Canto di Colapesce
Prefazione
Hombre-pez de Liarganes
Vincenzo Consolo “si doleva di non avere il dono
della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza
dall’implacabile logica del mondo”.
Evelina Maffey ha certamente il dono della poesia e
lo ha dimostrato ampiamente nelle sue precedenti pubblicazioni:
“Anima Nuda” che racchiude la produzione in versi del decennio
1985-1995, “Al largo di Orione” pubblicato nel 2001 con l’AICS,
“Triskele Poems” ne
“Il Volto dell’Altro”, edizioni Kepos Alcamo
2001, “La Grotta azzurra e il Satiro danzante”
pubblicato nel 2008
con Firenze libri, Maremmi Editore e “La ballata della nave fantasma
nel mare di Sicilia” pubblicato nel 2010 con l’AICS.
Ora torna ancora a farci sentire la sua musica poetica con questo
poema sinfonico “Canto di Colapesce” che è il grido di dolore di
tutte le mamme del mondo per i loro figli perduti, resuscitati o
scomparsi in una notte di tempesta.
C’è nella Maffey un bisogno irrefrenabile di poesia.
Il grande poeta di Niscemi, Mario Gori, affetto dallo stesso male
della Maffey, scrive:
“Nun è fattura fatta di mavaria,
matri, stu mali che mi smaciddia,
è lu sdilliniu di la puisia
ca li sensi mi vinni a nfatturari.
E comu lu putissi mpastari
Stu cori ca mi sduna a la fuddia
Quannu l’amuri veni e tuppulia
Cu li so noti menzi duci e amari?”
È un bisogno folle quello di cantare il proprio dolore per
trasformarlo in dolore del mondo, è un bisogno di regalare emozioni.
È lo stesso bisogno di Alda Merini che dice:
“Se un poeta dona le
sue carte con l’intenzione di regalare i propri patimenti, le ansie,
le mille anime, gli altri dovrebbero ringraziarlo. Perché il Poeta
con gli occhi rarefatti dalla follia, sta guardando il destino ANCHE
PER LORO. Le foglie del destino sono vagabonde, scorrevoli e piene
di baci nascenti”.
La foglie del destino sono vagabonde e toccano oggi me, domani te.
Duemila anni addietro è toccata a Maria il dramma della madre che
deve affrontare l’arresto e la morte del figlio e grida con il poeta
Bernardino Giuliana:
“Vaju circannu a Gesù Nazarenu
Ca jè lu chiovu di l’armuzza mia”.
“….E a li pedi di la cruci,
ni lu sciallu cupinata,
resta petra senza vuci
la Madonna addulurata”
“…Adasciu, adasciu
Nun ‘ llu faciti mali
Adasciu, adasciu
Scippati ssi chiova.
Ni lu me pettu,
ccà l’haiu chiantati…”
“Trentatrianni aviva, trantatrianni
E nti lu pettu na palumma bianca”...
I chiodi piantati nel petto della Madonna sono
piantati nel petto di tutte le mamme del mondo e il poema di cui noi
oggi parliamo riproduce il dolore di questa donna con i tre chiodi
piantati nel cuore, il dolore di Cerere che cerca tra i boschi della
Sicilia la sua Proserpina, il dolore delle donne della Plaza de
Majo, il dolore di Antonio Gramsci che, chiuso in una dura prigione,
viveva il dramma della lontananza dei figli che non avrebbe mai più
rivisto: supplizio dentro il supplizio.
I chiodi di Maria sono i chiodi delle mamme che
vedono i loro figli appassire in una società appestata, piena di
insidie, di veleni, di paradisi effimeri che portano alla morte.
Il pianto di Maria e il grido lacerante di Cerere,
sono il pianto e il grido delle mamme segnate dal dramma della
violenza che uccide i propri figli:
“Non piangere donna, non piangere
Donna che hai visto travolgere
In uno schianto una vita strappata.
La sofferenza sulla tua fronte madida
Le tue labbra rosse tumide e turgide
Le tue palpebre appesantite e lucenti
Nelle tue lacrime copiose, la fotografia
Di un ragazzo ucciso a tradimento a coltellate….”
”No donna non piangere
I suoi 19 anni snocciolati nella corona
Di rose opache che porti sciolta sul nudo collo….”
“Curù
Che te ne sei andato in una notte
Buia buia che si poteva tagliare con il coltello.
In una fitta coltre estiva di un luglio burrascoso
Mi hai lasciato sola in questo mondo
Violento e disumano dove solo il tuo corpo
Mi basta per riempirmi di un’agonia che brucia”.
Versi terribili, bellissimi, sublimi, questi della
nostra poetessa che riescono a dare il senso del dramma materno. E
basterebbero solo questi pochi versi per dare un giudizio sulla
validità e sulla pregnanza di questa poesia che riesce a comunicare
e che coinvolge il lettore facendolo partecipe attivo del teatro
poetico.
C’è nei versi una grande forza che è anche forza morale, la
forza di tutte le mamme che non si arrendono e che credono nella
resurrezione che nasce dal loro amore, dalla loro fede.
Maria ha sperato e non ha creduto alla morte del figlio, Iside
ricompone il corpo del marito Osiride, si accoppia con lui e dà la
vita:
“…Tu
Che hai ritrovato il tuo corpo
Disperso in tanti pezzi
Ricomposto in una bara di Temerice
Risorgi come Osiride nella valle del Nilo.
Amore mio, prendimi per mano
e volgimi
Verso dove?
Dove
sorge
Sirio…”
“….Un Uomo si spoglia della sua pelle di serpente
Rinasce farfalla follemente adagiata
In un mare da solitario
sognatore”.
“…..Donna non piangere
Asciuga le tue lacrime
Non
cadono in terra
Ma nel cielo degli Dei
Tuo figlio risorgerà…”
E la resurrezione avviene perché in Evelina Maffey
la resurrezione è la madre e per questo la sua poesia è piena di una
speranza, di grande follia che è la forza motrice della poesia.
Erasmo elogia la follia e può affermare che senza la follia non
esisterebbe la vita: un uomo si unisce a una donna perché diventa
folle d’amore, si accoppia e genera perché mosso dalla follia
dell’eros e senza la follia non ci sarebbe la cultura, non ci
sarebbe la poesia.
E Colapesce che scompare nel mare, trova un nuovo amore, la Venere
nera che viene da noi con i barconi e non può morire; approderà
all’Isola dei Conigli vicino all’isola di Lampedusa dove ritroverà
la vita.
Così come all’isola Formica c’è un mondo dolcemente folle
che crea le condizioni per la resurrezione:
“Ricordi
Uno scoglio di granito
Piccolo come una formica
Sperduto nel Mediterraneo
Affogato ed arso dal sole
Baciato dalle labbra delle onde
Dove una tonnara fa
All’amore
Con il cielo
Gridare la
Gioia
Del tuo Io”.
“…Dicono che solo nuotando nel mare era felice
perché si ricordava del suo primo viaggio nell’utero di sua madre.”
È sempre la madre che ritorna e che è protagonista della nostra
vita.
Ma di Colapesce “Dicono che lottò per liberarsi di un mondo terreno,
bugiardo ed ipocrita pieno di falsi miraggi ed illusioni”.
Il mondo di James Dean, della gioventù bruciata di cui molti
rimangono vittime.
Ma Colapesce si riscatta forse per la forza insita in se stesso,
forse per la fede della madre, forse per un mondo che si realizza
nei mari del Mediterraneo, in Sardegna, a Badolato.
“Oggi Colapesce è un ragazzo dei tempi moderni che lotta e combatte
contro il male universale. E scopre che questa battaglia è dura ma
può essere vinta, dopo tante sconfitte e rivincite…”
Tutte queste lunghe citazioni le abbiamo volute fare per far capire
al lettore quanto possente sia la poesia della Maffey che è una
poetessa che sa elevarsi, sa sognare e fare sognare, fare sinfonia,
ma restando con i piedi sulla terra per affrontare problematiche
vere e brucianti della nostra società. E lo fa attingendo alla sua
grande cultura e al mito greco che tutto ha spiegato con fantasia e
invenzioni rare.
“La mitologia”, dice ancora Alda Merini,
“questo continuo paragonare
le nostre passioni a quelle degli dei, questo ridere delle nostre
disgrazie e delle povertà naturali, questo essere folli, questo
essere prigionieri di qualcuno, io della pazzia della porta accanto
e tu della legge...”
Ed ancora abbiamo, con queste citazioni, voluto dire quanto la
nostra poetessa riesce a comunicare i suoi sentimenti attraverso un
linguaggio forbito che sa manovrare e attraverso la sua formazione
classica.
È vero che poeta si nasce ma senza gli strumenti formativi di una
grande impegno di studio si può al massimo diventare ‘poetastri’ o
‘cantastorie’ di piazza.
La poesia è volo, è canto, è musica e nessuno può scrivere sinfonie
se non conosce le note.
E giustamente la Cedrini scrisse, a proposito della poesia della
Maffey:
“La Poetessa lascia che le parole si facciano onde
tumultuose che si adagiano sulla riva dopo avere attraversato mari
in tempesta”.
E ancora:
“La scansione temporale, imbevuta di colti retaggi, si
dissolve fino a fondere segno e realtà. Le parole si piegano come
spighe di grano al volubile gioco che l’amore guida...”
La forma di poema che la Poetessa ha voluto dare alla sua opera è
molto impegnativa e qualche volta ci si può trovare in qualche
allentamento di tensione, ma sono attimi dovuti al fatto che c’è, in
un poema, qualche momento in cui bisogna prender fiato.
Scrive della Maffey Giacomo Bonagiuso in “Triskele Poems” nella
silloge “Petali di sole”:
“Una poesia che parebbe riduttivo
considerare esclusivamente sotto il profilo netto della socialità.
Una poesia, dunque, che appare più corretto porre in quel filone
mittle-europeo che origina le sue radici nella fruttuosa
integrazione tra ermeneutica ed esistenzialismo".
Per concludere:
“Dicono che vive negli abissi dell’isola di Sicilia
a sostenere
come un Telamone una delle tre colonne crepate
della Trinacria
mentre ruggisce il vulcano Etna
versando lava”,
mentre piangono le
sue donne come nella tragedia greca e come tutto ciò emerge nel
credo finale di Colapesce:
“Nuoto dunque sono”.
Per il resto dobbiamo dire che ci troviamo dinanzi a una poesia
lucida, viva, problematica che raggiunge livelli inusitati a cui la
stessa Maffey ci ha abituati con le sue opere precedenti in cui
esprime con forza la sua esigenza insopprimibile di cantare la sua
gioia e il suo dolore:
“Lasciate che io canti
sarà quello d’un usignolo dalle ali spezzate
dalla voce roca, struggente
dalle note perdute
nel solitario cielo
pezzato di malinconie”.
E noi siamo qui pronti ad ascoltare il suo canto
D’un amore folle
folle e impossibile.
Agrigento, lì 24.1.2012
Gaspare Agnello
Evelina Maffey
Vertigo
www.colapisci.it
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