L'Uomo-Pesce
L'uomo nella sua barchetta lasciò la presa dei remi e, facendosi schermo con la
mano, scrutò la distesa del mare. Qualcosa agitava l'acqua nel baluginare
di peltro e oro tra la prua dell'imbarcazione e la sagoma scura della
piccola isola in controluce.
Era la controra, il momento del giorno aperto
a una dimensione arcana.
Solitudine e silenzio, intercalati dallo
sciabordare del mare contro la chiglia; tutto immobile, sospeso, eccetto
quel rimestío a proravia. Con l'abbrivio, la barca venne a trovarsi a
ridosso del vortice: un delfino, forse, un branco di palamite…
La figura
emerse, ristette sollevata a coprire il sole, grondava perle lucide, lo
smeraldo dell'acqua si frantumò in diamanti e arcobaleni. Dagli occhi due
raggi, anch'essi verdi, guizzarono e colpirono le pupille dell'uomo, che
abbandonò ogni resistenza, scivolando in una dimensione ovattata, una
specie di sogno inebriante e dolce. Cosí lo trovarono due giorni dopo i mezzi di soccorso che erano partiti alla
ricerca dell'imbarcazione subito dopo l'allarme.
Trascinata dalle
correnti, la barca aveva superato Capri e stava uscendo dal golfo verso
l'aperto Tirreno. L'uomo non era in grado di parlare. Riuscí a farlo solo
dopo settimane, quando improvvisamente venne sottratto a quella sorta di
ipnosi estatica e raccontò l'avventura che gli era capitata. Fu quello l'ultimo episodio di "incantamento" verificatosi nel
tratto di mare tra la costa di Amalfi e l'isola dei Galli, detta anche
"Le Sirenuse" per via che lí Ulisse, secondo la leggenda, era
riuscito lui solo di tutto un equipaggio, a sentire il canto delle mitiche
creature, metà pesce e metà donna, di cui l'isolotto era popolato.
Da tempo ormai la gente non incontrava piú fate e gnomi nei boschi e, quando
andava per mare, sirene e tritoni.
C'era stata la guerra, gli uomini
avevano perduto l'innocenza, la scienza intimava già da molti anni a
credere solo alle cose tangibili, sperimentabili. Metteva in guardia
contro i sogni, le favole e i miti. La scienza, quella positivistica, ha
avuto nel corso dei secoli un solo scopo: provare che l'uomo è puro
fenomeno biologico legato alla catena dell'evoluzione.
A tal fine,
caparbiamente ha cercato, e tuttora cerca, i vari anelli di congiunzione
che dovrebbero collegare gli esseri umani ai plantigradi e via via,
arretrando nelle ere passate, fino a quell'embrione da cui tutte le specie
avrebbero avuto origine.
Mai il dubbio che l'uomo sia materia animica,
votata per evoluzione progressiva interiore alla trascendenza, ha sfiorato
le menti speculative degli irriducibili del naturalismo razionale. Tra le varie teorie accreditate dalla concezione evoluzionistica c'è quella
che ipotizza l'origine marina della vita terrestre. Quando e come ciò è
accaduto rimane un mistero. Tuttavia, mentre sappiamo quanto arbitraria e
improbabile sia l'ipotesi che dal vasto brodo primordiale abbia preso le
mosse il patrimonio biologico cui apparteniamo, è fuori dubbio che il
mare sia stato, sin dall'inizio dei tempi, un fervido grembo capace di
generare miti e leggende.
Particolarmente fecondo in tal senso fu quello greco, non considerato nella ristretta
dimensione territoriale ellenica, bensí nella piú ampia estensione
inglobante i porti e le regioni colonizzati da quel popolo di navigatori.
Dalle Colonne d'Ercole al Ponto Eusino, dall'Egitto alla foce del Rodano,
la tradizione mitologica greca ha fatto germinare un florilegio di figure
e vicende fantastiche.
Ecco Venere nascere dalle spume del mare di Cipro;
Scilla e Cariddi fare da guardiane spietate allo stretto passaggio tra
Tirreno e Ionio; gli Argonauti al grido di «Eoo!» («A Oriente!»)
partire per la Colchide alla conquista del Vello d'Oro.
E il dio Alfeo,
invaghitosi della ninfa Aretusa, tramutarsi in fiume e, dall'Acaia nel
Peloponneso, scorrere intatto tra le correnti salmastre dello Ionio fino a
raggiungere la sua amata presso l'isoletta di Ortigia a Siracusa, e qui
mescolarsi a lei trasformata da Artemide in una cristallina fonte d'acqua
dolce pullulante in purezza dal fondo marino.
Miti
e leggende che il mare instilla nel cuore dell'uomo, sogni.
Di questi, il piú grande e audace vagheggia l'immortalità o la capacità di essere, a
tempo indeterminato, creatura marina. È nota, a chi effettua immersioni,
la sindrome da ebbrezza che prende il subacqueo e che, se non vinta, lo
spinge a scendere sempre piú verso i fondali, in una fatale vertigine da
abisso.
Poter impunemente e indenni appagare tale anelito verso l'ignoto
marino riuscí a un ragazzo greco tanti secoli fa.
Glauco
era un pescatore della Beozia. Un giorno vide che un pesce da lui
catturato e deposto su un prato vicino alla riva, dopo aver mangiato
l'erba sulla quale giaceva, recuperava la forza per saltare in acqua,
riacquistando cosí la libertà.
Incuriosito, il giovane imitò il pesce e
assaggiò quell'erba. Subito venne preso dall'impulso di gettarsi in acqua
e immergersi nelle profondità. Qui si accorse di poter rimanere quanto
voleva in apnea. Non solo: tutto il regno marino gli appariva familiare e
poteva comunicare con le creature che lo popolavano. Oceano e Teti gli
accordarono l'immortalità e la facoltà di chiaroveggenza e profezia. Di
lui s'innamorò la Maga Circe, ma Glauco le preferí la ninfa Scilla.
Per
vendetta, Circe trasformò Scilla in un orribile mostro che terrorizzava i
naviganti. Piú oltre, Glauco confortò Arianna abbandonata da Teseo a
Nasso e si dice che abbia altresí costruito la nave con la quale gli
Argonauti compirono la loro impresa nella Colchide, avendo lui stesso come
nocchiero.
Dal
mare greco a quello della Trinacria, dove un possente vulcano strema le
sue propaggini fino alle scogliere dello Ionio. L'epoca non è persa nelle
brume del mito, ma si colloca in un ambito storico ben identificabile:
quello del regno di Federico II di Svevia.
Protagonista è Nicola, detto
Cola, ultimo nato di una numerosa schiera di fratelli in una famiglia di
umili pescatori.
La capanna nella quale vivevano era talmente prossima
alla battigia che il piccolo Cola crebbe in simbiosi totale con l'ambiente
marino, tanto da trascorrere buona parte del suo tempo tra le onde,
nuotando per lunghi tratti in solitudine e immergendosi fino a profondità
proibitive. Il suo fisico, forte e scattante, non conosceva stanchezza, i
suoi polmoni sembravano adattarsi alle apnee piú protratte, ignorava il
freddo e i marosi. In qualunque stagione era in acqua, esplorava le coste
frastagliate della sua terra e gli abissi fin dove la luce del sole
arrivava e, a suo dire, anche dove l'oscurità era completa. Il ragazzo
venne pertanto denominato "Cola Pesce" dai suoi compaesani prima
e da tutta la popolazione siciliana in seguito, quando la fama che lo
circondava si sparse per tutta l'isola. La
passione di Cola per il mare procurava non pochi problemi alla sua
famiglia, che viveva del pescato. Era tale e tanto l'amore che il giovane
nutriva per il mare e le sue creature che di nascosto rimetteva in acqua,
per farli vivere, molti dei pesci che i suoi fratelli catturavano.
Piú il tempo passava e piú stretto diventava il suo legame con la dimensione
marina.
Al pari di Giona, si faceva divorare da grossi pesci che lo
depositavano sulle rive di terre lontane e in paesi misteriosi e
sconosciuti, da dove egli ritornava raccontando le cose meravigliose che
aveva visto e dei tesori immensi che giacevano sul fondo del mare. A
riprova di ciò mostrava oggetti preziosi, monete, perle, vasellame
finemente cesellato, che egli aveva raccolto esplorando i relitti di
velieri inabissati.
Finché l'eccezionalità delle sue imprese non arrivò all'orecchio
dell'imperatore, che volle conoscerlo.
Un bel giorno la nave regale gettò
l'ancora al largo del villaggio marinaro dove abitava Cola Pesce con la
famiglia. «Vediamo se riesci a ripescare questa!» lo sfidò Federico, lanciando in acqua una
coppa d'oro.
Senza esitare, il ragazzo si tuffò nelle acque profonde e di lí a poco
riemerse con l'oggetto prezioso. Per diverse volte esaudí il volere di
Federico, riportando a galla monete e gioielli, anche minutissimi, che
l'imperatore faceva cadere in acqua. «E ora fammi sapere – aggiunse il monarca –
sopra cosa poggia l'isola di
Sicilia su cui regno».
«Bene, maestà! Lo farò volentieri per voi».
Ed ecco di nuovo Cola Pesce sparire nelle acque blu scuro dello Ionio Questa
volta l'immersione fu molto piú lunga, tanto che tutti credettero che il
ragazzo fosse morto. Ma questi all'improvviso sbucò dall'acqua e
annunciò trionfante: «Ce l'ho fatta, maestà! L'isola di Sicilia poggia su tre colonne: due sono di
pietra e una è di fuoco».
L'imperatore rimase talmente colpito dalle prodigiose qualità del giovane pescatore da
volerlo presso di sé a corte.
Appena i molteplici impegni reali glielo
consentivano, Federico si tratteneva a lungo ad ascoltare i favolosi
racconti di Cola. Amante delle scienze naturali e misteriche, si faceva
descrivere nei dettagli le creature che popolavano gli abissi, le
abitudini e i meccanismi delle loro esistenze in ambienti lontani e
diversi da quelli della terraferma. Quali leggi governavano quel mondo? E
come poteva un uomo carpirne i segreti tanto da acquisire la capacità di
vivere a suo piacimento ora in forma umana ora assimilato agli abitanti
dell'oceano? Inesauribili erano le meraviglie che il ragazzo dispiegava
all'ascolto e alla fantasia mai appagata del sovrano.
Di natura ben diversa era l'interesse che alcuni cortigiani nutrivano per
quello strano pescatore in grado di recuperare dal mare ogni sorta di
tesori. Ma come sottrarlo all'attenzione dell'imperatore? Si pensò a un
infallibile e collaudato espediente: la bella contessina Irene venne messa
alle costole dell'ingenuo Cola, il quale se ne invaghí. Con la scusa di
uscite romantiche in barca, Irene costringeva lo spasimante, con moine e
lusinghe, a tirar su dal fondo monete, gioielli, perle, coralli e antichi
reperti di inestimabile pregio e valore. Dall'avidità insaziabile alla sete di potere, il passo fu breve. Inebriati da tanta
ricchezza, quei nobili ordirono una congiura contro l'imperatore.
Scoperti, confessarono le loro intenzioni, scagionando però il candido
Cola Pesce. Il quale, benché reintegrato nella stima di Federico, non
riuscí piú a sentirsi a suo agio in un ambiente in cui persino l'amore
veniva dissacrato dagli intrighi e dalla cupidigia. Fu cosí che il
giovane, pur restando in amicizia con l'imperatore, si isolò gradualmente
dalla corte e dalla fanciulla che tanto lo aveva ingannato. Lo si vedeva spesso camminare solitario sui moli del porto o lungo gli
arenili, scrutando il mare con ansia. Un giorno, dalle onde in burrasca
emerse un pesce gigantesco che si portò a pochi metri dalla riva. Qui si
fermò, spalancando la grande bocca. Cola, sfiorando appena il ribollire
dei marosi, entrò fiducioso nella cavità rutilante e profonda.
Rapidamente le fauci si richiusero e lo strano animale, metà balena e
metà drago, guadagnò il largo inabissandosi.
Da allora nessuno vide piú Cola Pesce.
Qualcuno disse che aveva raggiunto il
regno di Oceano, dove aveva sposato una sirena, o la figlia stessa del re
del mare. Altri affermavano con sicurezza che egli un giorno sarebbe
tornato sulla terraferma a governare il mondo.
Ciò sarebbe avvenuto,
ipotizzavano, quando gli uomini finalmente avrebbero conosciuto la
giustizia e l'amore.
Ovidio
Tufelli
www.colapisci.it
|