Colapesce
Colapesce è una fiaba scritta da
La Capria, noto autore della della letteratura italiana del
secondo Novecento. Pubblicata per la prima volta nel 1974.
Vi sono anche alcune riedizioni illustrate
Cola era un ragazzino come tutti gli altri, ma gli piaceva starsene a mare dalla
mattina alla sera.
Un giorno, la madre, che era un po’ strega, gli gridò: “Pesce
devi diventare!” E piano piano, Cola cominciò a sentirsi pesce.
La sua pelle si
coprì di sale e scaglie, e a furia di nuotare, le mani e i piedi gli si
allargarono, quasi fossero delle pinne.
La madre, disperata per il figlio,
esclamò:
“Cola! Se tanto ti piace il mare, nel mare devi restare e un pesce devi
diventare!” Colapesce, così fu chiamato dai ragazzini, riusciva a stare
sott’acqua per ore, come i pesci.
Note dell'autore
Era inevitabile e direi fatale che, nuotando sott'acqua in apnea nell'ipnotica fissítà dei fondali,
io m'imbattessi, dopo Ferito a morte, nella
leggenda di Colapesce, che ne è una specie di lontano prototipo. Mito e
favola del ragazzo mezzo uomo e mezzo pesce mi arrivavano dalle azzurre
profondità del mio Tirreno, e tirrenico più che greco e siculo io sentivo
questo antico racconto. Dopo Croce, e Calvino, e Sciascia, che tra i moderni lo raccolsero e lo riscrissero ciascuno a suo
modo, venne anche a me il desiderio di riprenderlo e raccontarlo a modo mio. L'occasione fu
il compleanno di mia figlia che ancora non sapeva leggere e che dunque si
trovava nella condizione ideale per ascoltare le favole che le inventavo. Mi
stava a sentire con una specie di sognante rapimento, con due occhi d'ambra
chiara che pendevano dalle mie labbra e accoglievano come oro colato ogni
mia parola, e tutto, ogni minimo particolare, metteva in moto la sua intatta
fantasia. Oh, se i miei lettori mi leggessero come lei mi ascoltava! Scrissi questa favola per lei, per farle immaginare la bellezza dello scenario sottomarino, e anche
per prepararla - quando sarebbe stata in grado di farlo - alla lettura di Ferito
a morte. Mi piaceva farle credere che anche io ero stato un po' come Colapesce, e che se le mie
mani e i miei piedi non erano forniti di membrane per meglio nuotare, le pinne di gomma potevano
benissimo sopperire a questa mancanza. Volevo che quando fosse stata più
grande capisse che se avevo scelto il mare come elemento essenziale del mio
libro era perché nel mare avevo trovato in un primo momento la beata
regressione dell'infanzía (e una tregua al dolore), il liquido amníotico
della mia ispirazione, il richiamo perenne ed insostítuibile dell'Altrove,
del Regno Sconosciuto. E poi, man mano anche lei crescendo, avrebbe potuto
riconoscere nel mare il luogo della felicità, della bella giornata e della
ferita che essa nasconde. E che cos'è, nel racconto di Colapesce, la colonna
infranta che lui scopre, sostegno precario dell'instabile terra meridionale
sempre sottoposta a vessazioní naturali (terremoti, eruzioni), e umane, (reucci
dispotici ed altre autorità ugualmente oppressive)? Forse mia figlia crescendo
avrebbe sorriso riconoscendo nel dialogo dei cortigiani col re -
caricaturale imitazione di quelli del Polonio shakespeariano - il
conformismo degli intellettuali nei confronti del potere e il loro
asservimento oggi (negli anni novanta) cosí visibile. E avrebbe condannato
non solo la loro vigliaccheria, ma anche quella di quel re che abbandona il
suo popolo nel momento del pericolo e si mette in salvo sulla nave. Quel re,
tagliatore di teste, cosí simile a tanti re della storia di Borbonia, della
nostra Napoli sfortunata. E avrebbe forse capito che il finale consegnarsi
di Colapesce alle vertiginose profondità del mare è una scelta di libertà e
di indipendenza che molto spesso, nell'Italia di oggi, siamo tentati di
fare. E infine, se mia figlia avesse avuto in avvenire qualche inclinazione letteraria e avesse saputo
leggere criticamente un libro, si sarebbe accorta che questa piccola
favoletta a lei dedicata segna nel complesso dell'opera del suo papà il
passaggio dallo stile elaborato e dalla struttura sofisticata dei primi
libri, (quel musicale altenarsi di «polifonia» e «monologo interiore» di Ferito
a morte) a una scrittura più diretta e lineare, più semplice ma non meno
meditata, che inizia con Fiori giapponesi e prosegue con La neve
del Vesuvio, Capri e non più Capri e i libri venuti dopo. Quella
scrittura che proprio i suoi occhi attenti e il suo ascolto innocente mi
avevano suggerito
Incipit
C’era una volta...
una bella giornata: col cielo tutto azzurro, il mare tutto calmo, l'aria
luminosa e tiepida, e bianche vele lontano, come gabbiani, docili all'onda.
I gozzi dei pescatori rientravano dopo la pesca della
notte nell'arco della marina, e che silenzio c'era intorno!
L'acqua era trasparente, si vedevano gli scogli sommersi, le alghe e la sabbia
ondulata del fondo, e i pesci che nuotavano snelli tra le maglie di sole
smaglianti.
Una giornata insomma come di rado se ne vedono ancora, una bella giornata di
tanti e tanti anni fa, quando il mondo pareva più pulito intatto e nuovo, quasi
fosse appena uscito dal fiato di Dio.
In quel silenzio si sentí la voce di una donna che chiamava:
- Colaaa!... Colaaaa!...
Quel nome risuonò nell'aria, arrivò sulla spiaggia dove i pescatori
stavano rammendando le reti, e lo sentirono i ragazzini che stavano dando la
caccia a granchi e gamberi tra gli anfratti della scogliera.
- Dove ti sei nascosto, disgraziato! -
seguitava a dire la donna. - Oggi neppure sei andato
alla bottega di tuo padre. Come faremo con un figlio così scioperato! Sei
diventato la mia disperazione! Lo vuoi capire che non si può passare tutto il
tempo a nuotare nell'acqua del mare?...
Poi vide i ragazzini sulla scogliera e si avviò da quella parte.
Forse suo figlio Cola stava lí, a perdere tempo con quei fannulloni.
- Avete visto Cola? - domandò.
Uno dei ragazzini indicò un punto sul mare.
- Sta là, laggiù.
La madre di Cola guardò nella direzione indicata, e lontano, sulla
superficie piatta del mare, le parve di vedere qualcosa, come l'inarcarsi del
dorso di un delfino tra la bianca schiuma. Ma dopo un attimo era scomparso.
Un altro ragazzino disse:
- Ma no! Sta là!
E indicò un altro punto sull'orizzonte. La madre di Cola guardò, e anche
stavolta le parve di vedere qualcosa.
Dopo un po' ognuno dei ragazzini indicava un punto diverso e ognuno giurava che
quel punto in mezzo al mare era Cola.
Allora la madre di Cola esasperata alzò le braccia al cielo e disse, come
un'invocazione:
- Cola Cola! Se tanto ti piace il mare, nel mare devi
restare e un pesce devi diventare!
E si allontanò, tutta corrucciata, avvolta nel suo vestito nero.
I ragazzini rimasero per un momento silenziosi, ma quando
la madre di Cola fu abbastanza distante uno di loro disse: "Colapesce!",
gli altri ripeterono ridendo questo nuovo nome affibbiato a Cola: "Colapesce!
Colapesce!", e ripetendolo si tuffavano in acqua tutti insieme, facevano
capriole, prendevano la sabbia del fondo, si schizzavano, finché non furono
stanchi.
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