Colapesce
Ora vi racconterò la mirabile storia di Cola Pesce.
Cola era un giovane pescatore, che viveva a Messina, al tempo del grande
imperatore Federico II.
In quel tempo la Sicilia era il centro dell’impero, a Palermo si trovava la
corte più sfarzosa d’Europa, piena di musiche di trovadori e di poeti, e in
quell’atmosfera di lusso orientale spuntava il fiore purissimo della poesia
italiana.
Cola non era poeta e neppure un trovadore; per le sue straordinarie qualità
di nuotatore tutti lo avevano soprannominato Cola Pesce.
E invero nuotava come un pesce. Fosse per la sua familiarità col mare, sul
quale era vissuto da bambino, o il lungo esercizio del nuoto o fosse una
speciale conformazione dei suoi polmoni, certo è che Cola Pesce era capace
di buttarsi in acqua e di rimanere immerso per un tempo lunghissimo senza
che la sua salute ne risentisse il minimo disturbo.
Si lanciava a capofitto dall’alto di uno scoglio, scendeva a prendere le
alghe anche dove il mare era più profondo, e spesso, dopo una buona
mezz’ora, riemergeva fresco e disinvolto, portando in mano ora un ramo di
corallo ora una spugna ora una conchiglia.
Un giorno capitò a Messina l’imperatore Federico. Lo accompagnavano un esercito
di cortigiani e di guerrieri, molti poeti e trovadori e fra gli altri una
sua figlia giovinetta, bella come un raggio di sole al mattino.
L’imperatore, dopo aver visitato la città, volle recarsi col suo seguito sul
vicino scoglio di Cariddi per visitare il luogo dove gli antichi poeti
avevano collocato i due più crudeli e paurosi mostri marini: Scilla e
Cariddi.
Dalla parte della costa calabra, in agguato sotto una roccia a picco, in una
grotta piena di ossa, stava Scilla con sei lunghissime braccia e altrettante
teste di cane. Appena una barca si avventurava in quelle acque, le terribili
braccia unghiate e le teste di cane emergevano dall’acqua, afferravano i
marinai e li trasportavano nella grotta per maciullarli. Sotto la rupe di
fronte si acquattava Cariddi, altro mostro orribile che inghiottiva il mare
e lo rigurgitava continuamente con un ruggito che faceva tremare le rocce
intorno. Per il flusso continuo del mare ingoiato e rigettato, le acque
intorno allo scoglio di Cariddi erano sempre in tempesta e poche erano le
navi che riuscivano a attraversarle senza essere ingoiati dai gorghi.
Difatti quando l’imperatore fu sull’alto della rupe siciliana vide uno
spettacolo impressionante. L’acqua nera e profonda in apparenza sembrava
tranquilla, ma ecco che improvvisamente dietro la rupe si apriva come una
cateratta e il mare vi si precipitava dentro in mulinelli rapidissimi, poi
ancora un ruggito e l’acqua si riversava fuori come soffiata da una gola
gigantesca, e si spingeva in onde e in vortici sibilanti verso il largo.
La figlia dell’imperatore si sporse anche lei per guardare lo spettacolo e
si ritrasse pallida e atterrita.
Ma Federico guardò verso il popolo. Quei suoi sudditi che da tempo immemorabile vivevano vicino a
quello scoglio e vi esercitavano la pesca non dovevano aver paura di quel
mare. Si fece porgere da uno dei suoi cortigiani una preziosa tazza d’oro,
incastonata di gemme, e la mostrò alla folla.
– Vi è qualcuno tra voi – disse –
cavaliere o pescatore, che osi tuffarsi
nel gorgo per riportarmi questa tazza? Colui che me la riporterà l’avrà in
premio.
Seguì un silenzio perplesso. Nessuno osava farsi avanti. Improvvisamente da un
gruppo di popolani sbucò fuori un giovane pescatore. Era bello, bruno, ma
poveramente vestito.
– Sire – disse il giovane, –
scenderò io a riprenderti la tazza.
Era Cola Pesce.
– Se la ripeschi è tua – fece l’imperatore, e lanciò il nappo in mare.
La tazza d’oro brillò per un istante in aria, poi fu ingoiata da un gorgo.
Cola, liberatosi dai suoi cenci, si lanciò anche lui dall’alto dello scoglio e sparì in un turbine di
schiume.
Per un pezzo il popolo e la corte rimasero col respiro sospeso. L’acqua
veniva continuamente ingoiata e rigurgitata, i gorghi ruggivano ma Cola non
ritornava a galla. Tutti lo giudicavano perduto, qualche gemito si levava
dalla folla.
Ma ecco che qualche cosa di luminoso spunta dalle onde, poi emerge un braccio, una testa bruna, un
viso giovanile. È Cola Pesce col nappo d’oro.
Con due poderose bracciate si libera dalle spire di un gorgo, guadagna la
riva e porge la tazza all’imperatore.
Un urlo di entusiasmo si leva dalla folla, la principessa pallida per
l’emozione posa il più tenero dei suoi sguardi sull’animoso pescatore. Anche
Federico è commosso, ma non è pago dell’esperimento.
– Bravo, – dice l’imperatore –
hai meritato il tuo premio, ma uno più
prezioso io ti offro se ritenterai la prova. La principessa mia figlia sarà
tua sposa se tu scenderai ancora nei gorghi e riprenderai la tazza.
Cola Pesce alza gli occhi sulla bella principessa e la vede sbiancata e
trepidante.
La tazza vola di nuovo in acqua e Cola si rituffa per ripescarla, ma non
torna più a galla.
Invano la principessa attende che il coraggioso pescatore
riemerga dalle onde; il baratro di Cariddi lo ha ingoiato per sempre.
E ancora i pescatori siciliani, quando parlano di lui nelle sere estive,
mentre rammendano le reti, attendono che egli ritorni dalle caverne remote
del mare, portando in mano la sua tazza d’oro.
da Il
Corriere dei Piccoli
31 dicembre 1944
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