemerse un po’ più lontano,
si riavvicinò a nuoto e andò a depositare la
perla ai piedi della cavalcatura di lei dicendo:
– O mia Signora, ti faccio dono di questa perla. E’ l’unica cosa che
mi sembra adatta alla tua bellezza.
Era sorpreso lui stesso del suo ardimento, ma lo furono anche la bella
e i suoi amici solo che mentre lei si limitava a sollevare un
sopracciglio sorridendo ancora al complimento, a
cui era peraltro abituata, uno dei giovani
commentò ad alta voce:
– Toh, il mostro si è innamorato!, suscitando ancora l’ilarità
generale.
Cola guardò la bella sperando in una parola in sua difesa, ma non
ne venne alcuna.
Invece lei gli si rivolse dicendo:
– Uomo-pesce, mi dicono che tu sia in grado di immergerti a
profondità mai raggiunte e di nuotare sott’acqua come un vero
pesce. Sono curiosa, voglio vedere se è vero.
Si sfilò dunque dal dito indice un anello con una pesante pietra e
disse:
– Senti. Io voglio che tu recuperi questo anello quando lo lancerò in
acqua, vediamo quanto sei bravo. Se tu me lo riporti può anche
darsi che io venga di nuovo a trovarti.
Cola, assentì senza parlare, incredulo. Avrebbe fatto di tutto per
compiacerla e ancor di più per poterla rivedere. Lei prese
l’anello in mano, considerando che tanto non le
piaceva neanche molto, e lo lanciò all’improvviso
da una parte, pochi metri più in là. Cola non aveva seguito la
traiettoria ma vide i cerchi che si allargavano e d’altra parte
le acque del porto non erano neanche molto
profonde. Non ci mise più di mezzo minuto a
recuperare l’anello, che ancora scendeva lentamente verso il
fondo.
I cavalieri erano ammutoliti all’ardita offerta della giovane ma
nessuno aveva saputo dire niente. A quel punto però uno
disse:
– Troppo facile, ci sarei riuscito anche io a riprenderlo
– cosa di cui Cola dubitava, osservando l’aspetto
poco atletico dell’altro – voglio lanciarlo
io, stavolta.
Ricevuto l’anello scese da cavallo, prese la rincorsa e lo lanciò
dritto davanti a sé, ben più lontano. Le acque
del mare di fronte al porto erano molto profonde,
e se il lancio avesse superato lo scalino di roccia che Cola
sapeva essere lì l’anello si sarebbe perso in profondità che
neanche lui avrebbe potuto mai raggiungere.
Nuotò dunque velocissimo verso il punto in cui
l’anello era affondato e si immerse prima ancora di arrivarci,
continuando a pinneggiare con i piedi e cercandolo con lo
sguardo. Un riflesso della pietra lo salvò prima
che si perdesse alla vista e con un ultimo sforzo
riuscì a raggiungerlo, sul fondo. Tornando indietro sollevò il pugno
mentre nuotava per mostrare il successo, sentendosi felice.
La bella non aveva però alcuna intenzione di
tornare a mettere gli occhi sull’Uomo-pesce che
per lei aveva già perso ogni interesse. Chiamò
quindi con un cenno un altro dei suoi amici, che
si dilettava nell’antica pratica della caccia con la
fionda.(5)
–
Prendi – gli
disse –
e vedi di fare un buon lancio, il tuo amico ha le
braccia deboli.
Il secondo giovane scese da cavallo e prese un sasso, infilandolo
nell’anello. Prese la sua fionda e ci mise l’anello con il sasso.
La manovra era stata vista da Cola, che guardò
ancora la ragazza, muto.
– Cos’è, hai paura di non farcela? -
disse lei solamente.
Cola si rese conto di essere per lei nient’altro che un breve
passatempo, un cane a cui si tira un bastone per farselo
riportare, un essere privo di qualunque
importanza, e si sentì avvampare ancora una volta,
vedendo deluse tutte le sue speranze e la felicità che aveva
brevemente assaporato evaporare.
Lacrime di rabbia scesero sulle sue guance, liquido
salato che si andava a mescolare con il sale del mare. Possibile
che non ci fosse nessuno al mondo disposto ad
accettarlo e a trattarlo come suo simile?
– E sia
– rispose – ma
se non riuscirò non mi vedrai più.
Lei non rispose.
Il fromboliere aggiustò la sua arma e con un rapido
movimento del potente braccio scagliò sasso e anello ad una tale
distanza che non si riuscivano quasi più a
distinguere. Cola scattò, con la volontà di
riuscire a recuperare l’anello e a riportarglielo anche se a lei non
interessava; lo avrebbe fatto per sé, a
costo di morire.
Sapeva che era finito dove il mare era senza
fondo ma sperava di raggiungerlo ancora una volta prima che
sparisse. Non aveva tenuto conto però del sasso, che fece
scendere l’anello velocemente nelle acque verdi e
profonde, senza lasciargli il tempo di
raggiungerlo.
Cola nuotava con foga, desiderando di morire. Nuotò per un
minuto, per tre, per cinque, sempre più in profondità.
Nel frattempo a riva la bella e i suoi amici avevano già dato volta ai
loro cavalli e si erano riavviati verso la città. Quel “non mi
vedrai più” di Cola l’avevano interpretato come
la volontà di morire tentando l’impossibile
impresa di recuperare l’anello e con esso l’apprezzamento dei
suoi simili ed erano convinti che non sarebbe tornato mai più in
superficie.(6)
Ma loro non erano suoi simili, perché lui non era per loro parte del
genere umano e non gli interessava che l’Uomo-pesce
vivesse o no.
Il silenzio della superficie marina era pari solo
al vuoto negli animi di quelle persone che
non avevano voluto o saputo vedere oltre l’apparenza.
UN NUOVO MONDO
Dopo sette minuti che scendeva sempre più in profondità Cola aveva
raggiunto la zona abissale dove il buio è totale, dove non era
mai stato, dove non poteva trovare nulla di
familiare. A quel punto non ce l’avrebbe fatta
comunque, neanche se fosse tornato su immediatamente.
Ad un certo punto notò con la coda dell’occhio un
barlume di luce, per un attimo: poteva essere
l’anello! Non sarebbe servito a niente e non l’avrebbe mai
riportato a galla, ma seguì la luce mentre l’aria nei suoi
polmoni stava oramai per esaurirsi.
Continuava a nuotare mentre la vista gli si oscurava
quando credette di sentire l’acqua cambiare temperatura, passare
dal freddo glaciale delle profondità ad un dolce
tepore e gli sembrò di entrare in un cerchio di
luce, mentre qualcosa gli impediva di muovere braccia e gambe.
Cercò di lottare…
Quando riaprì gli occhi si accorse di riuscire a respirare normalmente
ma anche di trovarsi ancora sott’acqua; non se lo spiegava, ma
l’acqua entrava e usciva dai suoi polmoni come se
fosse aria, consentendogli di vivere.
C’era luce, ma non veniva dal Sole, e c’erano delle persone che lo
guardavano con simpatia aspettando che si riprendesse. Avevano
qualcosa di strano, di particolare, anzi,
ciascuna aveva qualcosa di particolare rispetto
alle altre, non ce n’erano due uguali, come se la diversità delle loro
personalità si riflettesse in fattezze diverse: era fantastico.
Cola non riusciva a capire, avrebbe dovuto essere
affogato, o forse lo era e questo era un altro
mondo, dopo la morte…
– Dove sono? –
disse un po’ a sé stesso, un po’ a loro –
che posto è questo e cosa ci faccio io qui?
– Tranquillo, sei il benvenuto, qui
– gli rispose una di esse, una ragazza
all’apparenza circa della sua età, con una pelle simile alla sua ma
rossa come il corallo e con dei lunghi capelli simili ad alghe –
noi ti conosciamo, è tanto che i delfini ci
hanno parlato di te, ma noi non veniamo lassù
dove ci sono gli uomini asciutti con le loro reti, i loro vestiti
e la loro cattiveria, stiamo lontani da loro e ogni tanto ci
incontriamo tutti
qui, al sicuro.
–
E da dove venite? Come siete arrivati qui, voi?
- Non poteva credere ai suoi occhi.
- Ciascuno di noi ha la sua storia, ognuna
diversa dalle altre. Tutti abbiamo creduto di non
avere niente al mondo, di non poterci mai legare,
di non poter condividere niente con gli altri. Poi abbiamo trovato
questo posto, chi prima, chi dopo.
Qui tutti sono diversi, ciascuno a modo suo, e
quindi non ha senso cercare di fare differenze, di separare uno dagli
altri. Sappiamo tutti cosa significa sentirsi
isolati, non amati, non voluti, e quindi siamo
tutti pronti a riconoscerci e a sostenerci l’un l’altro. Ci fanno pena
gli uomini asciutti, che passano la vita a
cercare di fare castelli di sabbia e a tracciare
linee di confine per separare le cose e le persone.
Qui invece non costruiamo barriere artificiose, e
siamo sempre pronti a seguire una nuova corrente
marina, quando la scopriamo. Abbiamo imparato anche che queste
nostre paure sono spesso il frutto del nostro stesso sentirci
separati dagli altri e qui abbiamo capito di non
esserlo davvero e di dovere solo, con pazienza e
fiducia, trovare quelle persone in grado di esserci davvero
amiche.
Cola era ancora sbigottito. Questo era quello che avrebbe sempre
voluto avere: amici con cui confrontarsi e con cui vivere in
serenità. Aveva paura di chiedere, persino paura
di muoversi, forse per timore che se l’avesse
fatto tutto sarebbe di nuovo scomparso.
– E posso restare? Per quanto? Vorrei…
– Certo che puoi restare, nessuno ti manderà via, saremo felici anche
noi se vorrai restare, ma nessuno neanche ti vorrà trattenere se
tu non vorrai rimanere. Sappi però che noi ci
troviamo tutti qui solo raramente: questo è un
rifugio, ma non una abitazione permanente, è un luogo dove
ricaricarsi e trovare nuove amicizie, dove dare risposta ai
nostri dubbi ma poi – dopo esserci ritrovati,
confortati e salutati – ciascuno va per la propria
strada, in giro per i sette mari, a conoscere le cose e a cercare
altri che come noi sappiano andare oltre le
apparenze, senza stare a preoccuparci di chi non
sa vedere oltre il proprio naso.
Sappiamo che le scelte di una persona devono essere le sue,
raggiunte e accettate con il tempo e il modo che
richiedono, ma non hai motivo per rimanere
lontano da chi ti vuole bene. Vedrai però per chi è arrivato il fondo al
mare, all’essenza delle cose, non c’è più timore, non c’è
insicurezza, ci si accetta per ciò che si è e si
aspetta con pazienza che altri come noi ci raggiungano in
questo mondo, quello vero, in cui si cerca di comprendere e non
di giudicare, tutto qui.
– Già, tutto qui.
– disse Cola, facendosi prendere finalmente per
mano dalla ragazza e allontanandosi alla scoperta di un mondo nuovo, più
grande, più vero, più bello.
Flavio Minelli
Roma, 2009
1 - Antonio e Santina erano entrambi portatori di
una malattia genetica, un mutazione particolare
del loro codice genetico, che aveva fatto sì che il loro ultimo figlio
fosse fatto in questo modo. Un giorno questa
condizione avrebbe preso il nome di “ittiosi”, dalla parola
greca che significa “pesce” proprio perché chi ce l’ha può avere
la pelle che somiglia un po’ a quella a
scaglie di un pesce.
2 - In realtà, essendo siciliani non proprio
colti usavano il dialetto e lo chiamavano “Cola ‘u
Pisci”, ma noi parliamo italiano e quindi lo chiameremo così.
3 - Federico di Svevia fu un personaggio quasi
mitologico nella storia di Sicilia, l’ultimo Re
che diede al popolo siciliano la speranza di fare dell’isola una nazione
ricca, colta e felice, guadagnandone l’amore e il
rispetto.
4 - Grandi letterati hanno poi raccolto queste
storie e le hanno scritte, Italo Calvino e
Benedetto Croce tra tanti. Altri hanno voluto trovarci morali che
riguardano il desiderio
dell’uomo di superare se stesso, di sacrificarsi per il bene comune
anche se si è degli esclusi, quello di cercare i
perché della vita, ma le cose non stanno così.
5 - Non si trattava in realtà di una fionda come
quella che usano oggi i bambini, quella era una
“frombola”, usata fin dall’antichità anche come arma da guerra e capace
di atterrare un cervo a centinaia di metri. I
soldati che la usavano si chiamavano “frombolieri” ed erano ai tempi
dei romani dei temuti mercenari.
6 - Da quelle parole nacquero tante leggende
che parlano di colonne da sostenere, radici di
vulcani, lenticchie e chiazze di sangue che vennero a galla e che sono
riportate ancora in molti libri ma non c’è nulla
di vero, credetemi.
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