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lunedì 4 gennaio 2010
(link Adattato graficamente) |
La leggenda di Colapesce
Capitolo Primo
Come ho conosciuto Colapesce
Una musica incomprensibile risuonava nella stanza.
Una melodia sparata sui medio-alti quasi citofonica: la radiosveglia.
Dopo l’udito a risvegliarsi di botto, sono stati nell’ordine la vista ed il tatto. La luce grigia di una mattina di pioggia.
Il liscio e morbido calore delle lenzuola.
Poi come un colpo di pistola, forte e improvviso, arriva la morsa alla nuca ed alle tempie.
Il mal di testa della mattina è avvilente.
Ieri sera il
rossosiciliano, come lo chiama il mio collega, ha valicato la soglia della tolleranza andando ad invadere i vasi e gli anfratti del cervello, pressando adesso sulle sue pareti. Cazzo ho esagerato.
Tento di ricordare, di rivedere le scene della sera prima. E’ tutto un po’ offuscato.
Le immagini mi arrivano come filtrate da una luce rossa, intensa e scura. Come guardare le foto che piano piano spuntano sulla carta messa a bagno negli acidi di una camera oscura.
Un tavolo di un locale vicino al mare. Il tovagliato blu e oro ed i piatti squadrati. Poi quel bicchiere colmo, poi vuoto e poi colmo.
Si parlava di lavoro, di cazzate e di politica. Io e Giovanni, il mio collega appunto.
La sala scarsamente affollata.
Ricordo adesso la sigaretta accesa all’uscita e la sensazione di leggerezza provata al fresco pungente di quella brezza marina. Si sentiva il mare. Si sentiva l’odore ed il suo respiro.
Guidare adesso non era il caso.
- Facciamo due passi verso la spiaggia.
Le nostre voci sembravano le uniche in quel piccolo scorcio di mondo. Era abbondantemente passata la mezzanotte ed aveva piovuto fino a poco prima di uscire dal locale.
Poi nuovamente il vuoto. Sabbia e salsedine.
Parole, risate e confidenze da ubriachi.
Giovanni adesso dormiva adagiato in posizione fetale su un entrobordo da pesca messo a riparo sulla spiaggia. Io sulla rena che cammino storto e lento.
Poi un sospiro. Mi volto verso il mare. Niente.
Ma il sospiro adesso è continuo. Un suono come di un lieve lamento. Mi gira la testa. Sorrido e giro su me stesso.
Ancora quel suono.
Adesso avevo forse anche un po’ di paura.
Poi mi sarò addormentato sfinito dalla stanchezza e dai fumi alcolici. Si, devo aver dormito necessariamente perché ora ricordo il sogno che ne è seguito.
Dal nero del mare, illuminato di grigio in lontananza dalla luna, arrivò ad un tratto una voce. Un po’ soffocata e coperta.
- Sono Cola...
- Sono Cola...
Non riuscivo a vedere nulla se non quella lastra scura e lucente del mare. Qualche barca da pesca attaccata alla boa e la spiaggia desolata.
In quel tratto le case erano assai distanti per poter arrivare ad emettere quei suoni, modulare quella voce. Qualcuno parlava però.
Come da dietro un vetro, da dentro qualcosa…
- Sono Cola, tu chi sei? … Chi sei?
Sono un passante dissi timidamente.
Non sapevo cos’altro rispondere. Non sapevo a chi stessi parlando.
Qualche pescatore incazzato perché il mio collega aveva scambiato la sua barca per un comodo ed umido riparo per la notte?
Qualcuno preoccupato per le reti posate dentro i fusti di plastica accanto ai verricelli a scoppio.
- Come ti chiami?
- Chi parla?
Risposi con la voce troppo alta, gridando forse. Rimbombò tutto intorno.
- Sono Cola
La voce era adesso ferma e decisa.
- Sono nel mare.
Iniziai ad osservare con insistenza la fila di scogli che cingeva per una ventina di metri la costa.
Era tutto in ombra e dai profili diritti dei blocchi di cemento non si scorgeva nessuna figura umana.
- Sono dentro il mare.
Non capivo se le parole che arrivavano alle orecchie erano alterate dalla sbronza o se qualcuno stava allegramente prendendomi per il culo.
Stringevo gli occhi e cercavo di concentrarmi su quei suoni.
Mi piegai e raccolsi dell’acqua schiumosa dal mare. Mi bagnai la fronte e le guance. Scottavo.
- Che vuol dire che sei dentro il mare, non ti vedo.
Adesso moderai il tono e mi rivolsi alla boa come se fosse a pochi metri da me.
- Non puoi vedermi, sono infondo al mare. Sono Cola!
- Io sono Davide e sono sulla spiaggia ma non capisco comunque!
- Sei messinese?
- Si, certo sono di Messina.
- E che cazzo vi spiegano a scuola, non conosci la mia storia?
- Perché dovrei conoscere la storia di uno che di notte prende in giro la gente sulla spiaggia.
- Minchia, sono Colapesce!
- Si, ed io sono Giufà.
Le immagini nella mia mente si fecero nuovamente sbiadite, bruciate da una forte luce.
Un sogno che si dipanava nella mente, sgocciolando sensazioni e suoni quasi reali e vissuti.
Mi alzai barcollando ed andai a lavarmi il viso. Lo specchio implacabile mi restituì l’immagine di un uomo con gli occhi gonfi ed il viso segnato dal dolore.
- Non credi sia un po’ incredibile che io stia parlando con Colapesce?
- Certo che lo è, ma a volte le verità appaiono come inverosimili.
La luna si era spostata ed evidentemente era trascorso del tempo dal principio della conversazione.
Ora ero seduto e parlavo rivolto verso il mare, guardando un po’ la costa calabrese con le luci gialle degli imbarcaderi e un po’ una
boa sbiadita libera da cime e solitaria che galleggiava ad una decina di metri dalla riva.
- Come stai?
- Stanco, sempre più stanco. Che strana domanda che mi hai fatto.
- Perché strana?
- Ad una creatura mitica e fantastica è difficile pensare di chiedere lo stato di salute?
- Credo sia il minimo… interessarsi dell’altro interlocutore.
- Si hai ragione dovrebbe essere così. Ma andiamo al sodo. Se mi sono deciso a parlare con un umano dopo tanti secoli è perché ho bisogno di capire alcune cose. Mi è indispensabile.
- Chiedimi quello che vuoi.
- Si ma devi essere sincero nelle tue risposte. Ti chiedo di parlare con la verità, non come siete abituati voi lassù.
Mi si aprivano sprazzi di lunghi monologhi che la voce dentro al mare faceva. Mi raccontava di come riusciva a sentire ciò che accadeva nel mondo emerso. Lo capiva dai suoni e dalle voci che attraverso la terra ed il mare gli giungevano.
Mi ha anche deliziato con una dissertazione sulla conduzione del suono attraverso i solidi. Riusciva ad avvertire dei cambiamenti anche da come l’acqua del mare gli arrivava a centinaia di metri di profondità.
Mi raccontava di come tutto andava lordandosi. Del peso che avvertiva sulla spalla ad ogni palazzo che veniva eretto nella parte nord-orientale della Sicilia.
Anche l’uno ottobre sentì un forte rumore. Uno scossone che gli aveva fatto tremare le braccia.
- Deve essere successo qualcosa di grave, vero?
- Si, molto grave. Tanti morti e tanta disperazione.
- Ho sentito il rumore di oggetti volanti per un paio di giorni. Ho avvertito sirene e crolli. Alcune urla che poi sono divenuti pianti e poi flebili lamenti. Poi silenzio.
- Due paesi sono stati avvolti dal fango. Un costone di una montagna si è sgretolato sotto la pioggia avvolgendo uomini e cose
>
- Io quando piove lo sento, ma non mi sembrava che fosse così forte, ci deve essere qualcos’altro? ricordati la sincerità.
- Hai proprio una fissazione con la sincerità. Perchè dovrei mentirti?
- Io non conosco il motivo per cui tu possa farlo, però ricordati che io sono finito quaggiù per colpa di una menzogna.
- Ascolta, io vuoi perchè brillo, vuoi perchè così sono fatto, ti sto dicendo tutta la verità.
Silenzio. Solo nuovamente il leggero rumore del mare. Mi guardai attorno e tutto era immutato. Mi sentivo un pò coglione, forse avevo immaginato tutto.
Rossosiciliano.
Ad un tratto chiamai a voce alta, Colapesce.
- Sono qua, dove vuoi che vada.
- Perchè ti sei ammutolito?
La sua voce si fece più lenta e sofferente. Il suono delle sue parole risuonava come una cantilena tra la risacca delle onde.
- Io ricordo com’è fatta Messina. Ricordo le colline a ridosso del mare. Ricordo le rasole coltivate e le
ammacie. Poi le grandi pinete. Ci sono i torrenti e le trazzere che si inerpicano fino in cima alle montagne. Ma non ricordo mai di pioggia che fa scivolare le montagne.
- Se è per questo non ricordi gli incendi che bruciano le pinete e la gente che non coltiva più la terra.
- L'acqua scorre da una vita dall'alto in basso, si incanala verso i torrenti e scende verso il mare. La pioggia serve per dare vita non per mietere morte.
- Sai Cola, quando la pioggia cade su un territorio in cui l'incuria è la sola regola succede un disastro.
Sembrava deluso e rammaricato. Come gli anziani spesso reagiscono alle atrocità del progresso sembrava nel tono incredulo.
Mi piegai per allacciarmi le scarpe e senti forte la pressione alla nuca.
Il malessere fisico si mischiava alla confusione dei ricordi. Che cos'erano questi lampi che mi illuminavano il ricordo della serata.
Con chi avevo parlato seduto sulle umide pietre per tutta la notte. Mentre pensavo a questo mi passai la mano sul sedere e lo sentì indolenzito.
Cosa era successo esattamente quella notte. Dovevo scoprirlo. Avrei chiamato Giovanni per farmi raccontare quello che ricordava lui.
Gli occhiali da sole non riuscivano ad impedirmi di strizzare gli occhi alla vista del giorno.
Ad ogni scalino il cervello sobbalzava nella scatola cranica provocando dolore.
- Pronto, Giovanni come stai?
- Bene, bene. Tu?
- Insomma, ho un solo problema, non ricordo bene quello che è successo stanotte.
Sapevo che dicendo così avrei suscitato la sua ilarità. Avrebbe pensato che non reggevo bene il vino e che sono solo un picciriddu. Ma non avevo alternative.
- Verso le quattro e mezza mi sono svegliato e ti ho trovato addormentato su di un masso. Eri tutto rannicchiato e sparavi minchiate.
Mi hai chiamato Cola per tutto il tragitto fino a casa. Non reggi l'alcol, lo sapevo.
Non mi aveva aiutato molto. Giovanni non sapeva cosa fosse accaduto su quella spiaggia durante la notte. Lui aveva dormito tutto il tempo e forse alle luci dell'alba si era svegliato ed in più avevo fatto la figura dello stronzo.
Guidando avevo lo stretto sulla destra. I colori che assumeva andavano dal verde al celeste con spruzzi di blu scuro e chiazze di grigio.
- Ma poi che è questa storia del ponte? Non scherzate che io qua non reggo più.
- Dicono che vogliono iniziare quest'opera. Non sono d'accordo neanch'io...
- Da centinaia di anni vi reggo e vi sopporto a fatica. Io lo dico prima, se lo fate io smetto. Non ho intenzione di tenere a galla un'isola di coglioni.
Ricordo poi il racconto della sua storia, di quello che lo aveva portato a reggere la Sicilia per tutti questi anni.
- Della superficie ho un brutto ricordo. Ho ricevuto solo calci in faccia. Non riesco a provare rancore ma grande delusione.
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Venerdì 15 gennaio 2010
Capitolo II
La leggenda
Non riuscivo a ricordare.
Per quanto mi sforzassi di quella sera mi restavano in mente solo alcune sbiadite percezioni.
Una boa arancio che ondeggiava piano brillando sotto la luce della luna, i sassolini umidi sotto il culo e l’ombra scura della fila di massi che cingeva la riva. Vagamente mi giungeva la voce di Giovanni che cantava canzoni popolari siciliane appena prima di cadere sfinito sulle tavole umide ed azzurre dell’entrobordo. Rammentavo anche il gusto un po’ tannico nel palato e la sensazione tagliente di salsedine sulle labbra riscaldate dalle decine di sigarette fumate.
Certo poi quelle parole.
Quella voce calma di uomo giovane che sembrava sgorgare dalla schiuma bianca delle minuscole onde.
Capita a tutti di sognare qualcosa e svegliarsi con quella sensazione di averla vissuta realmente. Un sogno che diviene quasi ricordo per la ricchezza di dettagli e di sensi che sembra a volte realmente accaduto.
Ma stavolta era più forte. Forse amplificato dall’alcol e dalla suggestione dello Stretto.
Forse su quella spiaggia in questo momento c’era un pescatore che raccontava ad altri amici appoggiati alle barche, intenti a preparare
consi e cucire nasse, la storiella di come aveva preso in giro un giovane cittadino per tutta la notte.
Ancor peggio poteva essere tutto frutto della mia immaginazione.
La mia mente lanciava i primi segnali di cedimento? Capita. Lo stress gioca brutti scherzi. Ci sono centri di igiene mentale pieni di giovani stressati che credono di vedere gli alieni o di parlare con dio.
Stavo diventando pazzo o ero abilmente caduto nelle reti di un abile pescatore giocherellone? Mi avrebbero imbottito di inibitori della serotonina o avrebbero riso per sempre del coglione che credeva di parlare con Colapesce.
In un modo o in un altro dovevo capire. Almeno per evitare di assumere farmaci inutilmente.
Dovevo tornare su quella spiaggia.
Sì ma quando.
Di giorno avrei trovato gente che passeggiava con il cane e padri separati con il figlio per mano.
Avrei rischiato di trovare magari quel bastardo di pescatore che mi aveva tirato questo brutto scherzo.
Allora di notte.
Ma come avrei fatto?
Che avrei raccontato a casa?
Dovevo andare sulla spiaggia a capire se stavo uscendo pazzo o se invece mi avevano fottuto (non capisco perché ma la seconda ipotesi mi spaventava meno ma mi faceva molta più rabbia).
Magari avrei scelto il tardo pomeriggio. Verso le sei e mezza in questo periodo è già buio e avrei trovato la spiaggia libera. Era l’unica soluzione per togliermi ogni dubbio. Ci sarei andato oggi stesso. Ora mi sarei messo a lavorare senza pensare a queste stronzate e poi sarei andato nello stesso punto dove mi ero seduto ieri sera.
Entrai in ufficio e mi misi davanti al computer. Dovevo preparare alcune lettere e registrato alcune fatture.
Sì insomma avevo tante cose da fare che mi avrebbero aiutato di sicuro a trascorrere queste ore d’attesa senza pensare a Colapesce.
Non feci nulla di tutto questo.
Non riuscii neanche ad avviare il programma di contabilità.
Nella barra delle ricerche di internet cercai “colapesce”.
86.300 voci sul termine ricercato. La prima riporta che la legenda di Colapesce è un racconto con molte varianti le cui prime risalgono al 1300.
Tutte narrano di questo giovane messinese figlio di pescatori di nome Nicola ma chiamato con il diminutivo Cola e detto Colapesce per la sua abilità di nuotatore.
Nel mare si comportava proprio come un pesce.
Un giorno il re incuriosito dalla sua fama lo volle mettere alla prova e dopo avergli fatto raccogliere oggetti preziosi che egli stesso lanciava nel mare profondo, gli chiese di andare a controllare cosa ci fosse sul fondo del mare.
Cola si immerse e gli raccontò di tre colonne che reggevano la Sicilia.
Una era però di fuoco e vacillava.
Il re gli chiese di raccogliere un po’ di quel fuoco.
Cola ritornò negli abissi e non riemerse più.
Per tutti Cola scelse di reggere l’isola a causa della sua instabilità.
Rimasi colpito tra le decine di versioni della legenda da una che riportava alla fine un messaggio di speranza:
Ci sono anche di quelli che dicono che Cola tornerà in terra quando fra gli uomini non vi sarà, nessuno che
soffra per dolore o per castigo.
Il telefono squillò. Un trillo che mi riportava alla vita reale.
Un richiamo che cancellava sogni, leggende e ricordi.
- Pronto?
- Sì, ci vediamo più tardi.
- No alle diciotto non è possibile, ho un appuntamento importante fuori ufficio.
- Facciamo per domani allora.
Non potevo minimamente lasciare che nulla interferisse con quel mio impegno.
Quella spiaggia, quella boa arancio e quella fila di massi sarebbero stati la mia meta.
Come una biglia che rotola inesorabilmente su di un piano inclinato, era lì che mi sarei fiondato appena buio.
Non riuscii a pranzare né a compiere quelle quotidiane operazioni che ogni giorno accompagnavano la mia vita da impiegato.
Ad ogni principio di conversazione sfuggivo usando le scuse più banali:
"Scusa ma ho un forte mal di testa", "Ora non posso, devo fare una chiamata urgente".
Non volevo che nulla mi distogliesse dalla mia missione. Come un kamikaze ripetevo piano come una litania quello che avrei fatto.
Nulla poteva interferire con il mio proposito, non potevo permetterlo.
Il tramonto illuminava di rosso il Tirreno e le ombre scure avvolgevano già la costa ionica della Calabria e della Sicilia.
Il piccolo canale di mare aveva adesso colori forti come piombo e cobalto.
Non era ancora buio ma non mancava poi tanto.
Mi alzai dalla sedia e come allucinato mi indirizzai senza parlare verso la mia auto.
Mentre guidavo guardavo il mare che appariva sulla mia destra. Con attenzione cercavo tra i solchi delle onde o
tra le piccole aree scure infestate di vortici, qualcosa di quella creatura immaginaria.
Forse come nei film si sarebbe resa visibile solo a me. Ero io, perché speciale in qualche modo,
ad essere l’unico beneficiario di questa straordinaria apparizione.
Misi la freccia verso destra e iniziai a percorrere la strada per la spiaggia.
Sorridendo ripensai alle minchiate che nel mio vorticoso ragionare stavo elaborando per giustificare un ricordo.
Le casette a due piani addossate una all’altra, dai mille colori contrastanti e dalle persiane verdi mi
accompagnavano verso l’ormai scuro mare. Le case dei pescatori avevano l’aspetto di una colorata e
irregolare muraglia tra la spiaggia e il resto della città.
Scesi dall’auto e sentii la necessità di chiudermi la giacca ed alzarmi il bavero.
Una leggera brezza sembrava tagliare il volto. Mi ricordai al volo della fiaschetta in acciaio che tenevo nel
portabagagli con la vodka. Frugai alcuni minuti in mezzo a vecchi giornali e buste di plastica con oggetti ormai scordati.
Trovata. Aveva il tappo leggermente verde di ossido.
Il calore esplose nell’esofago e piano scivolò verso lo stomaco.
Dopo un paio di sorsi chiusi il bagagliaio e mi avviai verso la spiaggia.
Adesso il vento feriva meno.
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Giovedì 21 gennaio 2010
Capitolo Terzo
Umido bagnato e freddo
Umido bagnato e freddo.
Il panorama che si estendeva davanti ai miei occhi era così.
Un vento gelido sollevava piccole goccioline di acqua che nebulizzavano ogni cosa.
Le barche e le piccole cassettine in metallo che racchiudevano i verricelli a scoppio, le bottiglie di plastica ed i
pezzi di tronchi che affollavano la spiaggia. Tutto era spruzzato di acqua e sale.
Più mi avvicinavo alla riva e più subivo la stessa sorte degli oggetti che vi risiedevano.
Il vento non soffiava continuo lasciando il tempo per un attimo al senso di umidità sulla pelle e sui vestiti.
Avevo scelto una giornata sbagliata. Frugai in tasca e presi il pacchetto di sigarette, lo aprii ed al volo le contai
approssimativamente con un rapido sguardo mentre ne sfilavo una.
Erano sufficienti per il tempo che mi ripromettevo di trascorrere in balia di quel maestrale.
Fumavo e passeggiavo piano sull’arenile attento a scansare le onde che di tanto in tanto si spingevano più in alto.
Cazzo che freddo.
Perché avevo lasciato la vodka in macchina?
Avevo il classico atteggiamento di chi si sforza di apparire indifferente. Un passante o ancora meglio uno che aspetta, un amico, un parente, un cliente, un
cristochiunque che lo venga a prendere e nel frattempo fa due passi.
Pensavo che qualcuno da dietro le persiane delle casette aldilà della strada potesse osservarmi. Un maresciallo in pensione
avvisato dalla moglie che stava stendendo i panni, si fosse messo lì per controllare quello sconosciuto che quasi al buio si
aggirava vicino le loro case. Un tossico, un ladro, un suicida.
Guardavo l’orologio per avvalorare la scusa di quello che aspetta e sbuffando sussurravo: cazzo sempre in ritardo!
Durante tutta questa sorta di recita mimica stavo attento a scorgere nel mare qualche segno della mitica creatura e sulla spiaggia qualche segno dello stronzo pescatore.
Il tempo passava, l’umidità si addentrava sempre più in fondo nelle ossa e non succedeva nulla.
Forse non mi sentiva.
Dalla strada arrivava ogni tanto il rumore di auto e motorini. Troppo rumore, troppa confusione c’era ancora per potersi rivelare.
Eppure avevo la sensazione che quel respiro che ricordavo di aver sentito la sera prima adesso era nuovamente presente. Era già
trascorsa più di un’ora e mezza e per provare un po’ di calore avevo già fumato cinque sigarette. Soffiavo il fumo nelle mani per riscaldarle.
Quello sbuffo ciclico diventava sempre più percettibile. Forse cambiava la corrente.
Il vento era calato ma l’aria era più fredda.
La costa della Calabria adesso era sfumata dalle luci dell’illuminazione stradale.
Non si scorgevano quasi più i contorni delle montagne e delle pianure. Una lunga coda nera tempestata ai margini di pietre arancio.
Mi fermai davanti alla boa, la stessa che ricordavo nel caleidoscopio di sensazioni di ieri.
A pochi metri c’era un mattone forato reso liscio dal sale e dal sole. Lo scollai dalla sabbia e lo spostai nella traiettoria
della boa. Lo misi in verticale e lo usai come sgabello.
Seduto sentii la testa indolenzita e ghiacciata. Le tempie mi battevano forte.
Cazzo la testa.
Il vento aveva innescato una delle mie feroci crisi di mal di testa.
Un dolore forte e debilitante che si sarebbe arrestato solo chiudendo gli occhi dopo aver assunto 600 milligrammi di ibuprofene.
Qui non si sente nessuno.
Ma quanto sono coglione… che speravo di trovare?
Chiusi gli occhi e mi strinsi la testa tra le mani.
- Stai male?
Alzai di botto la testa e mi iniziò a girare tutto.
La boa, gli scogli, il mare e le luci gialle giravano tutte attorno.
- Sei tornato.
- Sono tornato. Però sto male.
- Che hai?
- Interessarsi dell’interlocutore è un mio insegnamento.
- E’ una regola di buona creanza.
Parlavo con gli occhi socchiusi per le fitte che mi ferivano da dentro la testa. Non riuscivo a gridare e neanche ad usare un tono alto ma lui sentiva lo stesso.
- Ma se non grido come fai a sentirmi ugualmente da là sotto?
- Sono molto più vicino di quanto pensi. Di tanto in tanto riesco a risalire quasi in superficie.
Certo per poco, non posso lasciare il mio posto a lungo altrimenti sarebbe finita. Per voi
Gli spiegai che ero lì intanto per capire se quella conversazione che ricordavo del giorno prima era realtà o solo immaginazione.
Poi perché forse per via dell’alcol, quella sera non avevo dato la giusta importanza all’evento.
- Pensavo di essere diventato pazzo, sai.
- Non sei il solo. Altre volte ho cercato contatti con voi della superficie.
Di rado per la verità. Le poche volte che ci sono riuscito però non è durato a lungo. I miei amici,
per così dire, dopo poco tempo, davano strane reazioni e finivano con l’essere emarginati e scherniti.
Insomma venivano presi per folli e non tornavano più.
- Minchia! Vuoi dire che verrò rinchiuso pure io?
- Io questo non lo so. Io non so neanche perché poi tutti dobbiate raccontare di quello che vi dico.
Certo mi rendo conto che è questo il rischio che si corre a dire che si parla con un “mito”.
- Però devi anche capire che è quasi inevitabile, vista la straordinarietà della cosa.
- Vedrai che neanche le persone più vicine ti crederanno.
- Vabbè ma io a queste cose non ho ancora pensato. Quindi…
- Continuiamo?
- Cola ascolta, sento freddo da morire, ho un mal di testa che tra poco vomito e credi che sia rimasto qui per smettere?
- Allora continuiamo. Ho anch’io tante cose da chiederti.
Ho dei vuoti e vorrei capire se sia ancora giusto sostenervi o non sia meglio mollare tutto ed abbandonarvi al destino di naufraghi.
Mi accesi una sigaretta e iniziai a dialogare calmo e sereno con quella voce che veniva dal mare.
Ero costretto a parlare strizzando gli occhi per il dolore trattenendo anche una sorta di languore e nausea.
- Cola sto di merda. Non so per quanto tempo riuscirò a stare qui.
- Ma guarda che puoi andare quando vuoi.
- Sì, ma prima di andare via voglio sapere come posso fare per riparlarti. Quando e dove.
- Guarda che io sono sempre qua, da centinaia di anni.
- Sì d’accordo ma vuol dire che se vengo domani mattina possiamo continuare a parlare?
- Potrebbe essere possibile ma preferirei quando non c’è confusione.
- E se tu sei in fondo a reggere la tua colonna come fai a sentirmi?
-Stai tranquillo, ho ormai imparato a memoria la modulazione della tua voce.
Tira un sasso più lontano che puoi e subito dopo pronuncia il mio nome a pelo d’acqua.
- Bene. Adesso vado. Buonanotte.
- Buonanotte anche a te.
Mi alzai piano e mi incamminai verso la macchina. Ero a qualche metro quando mi piegai d’un tratto a vomitare.
La mattina mi svegliai più sereno. Sapevo che non si era trattato di un sogno.
Sapevo che ero il “prescelto”.
Pioveva ma stranamente quella condizione meteorologica sfavorevole non mi causava nervosismo.
Portai mia figlia a scuola con la macchina e la lunga fila di auto incolonnate in quella via stretta e otturata
dalle auto in sosta, non riusciva a farmi smettere di sorridere.
- Ciao papà, ci vediamo all’uscita.
- Ciao stella, fai la brava.
Tanto lo sapevo che era brava. Tutti i professori lo dicevano. Ma un papà che altro può raccomandare.
Nella strada verso l’ufficio accesi la prima sigaretta della giornata.
Iniziai a riflettere su tutte le parole che ci eravamo scambiati con Cola. Glissai su quelle che parlavano di
follia e di manicomi. Mi concentrai sui suoi “vuoti” e su quello che avrei potuto e saputo dire per colmarli.
In ufficio feci la mia solita rassegna stampa consultando su internet i miei quotidiani on line ed i siti preferiti.
Neanche le notizie che come sempre restituivano l’immagine di un paese allo sbando senza giustizia e senza verità,
riuscirono a rattristarmi. Ci si abitua anche al peggio. L’assuefazione è un cancro che distrugge ogni forma di vita e
ogni reazione ad essa legata. L’indignazione e la rabbia si gonfiano come bolle di sapone pronte ad esplodere mute nell’aria dopo pochi secondi.
Ero un’altra volta su quella spiaggia.
Non ricordo come ci fossi arrivato ma ero lì. La sabbia era dura e compatta per la pioggia.
Il mare era scuro e fermo come intimorito dai nuvoloni scuri che lo sovrastavano.
Io nuovamente lì per cercare il mio “amico”. Lo consideravo così, perché dovevo essere l’unico
evidentemente che in questo momento riusciva a parlare con lui. Magari l’unico di questo decennio o forse anche di questo secolo.
Lo vedevo come un uomo solo, incapace e impossibilitato a trovare un dialogo con gli esseri umani. Mi sembrava di
leggere anche un certo doloroso bisogno di comunicare.
Faceva meno freddo e nonostante la monotonia dei colori, lo stretto era splendido. L’aria tersa rifletteva un
paesaggio ricco di contrasti come un bassorilievo d’argento.
Cercai un sasso da lanciare lontano. Mi inginocchiai sulla battigia e pronunciai il suo nome.
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giovedì 4 febbraio 2010
Capitolo 4
Il cielo all’improvviso tuonò.
Nessun lampo e nessun borbottio di preavviso.
Forti e veloci le nuvole grigie urtarono contro quelle nere provocando evidentemente quel potente suono elettrico cupo e tagliente allo stesso tempo.
Aveva appena risposto Cola quando una leggera pioggerellina incominciò a pungere il mare. Sulla sabbia piccoli puntini uniformavano la superficie.
- Si è messo a piovere.
- Ti conviene andare o ti inzupperai tutto.
Il mare adesso raccoglieva la pioggia gonfiandosi e leccando gli scogli con un’onda più lunga.
Avrei voluto dire a Cola che ormai non vedevo l’ora di poter raggiungere quella spiaggia e parlare con lui, ma quello strano e rigido
imbarazzo che spinge soprattutto gli uomini a reprimere gli slanci amichevoli e d’affetto, mi bloccò.
Ci pensò lui a togliere questo imbarazzo.
- Speravo tornassi presto. Avevo proprio voglia di parlare con qualcuno.
- Anch’io.
Per dirla tutta ormai non facevo che pensare a quegli incontri. Non riuscivo ad affrontare alcun impegno senza viverlo come un impedimento ai miei colloqui con Cola.
Ma non aggiunsi altro.
Diluviava. La pioggia ormai avvolgeva tutto. Le scarpe affondarono nella sabbia e sentii l’umido nelle caviglie. Gocce scendevano cadenzate dai capelli.
- Cola vado.
- Sì, è meglio. Spero di vederti presto e di ascoltarti soprattutto.
- Credo sia tu quello con più cose da dire.
- Facciamo un patto allora, prima racconta tu e poi lo farò io
- La mia vita è meno di un ventesimo della tua, cosa potrei dirti che tu non sappia già?
- Tanto. Più di quanto tu possa credere, anzi, magari la prossima volta mi racconterai qualcosa di te.
Ormai lo scroscio dell’acqua era divenuto rumoroso e violento. Ero zuppo fino alle ginocchia e la giacca era divenuta pesantissima.
- Cola a presto. Se non piove, vengo domani.
- Domani sarà ancora così ed il mare sarà molto agitato. Magari dopodomani.
- Se lo dici tu…
- A dopodomani.
Ritornai alla macchina ma non entrai velocemente perché, come un coglione, pensavo che avrei irrorato probabilmente in modo irreparabile il sedile.
Entrai e cercai di posarmi con cautela sul tessuto come per preservarlo da un danno fatale senza neanche poggiarmi allo schienale.
Impostai la temperatura a 24° ed aspettai che arrivasse il caldo alito dalle bocchette del riscaldamento prima di partire.
Mi incolonnai nel flusso delle auto che si spostava verso la città. Erano le undici e potevo ancora fare in tempo per un po’ di “cose di lavoro”.
Avevo segnato tutto su un foglietto.
Dimentico sempre di portare le agende con me. Mi impediscono i movimenti.
Ne compro sempre di belle e tascabili: nei primi giorni ci riporto tutto diligentemente, poi però mi stufo e le abbandono a casa, in macchina o in ufficio.
La lista era lunga. Giro di banche varie. In una per un bonifico ed in un’altra per un carnet. Sarei anche potuto andare in un'altra per portare i bilanci.
Il fatto che il tempo stamattina non promettesse altro che pioggia e freddo aveva reso possibile l’incontro con Cola. La spiaggia era deserta.
I pescatori conoscono i venti e le maree. Loro sapevano che avrebbe diluviato.
Io no. Pensavo solo che ci fosse una giornata coperta, forse anche una breve e leggera precipitazione ma mai sto cazzo di tempesta.
Le strade erano bloccate. Arrivare al centro sarebbe stato impossibile.
Con la musica in sottofondo rivolgevo lo sguardo all’interno dell’abitacolo delle auto in fila. Placidamente godevo della frenesia degli occupanti
restandone assolutamente indenne. Ingolfati dentro giacconi ingombranti e nervosi come cani legati ad un palo, manifestavano la loro rabbia agitandosi con il
corpo e disegnando con le braccia strani paesaggi. Assistevo a bambini impauriti ed ammutoliti nei sedili di dietro mentre genitori inferociti nei posti davanti
pronunciavano bestemmie ritmate dal movimento dei tergicristalli.
Misi una R accanto a quasi tutti gli impegni annotati nel foglietto.
R sta per rinviato.
Ne lasciai uno vuoto.
Banca Agricola. E’ qui vicino. Ci arrivo anche senza addentrarmi verso il nucleo dell’ingorgo.
Però ora sentivo freddo dappertutto.
Io gli ombrelli non li sopporto. Li trovo utili all’inizio ma poi è come per le agende.
Misi l’ipod e mi incamminai riparandomi con l’unico ombrello trovato in macchina.
Aveva un arco rotto e penzolava da un lato. Era vecchissimo. Preso alcuni anni addietro all’Agip. Aveva traslocato in un paio di auto ed era giunto adesso nel cofano di questa.
Il colore originale credo fosse giallo ma adesso sembrava una sorta di senape con striature grigie.
Mi vergognavo un po’.
Lo lasciai con indifferenza nel portaombrelli prima della porta a bussola della banca.
Entrai e vidi che l’agenzia era molto affollata. Sarà giornata di scadenze.
Presi il numero. 49: guardai il display che segnava 29. In termini di tempo equivaleva ad un’ora almeno. Mi guardai attorno per
vedere se c’era qualcuno tra i clienti che conoscevo. Nessuno per fortuna. Mi misi in un angolo lontano dalla folla. Potevo controllare il
procedere della fila e non avere nessuno attorno. Aumentai il volume e iniziai a rilassarmi. Lo facevo spesso. Guardavo l’affannoso vivere
delle persone che come formiche compiono gesti rituali e a volte inutili. Mettevo la musica e li osservavo come fossero dentro un contenitore di
vetro da cui non proveniva alcun suono.
Il signore con il cappello ha una certa età ma tenta sempre di attaccare bottone con quella donna giovane che siede di fronte. C’è poi quello
che guarda verso le casse e scuote la testa. A volte muove la mano su e giù. Fila o non fila lui è sempre scontento di aspettare. Lui è fermamente
convinto che i cassieri non facciano il loro dovere. Per lui, nessuno svolge davvero il proprio dovere. Alla posta o sul tram, dal medico o al
supermercato. Cazzo deve sempre aspettare. Ah se comandasse lui...
La signora anziana seduta sulla destra teneva in mano dei fogli di carta. Aveva il cappotto grigio e le scarpe della farmacia. Doveva prelevare
trecento euro ma non sapeva usare il bancomat. Al cassiere avrebbe chiesto una banconota da cento, due da cinquanta e dieci da dieci euro per i
nipoti e la bottega della frutta che non ha mai resto.
Nel cervello si irradiava dagli auricolari l’organo di Tunnel of love ed a stento riuscivo a trattenere di battere il tempo con il piede.
Da una porta a vetri uscì il direttore ed alcuni clienti gli si fecero incontro. Qualcuno sembrava lamentarsi della fila, dei costi bancari e di altre mille cose.
Era fantastico vederli muoversi come burattini silenziosi mentre la chitarra di Mark Knopfler lacerava i muscoli della mia mano destra facendola danzare su e giù come tenendo stretto un plettro.
- Dovrei prendere un carnet per favore.
- Lei ha la delega vero?
- Certo.
Fuori pioveva ancora a dirotto. Fui costretto a riprendere il relitto d’ombrello dentro il cilindro in metallo nero.
Mi ritrovai così di nuovo incolonnato verso la scuola di mia figlia.
Cercai di pensare a cosa poter raccontare a Cola nei prossimi incontri. Quali avvenimenti della mia vita potevano destare il suo interesse?
Che parte di me poteva rivelarsi interessanti per un uomo che da centinaia di anni viveva in fondo al mare? Lui che l’ultimo mondo visto, era
quello del 1300. Lui che quando mangiava non aveva ancora la forchetta.
Poi per un attimo iniziai a pensare a le poche cose che ricordavo del medioevo.
Ma ancor di più iniziai ad immaginare come si poteva vivere in un piccolo borgo di mare in quel periodo. Casupole e barche a remi. Candele e orinali.
Piccoli orti e strani vestiti. Ignoranza assoluta e diarree mortali. Volgare in strada e latino in chiesa.
Capii allora la voglia di sapere che spingeva Cola a cercare un
contatto in superficie.
Voleva conoscere e capire.
Ma come sarei riuscito io a spiegare in che modo il mondo era cambiato? Attraverso la mia vita o le mie impressioni come avrei
potuto infondere la conoscenza di qualcosa che non riuscivo a capire io per primo.
Ma pur consapevole della mia incapacità a comprendere gli inspiegabili controsensi che questo mondo genera, quali parole avrei usato per far nascere in lui le stesse perplessità?
Mia figlia mi fece un cenno con la mano, mi accostai ed il mio strano ragionamento svanì nel turbinio della sua leggera spensieratezza.
La sua energia volta a scoprire lietamente, crescendo e vivendo, quel mondo che avrei dovuto spiegare anche a Cola mi sembrò la risposta ad ogni incertezza.
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mercoledì 17 febbraio 2010
Capitolo 5
Giovanotto?
Cola aveva ragione. Oggi pioveva ed il mare era molto agitato.
Giornata persa. Oggi niente conversazione sulla spiaggia umida.
Lo sapevo già ma non riuscivo a farmene una ragione.
Il mare era veramente agitato. Lo guardavo da lontano e come sempre ne restavo affascinato.
La sua forza e la potenza delle onde stranamente mi avevano sempre rilassato.
E’ uno spettacolo ascoltarne il suono. Prima si avverte come un rumore cupo e
prolungato per poi udire le veloci e numerose detonazioni sulla riva.
Mille petardi fatti esplodere in pochi secondi. Poi ancora il rombo dell’onda che segue preannunciato dal rumore di ghiaia risucchiata.
Mi allontanai dall’ufficio con una qualche scusa banale, talmente inventata che adesso non riuscivo neanche a ricordarla. Andai vicino la spiaggia.
Questa volta era un po’ diverso rispetto a quando quel moto violento mi calmava. Adesso mi sentivo un po’
turbato. Sentivo un leggero vuoto allo stomaco come quelli che mi assalivano ai tempi degli esami all’università che se non li davo partivo militare.
Ero preoccupato.
Tutte le volte che passavo il tempo a guardare il mare in tempesta avevo la certezza che i pescherecci e le barche fossero tutte al riparo sulla spiaggia o
dentro il porto. Non poteva esserci alcun rischio per i cristiani.
Stavolta però non riuscivo a non pensare a Cola.
Mosso e spinto dalle forti correnti in fondo al mare reggendo il suo pesante pilastro. Poi però lo immaginai come un pesce. Per la prima volta lo pensai così.
Non più come un essere umano ma come una specie ittica assolutamente abituata alle forze marine. Credo che questa immagine in quel momento la scelsi per convenienza in modo da placare la mia ansia. Per lui è una situazione assolutamente normale pensai.
Cazzo però oggi è forte davvero.
Le raffiche di vento disperdevano ovunque nubi d’acqua polverizzata. Sulla superficie irregolare e scossa del mare c’era una coltre giallo-grigia
che ne accresceva l’immagine spaventosa.
Qualche cavallone aveva superato la spiaggia ed il muro della strada arrivando ad inondare la carreggiata. Le barche erano storte e accostate lungo quella
barriera di cemento, rette da grosse catene agganciate a spade d’acciaio murate dai pescatori.
Adesso ero tanto vicino da sentire il viso bagnarsi. Le scarpe erano inzuppate e pesanti.
Ad ogni passo verso la riva corrispondeva un flutto sempre più potente.
Più io mi avvicinavo più il mare si gettava verso di me.
Adesso ero come avvolto da quegli elementi. Sulla mia giacca correvano le lacrime del mare ed i capelli si erano schiacciati sulla testa.
I pantaloni erano scuri d’acqua fino alle ginocchia e l’impetuoso susseguirsi di boati e schianti, deflagrazioni e rimbombi mi aveva ingoiato.
Cola non mi avrebbe potuto sentire in quel frastuono. Ma volevo che lui sapesse che io ero lì, nonostante tutto.
Iniziai allora a pronunciare a voce alta il suo nome. Non c’era nessuno nei dintorni. Nessuno si sarebbe avventurato così vicino a quella
tormenta per non rischiare di infradiciarsi.
Gridai forte chiudendo perfino gli occhi per concentrarmi in quello sforzo.
Li riaprii di scatto per la fredda spinta che mi buttò per terra.
- Cazzo Cola se volevi salutarmi potevi trovare un modo meno violento!
Ovviamente non rispose nessuno. Ovviamente ero inzuppato ed intirizzito.
Ovviamente ero incazzato nero.
Per un attimo mi credevo il figlio di Tritone e adesso mi sentivo solo un povero coglione.
Mi ero infangato e graffiato una mano. Mi incamminai velocemente verso l’auto.
I miei passi facevano lo stesso rumore della pigiatura tradizionale dell’uva.
Adesso pioveva anche più forte ma non mi preoccupava affatto vista la mia condizione. Frugai nel bagagliaio alla ricerca di
qualcosa di utile per asciugarmi o cambiarmi. Niente. Trovai le pinne riposte in estate e perfino l’agenda di tre anni fa, qualche libro e una bomboniera di battesimo del figlio di un mio collega.
Mi sembrò terribile quando me la diede ed oggi mi sembrava anche peggio.
- Che ti è successo?
I miei colleghi mi guardavano sorpresi ed incuriositi e tutti comunque ridendo.
- No sai un mio amico aveva la barca sulla spiaggia e mi ha chiesto di aiutarlo a metterla al sicuro perché il mare se la stava portando via.
Mi balenò in un attimo quella scusa. Però funzionava bene, perché subito dopo tutti iniziavano a parlare di come questo mare avrebbe fatto danni e concludevano dicendo speriamo bene.
Trovai un termoventilatore, uno di quelli che normalmente si usa in bagno e mi ci attaccai.
Aspettando che qualche indumento passasse dallo stato fradicio a quello umido cercai di pensare alle storie da raccontare a Cola.
Cercai, perché comunque in ufficio c’è sempre un casino di gente ed ogni ragionamento si interrompe centinaia di volte.
Mi è sempre piaciuto scrivere. Ho un blog ed in passato scrivevo per qualche giornale locale. Ma era cronaca o inchieste. Che potevo raccontargli,
che avevano arrestato quell’amministratore locale o che avrebbero dovuto sorvegliare su un appalto pubblico?
Mi sovvennero alcune frasi che avevo scritto più di dieci anni addietro.
Me ne ricordai perché anche a quel tempo tentai di raccontare alcune esperienze minime per un’insensata esigenza intima e personale.
Il sabato del villaggio e il Bar Gradina. Già, questi erano i titoli di due racconti che avevo iniziato a scrivere.
Aprii con il doppio click la cartella con il mio nome. Foto, articoli, varie, racconti.
Trovata. Doveva essere lì in Racconti.
Dentro una decina di file in formato word con nomi improbabili. Messina 20080624, oggi è stata una giornata…, in
chiesa c’erano…, senza nome, ABCD…
Erano tutti documenti di un paio di righe. Tanti inizi alcuni anche squallidi. Nessuna traccia dei racconti che cercavo però.
- Pronto? Ciao scusa se ti disturbo ma avevo bisogno di chiederti una cosa urgente. Nel computer che ti ho dato l’anno scorso c’erano
documenti?
- Non credo… però se vuoi controllo. Comunque me lo hai dato almeno quattro anni fa ed io non lo uso neanche più. Dovrei averlo nel ripostiglio,
controllo e ti chiamo.
- Grazie.
Speravo che fossero lì in quel computer posato sullo scaffale accanto a scatole di scarpe e doposci. Speravo che il mio amico mi avrebbe richiamato
per dirmi che aveva trovato i files nominati “il sabato del villaggio” e “bar gradina”.
Speravo che mi avrebbe dato presto questa conferma.
Li avrei stampati e letti a Cola tra una sigaretta e l’altra. Gli avrei
detto prima che erano solo stupidi racconti scritti molti anni addietro per
semplice diletto. Gli avrei detto che era l’unico modo per poter raccontare
qualcosa senza rispondere a delle domande o ricevere l’invito a parlare di
un argomento preciso.
Insomma mi sarei vergognato un po’ ma infondo l’avrei considerato un buon modo per iniziare.
Raccontare io per poter poi ascoltare lui.
- Hai controllato?
- Non ancora. Ma non mi avevi detto che era così urgente. Ci siamo sentiti due ore fa.
- Ok è urgente allora.
- Prima di stasera non avrò modo di controllare. Ti chiamo domani mattina.
Minchia, domani mattina…
Andai fuori a passeggiare. Dovevo allontanarmi da ogni distrazione.
Iniziai a ricostruire con pezzi sbiaditi di memoria i momenti in cui avevo scritto quei racconti.
Non erano importanti sotto l’aspetto letterario ma erano gli unici belli e pronti da poter usare con Cola. Niente cronaca o
politica ma solo storie leggere e buone per rompere il ghiaccio.
Ricordai il portatile su cui scrivevo all’epoca ed anche la stanza e la luce che vi entrava dalla finestra in legno, una luce
grigia da pozzo luce. Ero ancora a casa dei miei sulla scrivania della mia camera. Rammentai il pavimento in segato di marmo ed i poster alle
pareti, il mobilio anni ’70 ed il copriletto a fiori. Ricordai anche l’età che avevo e per un attimo riprovai l’ebbrezza dell’essere talmente giovane.
Riprovai i sentimenti forti e dilanianti che all’epoca mi pervadevano non ancora soffocati dalla costante razionalità che oggi mi
guidava. Come un lampo nel mio cervello si accesero voglie, fantasie e speranze, come un flash furiosamente accecante mi provocarono un brivido lungo la schiena.
Com’era potuta cambiare così tanto la mia vita? Mi lasciai sopraffare dallo sconforto. Oggi ero un perfetto esempio di calcolatore umano di costi-benefici.
A quell’epoca invece perseguivo ogni possibile beneficio a tutti i costi.
Volevo diventare un grande giornalista o uno stimato scrittore e con il mio lavoro, contribuire a cambiare il mondo.
Oggi facevo l’impiegato ed il mondo mi aveva cambiato. Vaffanculo!
La cosa peggiore era che di quel triste e tutto sommato veloce cambiamento non potevo accusare nessuno all’infuori di me stesso.
In fondo però pensai, per contrastare quei pensieri che mi avvilivano ed annientavano, che nella mia mente avevo mantenuto
quell’insana voglia di contribuire a mutare il corso delle cose.
Certo in modo marginale e poco ambizioso. Scrivevo ancora e continuavo ad incazzarmi.
Certo adesso riconoscevo meglio i colori e le tinte meno forti riuscendo a trovare le sfumature e coglierne le differenze.
Forse stavo invecchiando.
Questo termine mi fece paura.
Non avevo mai considerato l’idea di aver smesso di essere “ragazzo” e quindi di essere divenuto uomo adulto.
Certo mi sentivo più padre e molto meno figlio, ma pur sempre un padre ragazzo!
Che pensavano gli altri di me? Dicevano ancora che ero un ragazzo o descrivendomi usavano la parola uomo o ancor peggio signore?
38 anni rappresentano un’età proprio del cazzo pensai. Troppo grande per un fottio di cose che ancora mi interessavano e
troppo giovane per altre che mi sembravano lontane. Ma che sono allora?
Una persona che ha smesso di essere giovane ed è in attesa di invecchiare?
Un altro limbo, un’altra situazione precaria, un’altra attesa?
La mia rabbia e la mia voglia di cambiare che fine avrebbero fatto?
Ricacciate dentro, chiuse, avvolte e represse come la carne schiacciata dentro un arancino?
Tra dodici anni mi sarei ritrovato, come quell’anziano signore che stava in fila in banca, a lamentarmi di qualunque cosa, tanto
per placare il mio astio verso ciò che non ero riuscito a fare, perdendomi nel qualunquismo da fermata del tram?
Provai una profonda pena per me stesso.
Schioccando quasi le dita lanciai la sigaretta lontano. Sentivo ancora freddo alle gambe ancora avvolte nella stoffa umida. Rientrai in
ufficio in silenzio e scuro in volto. Mi misi a lavorare con un assoluto senso di ineluttabile disfacimento.
Bussarono alla porta a vetri.
Un vecchietto con occhiali e coppola mi si fece incontro sorridente.
- Giovanotto è qui che si ritirano le fatture?
Sorrisi quasi commosso.
- Si è qui, si accomodi
Vaffanculo! Per questo signore, che dalle cifre del codice fiscale capii avere più di ottant’anni, ero ancora un giovanotto!
Ripensai che anche mio padre ogni tanto mi chiamava giovanotto.
Mi sentii un po’ meglio.
Di Emanuele Davide Scimone
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