Messina è una città ricca di leggende e folclore, generati
dal tratto di mare sul quale si affaccia e dalla sua natura sismica
Dalle onde dello Stretto sorge la fata Morgana
Tra le storie fantastiche anche quelle di Colapesce,
dei Giganti e della Madonna della Lettera
La «Palazzata» e la Fontana di Nettuno prima del terremoto
del 1908
Lo Stretto di Messina ha sempre racchiuso un mare estremamente pericoloso: qui
sono avvenuti i fatidici terremoti e maremoti che hanno annientato più volte la
città, sulle sue acque soffiano venti procellosi, sorgono miraggi e si
susseguono strani prodigi.
Miti e leggende legati al mare sono di casa a Messina, fin dalle sue origini.
Non a caso il monumento più amato dai messinesi è la cinquecentesca Fontana di
Nettuno, opera di Giovanni Angelo da Montorsoli, col dio marino nell’atto di
placare due ninfe furibonde, Scilla e Cariddi, le stesse che nell’Odissea
mettono a dura prova Ulisse.
Tra i fenomeni più singolari dello Stretto c’è la "Fata Morgana", un’illusione
ottica percepibi le nelle giornate più calde e afose, poco prima dell’alba: si
ha l’impressione di vedere alcune costruzioni fluttuanti sull’acqua, che in
realtà sono le città di Messina e Reggio Calabria riflesse.
Diversi viaggiatori nei secoli passati ne hanno dato testimonianza con la
descrizione di archi e colonne oltre che di torri merlate; probabilmente ciò era
dovuto alla presenza della "Palazzata", la successione continua di palazzi che
incorniciava la cortina del porto a Messina prima del terremoto del 1908, e
della vecchia via Plutino a Reggio.
Ma la tradizione popolare, forse formatasi al tempo dei Normanni, vede nel
miraggio la città sottomarina di Morgana, fata e sorella di re Artù. D’altra
parte in molte leggende messinesi si ritrovano echi e figure del ciclo
carolingio e di quello bretone.
«Scilla», frammento della Fontana del Nettuno a Messina
Nella novellistica locale vi è un racconto che richiama vecchie favole
orientali, quello di Colapesce, a cui si intitola una delle banchine del porto.
All’inizio del Novecento Giuseppe Pitré, il grande studioso di tradizioni
popolari siciliane, raccolse in un’ampia monografia più di quaranta versioni di
questa leggenda.
Colapesce era un pescatore abilissimo che viveva presso Capo Peloro. Egli
disincagliava le reti dei pescatori e li informava se stava per sopraggiungere
una tempesta; conosceva talmente bene i fondali marini da essere considerato
mezzo uomo e mezzo pesce. La sua fama era giunta fino all’imperatore Federico II,
che, trovandosi a Messina, volle incontrarlo. Una versione racconta che
l’imperatore mise alla prova l’abilità di Colapesce promettendogli in premio la
mano della figlia. Costei gettò uno dei suoi anelli in mezzo allo Stretto e
Colapesce lo recuperò per ben due volte, ma alla terza, aumentata la profondità,
non riemerse più, probabilmente perché preferì cercare moglie tra le sirene.
La variante forse più affascinante narra invece che il re chiese un giorno a
Colapesce di controllare su cosa poggiasse Messina. Dopo essersi tuffato,
Colapesce risalì riferendo che la città era poggiata su uno scoglio ed era
sorretta da tre colonne: una intatta, una scheggiata e una rotta.
Per evitare che la sua amata Messina si inabissasse, Colapesce si rituffò e si
sostituì alla colonna rotta e ancora oggi sor- regge questa parte della Sicilia.
Appare evidente il riferimento alla sismicità del luogo, già nota in età
medievale. La dura vita marinara e la preoccupazione costante dei terremoti
hanno fatto dei messinesi un popolo di devoti.
Di particolare venerazione gode san Francesco di Paola, del quale si ricorda il
miracoloso transito sullo Stretto sopra il proprio mantello.
Grandissima devozione è tributata anche alla Madonna della Lettera, la cui
statua si erge su una colonna all’imbocco del porto. Secondo una antica
tradizione nel 42 d.C. Messina mandò a Gerusalemme alcuni ambasciatori per
attestare la conversione della città, avvenuta per opera di San Paolo; lo stesso
Santo li avrebbe accompagnati dalla Madonna, che volle gratificarli con una
lettera in cui affermava la sua protezione sulla città. Lo scritto, redatto in
ebraico, sarebbe stato tradotto in latino nel XV secolo da un erudito bizantino.
Nella festa del Corpus Domini viene portato in processione il "Vascelluzzo", un
veliero a tre alberi lungo circa un metro, al quale è fissato un reliquiario che
contiene i capelli con cui la Madonna avrebbe legato la lettera scritta ai
messinesi. Al prezioso simulacro sono connessi alcuni avvenimenti storici, fra
cui un episodio avvenuto nel 1603: mentre una terribile carestia affliggeva la
città, una tempesta provocata dalla Madonna costrinse una nave carica di grano
che transitava nello Stretto a rifugiarsi nel porto, salvando così gli abitanti
dalla fame.
La Vara di Messina
A partire dalla prima metà del Cinquecento, con l'affermarsi della leggenda
relativa alla Madonna della Lettera, ebbe inizio la splendida festa che culmina,
il 15 agosto, con la processione della Vara (o Bara).
È questa una macchina con una serie di ingranaggi interni che, azionati
manualmente, ne consentono i vari movimenti: nella grande struttura piramidale,
che simboleggia l’assunzione della Vergine in cielo, inferiormente c’è la tomba
della Madonna circondata dagli apostoli e sopra vi sono numerosi angeli su più
livelli, il sole, la luna, il cielo stellato e in cima Gesù Cristo che tiene sul
palmo della mano destra l’Alma Mater (l’anima della Vergine).
Un tempo tutti i personaggi della Vara erano viventi: solo nel 1866 furono
sostituiti con statue.
Ma la processione più singolare è quella del 14 agosto, quando un fastoso corteo
in costume accompagna per la città due enormi statue equestri, i cosiddetti
Giganti, ovvero Mata e Grifone.
Sulla loro origine le tesi sono diverse. Nel 1547 a Palermo furono rinvenute
delle ossa gigantesche, probabili resti della fauna che aveva popolato la
Sicilia in epoca preistorica. Il ritrovamento fece asserire ai palermitani che
la loro città era stata fondata da giganti, il che le conferiva prestigio
rispetto alla rivale sullo Stretto. Forse fu per reazione a simili pretese che
il Senato di Messina ordinò la costruzione delle due statue colossali, alte più
di otto metri e scolpite in legno cavo all’interno.
L’attuale posizione, a cavallo, risale al 1723. Dal 1950 i due giganti vengono
caricati su carrelli con ruote per essere trainati più facilmente.
Grifone, che cavalca uno stallone nero, ha una bellissima testa di moro,
incoronata con foglie di lauro e ornata da orecchini a mezzaluna. Indossa una
corazza sopra una corta tunica bianca bordata in oro.
Nel 1993 è stata ripresa la tradizione di far seguire i Giganti da un’altra
macchina raffigurante un cammello.
Nica Fiori
Martedì 15 agosto 2000
Giornale di Brescia