L'EREDITA'
IMMATERIALE
Aspetti della cultura tradizionale
siciliana
riconducibili alla presenza normanna in Sicilia
Il tema dell'eredità
lasciata dai Normanni nella cultura tradizionale siciliana è troppo vasto perché
se ne possa trattare ampiamente nel tempo che qui è stato a ragione stabilito.
Troppi riscontri andrebbero evidenziati per suffragare anche una piccola
porzione di quell'eredità, e troppo ampio mosaico dovrebbe essere ricomposto
perché i vari aspetti di tale tematica vengano affrontati in maniera organica e
non disarticolandone i nessi che li tengono uniti in un tutto coerente.
Non potendo garantire tutto
ciò, ho preferito fornire, in modo alquanto estravagante, solo alcuni spunti che
spero giovino a che altri, senza limitazioni di sorta, possano in seguito
approfondire i vari temi proposti e rintracciare il reticolo relazionale ad essi
sotteso.
Per quanto concerne gli
influssi della presenza normanna nell'arte figurativa popolare, va rilevato che la
letteratura della conquista normanna, in specie quella meno aulica, dovette
fortemente influenzare l'immaginario collettivo siciliano, tanto da consentire
che la materia cavalleresca importata dai Normanni perdurasse fino al secolo
XIX, dapprima attraverso canali di trasmissione affidati sostanzialmente
all'oralità, ma anche in forme espressive assai raffinate come nei dipinti del
soffitto della Sala Magna dello Steri
di Palermo, realizzati nel XIV secolo ma fortemente influenzati
dall'epopea normanna storicamente condivisa dai Chiaramonte; in seguito nelle
riformulazioni popolari di tale epopea, come nell'Opra dei Pupi e nelle espressioni
figurative popolari in gran parte costituite dalle pitture dei carretti.
1 - Leggendo i titoli dei capitoli de
La
Conquesta di Sichilia fatta per li Normandi, cronaca pervenutaci attraverso
la traduzione di Frate Simone da Lentini del De rebus gestis di Goffredo Malaterra, è
difficile sottrarsi all'impressione che si tratti, piuttosto che di un'opera
composta seicentocinquant’anni fa, di un insieme di didascalie ottocentesche del
teatro dei pupi:
Di la condicioni et di
lu statu di lu conti Rogeri, lu quali conquistau Sichilia; Comu li Normandi prisiru lu Papa et comu lu
Papa li concessi la conquesta di Calabria et di Sichilia; Comu lu conti Rogeri passau in Sichilia et
vinni in Missina; Comu fu prisa la
chitati di Missina; Comu lu duca
Rubertu vinni in ayutu di lu Conti per prindiri Palermu et comu poy appiru
vittoria di Palermitani; Comu Palermu
fu prisu di lu Duca et di lu conti Rogeri, so frati; Comu Maczara fu difisa di li inimichi et
comu li Normandi foru sconfitti in Cathania di li Sarachini et (li Sarachini) in
Iudica per li Cristiani.
Enfasi e contenuti ideologici non dissimili
mostrano infatti le didascalie poste ai bordi delle pitture che decorano le
fiancate di carretti siciliani nei secoli XIX e XX:
Entrata di Ruggero a Palermo; Ruggero caccia i Saraceni; Ruggero alla battaglia della Kalsa; Ruggero il Normanno vittorioso; Ruggero il Normanno in piena battaglia;
Ruggero il Normanno carica; I valorosi guerrieri di Ruggero in
combattimento; I musulmani
sconfitti; Trionfo dei Normanni;
Ruggero il Normanno a Palermo; Ingresso a Palermo di Ruggero il
Normanno; La maestosa figura di
Ruggero il Normanno; Incoronazione di
Ruggero; Notabili a corte; Ruggero riceve i principi musulmani; Ruggero il Normanno riceve la carta
geografica.
L'Opera
dei pupi è il teatro tradizionale siciliano delle marionette armate.
Pare che
essa si sia affermata nella nostra isola nei primi decenni del XIX secolo,
allorquando una nuova categoria di artigiani venne apportando modifiche
sostanziali alle più antiche marionette a filo, presenti già nel '700 a Roma e a
Napoli, poi da quest'ultimo centro esportate in Sicilia.
L'importanza
del teatro dei pupi risiede per un verso nel trarre la propria fonte di
ispirazione dalle prime forme di spettacolo genuinamente popolare affermatesi in
Sicilia nel XVIII secolo, le cosiddette vastasate, per altro verso
nell'attingere, con una filiazione più diretta riguardo al repertorio, a forme
di intrattenimento mutuate dalla tradizione orale, quali le produzioni dei
contastorie e dei "rinaldi" ('u
cuntu).
Anche in tale forma storicamente espressa dalla cultura tradizionale
siciliana è dato riscontrare una elaborazione di temi narrativi in parte
risalenti all'epopea normanna, visualizzata dalla comune presenza in entrambi
gli ambiti delle figure dei Saraceni percepiti e rappresentati come nemici per
eccellenza.
Di fatto, l'Opra dei Pupi, traendo spunti dalla materia cavalleresca
nelle varie forme che questa ha assunto in Sicilia, è sotto il profilo
antropologico un vero e proprio psicodramma attraverso cui ceti sociali
mantenuti per secoli in condizioni di sudditanza hanno potuto sperimentare forme
condivisibili, seppure alienate, di riscatto dalla propria subalternità.
2- La presenza normanna
nella toponomastica siciliana richiederebbe una trattazione ben più ampia; in
questa sede menziono per brevità
alcuni temi storici e leggendari su pochi siti della nostra isola:
Calascibetta
Il territorio di Castrogiovanni prese il nome di Calascibetta dalla figura di una donna, di nome
Betta, che durante l’assedio di Castrogiovanni ad opera del Conte Ruggero
avrebbe informato il condottiero normanno che la città era allo stremo essendo
venuti a mancare i viveri, e ciò nonostante gli assediati con alcuni stratagemmi
avessero fino a quel momento ingenerato nei nemici l’impressione di essere ben
provvisti di scorte.
Furnari
Il territorio ubicato tra
la contrada Arancia (Tripi) e la contrada detta Aranciotta (Castroreale) prende
questo nome da Antonio Furnari, massaro che, secondo la leggenda, avrebbe
offerto ospitalità al Conte Ruggero che gli si era presentato in incognito,
prendendosi cura altresì di un levriero gravemente ammalato del re normanno;
allorquando quest’ultimo, tornato dopo qualche tempo a riprendersi il cane lo
trovò perfettamente guarito, per ricompensare l’uomo gli comunicò che gli
avrebbe concesso quanto questi avesse richiesto, cioè appunto il territorio che
poi da lui avrebbe preso il nome; è notevole osservare che nello stemma della
città, tutt’ora visibile nella Chiesa madre, compare un levriero, accompagnato
dal motto finché venga, che allude
alla fedeltà del massaro.
Ravanusa
In una leggenda locale la
fondazione del paese viene fatta risalire alla miracolosa apparizione della
Madonna al Gran Conte Ruggero durante l'assedio di una fortezza saracena situata
sul monte omonimo.
Essendo i Normanni in difficoltà per la penuria di acqua, la
Vergine Maria avrebbe indicato a Ruggero una vena d'acqua ai piedi di un fico,
facendo si che da un ramo dell'albero reciso dalla spada del re normanno
sgorgasse l'acqua indispensabile a rifocillare e condurre alla vittoria gli
assediatori. Di tale episodio leggendario rimane una testimonianza figurativa
costituita dall'affresco "La Madonna appare a Ruggero il Normanno" esistente
nella locale chiesa dei Minoriti.
Piano del
Conte
Contrada presso Caltagirone, prende il suo nome dal Gran Conte Ruggero, che
quivi accampatosi in attesa di combattere contro i Saraceni, ebbe la visione di
un cavaliere crociato e con un vessillo in mano anch’esso segnato da una croce
rossa combatteva con i normanni e sbaragliava gli infedeli.
Dopo essere entrato
trionfante a Caltagirone per la porta che poi da lui prese nome (di Ruggiero o del Conte), il condottiero decise, a mo'
di resa di grazie, di edificare la Chiesa di San Giacomo e di eleggere tale
santo a patrono della città.
In questo episodio si riecheggiano antiche leggende
su San Giacomo matamoros, che hanno
fatto parte del patrimonio orale dei pellegrini a Santiago de Compostéla.
3- Il patrimonio orale
diffuso nell'area dello stretto e largamente partecipato dall'intera comunità
messinese, almeno fino a quando il sisma del 1908 non determinò una mutazione
antropologica nella cultura tradizionale locale, concerne fra le altre due
figure, Colapesce e Giufà, che appaiono a vario titolo legate alla presenza dei
Normanni in Sicilia.
Colapesce,
giovane messinese
secondo la maggioranza delle redazioni a stampa e versioni orali della leggenda
a noi pervenute, è un essere che partecipa della duplice natura di uomo e di
pesce a seguito di una maledizione scagliatagli dalla madre, esasperata per la
sua eccessiva passione per il mare.
In forza di tale sua ambigua condizione di
uomo acquatico, Colapesce svolge una funzione socialmente utile all’interno
della sua comunità: disincaglia le reti, avverte i pescatori degli imminenti
fortunali e addirittura reca messaggi da una sponda all’altra dello stretto. La
fama delle sue straordinarie capacità giunge fino al Re, che nella maggior parte
delle versioni colte della leggenda è l'imperatore Federico II di Svevia,
presente nella Città dello stretto nella primavera del 1221, ma che nelle più
antiche versioni come quelle di Walter Mapes e di Gervasius de Tilbury è un re
normanno come Guglielmo o Ruggero.
Il sovrano dunque, per curiosità e per
soddisfare un capriccio che viene in quasi tutte le fonti presentato come
naturale corollario dell’arrogante crudeltà dei potenti, obbliga il giovane Colapesce a dare prova delle sue capacità costringendolo ad intraprendere un
vero e proprio viaggio agli inferi; egli dovrà infatti recuperare un oggetto
prezioso (monile, anello, coppa d’oro o d’argento, corona ecc.) che il Re getta
nel fondo del mare. Il giovane avendo eseguito con successo l’ordine del
sovrano, viene da costui costretto a ripetere la prova in condizioni sempre più
difficili, fin quando fallisce e non riemerge più rimanendo per sempre sepolto
sotto l’enorme coltre funebre del mare. In alcune certamente successive versioni
della leggenda, è il giovane nauta a decidere liberamente di non riemergere e
sacrificare così la propria vita, avendo egli scorto una delle tre colonne che
sorreggono la Sicilia in stato pericolante e quindi bisognevole di un perenne
puntellamento.
Il tema leggendario, nella
sua apparente semplicità, è ricco di antecedenti classici la cui presenza è da
ricondurre ad una migrazione di temi analoghi dall’Ellade e dal mondo egeo-minoico alla Magna
Grecia e successivamente al meridione d’Italia (Napoli, Puglia, Calabria,
Sicilia) ed alla più vasta area del Mediterraneo occidentale (Francia e Spagna,
e trae al contempo molti suoi motivi da tradizioni nordiche la cui penetrazione
in Sicilia può essere ascritta ai Normanni.
La figura di Nicola Pesce può essere
inoltre ricondotta a Poisson Nicole,
demiurgo trickster delle acque
presente nella mitologia e nel folklore francesi, ma anche ad archetipi
mitologici che risalgono fino al dio del mare Nettuno.
Quello che in realtà occorre
evidenziare, e che rende la leggenda di Colapesce significativa sotto il profilo
antropologico, è il tema della prova così come esso è stato recepito ed in parte
riplasmato dai ceti subalterni meridionali, ed assunto quindi da questi come
aspetto particolarmente rispondente alla propria visione del mondo.
Colapesce è
un uomo che viene dal popolo e che mantiene tale sua connotazione sociale anche
in presenza di un sostanziale mutamento di stato per ciò che concerne le sue
capacità ed abilità in ambito esistenziale. Come tale, egli deve pagare lo
scotto della conquistata emancipazione dalla condizione di penuria e di limitata
libertà che caratterizza i ceti popolari.
Ho accennato poc’anzi al
ruolo fondamentale svolto dai Normanni per quanto concerne, sul piano culturale
contestuale alla loro espansione politica, la migrazione di molte tematiche
favolistiche, tra le quali quelle connesse alla tradizione epica carolingia ed
arturiana.
Secondo Anita Seppilli in tale trasmissione di elementi epici, che
poi dal Sud si sarebbero espansi anche verso il Nord Italia, rientrerebbero
anche “alcune leggende agiografiche intrise di miti e riplasmate su matrici
antichissime”.
Di fatto, la vittoriosa
penetrazione dei Normanni alla riconquista della Sicilia, che proprio da Messina
prese l’abbrivio con l’entrata trionfale nella città dello stretto del Gran
Conte Ruggero, è costellata di
prodigi, interventi salvifici di santi e figure numinose, fondazioni di luoghi
sacri, ed è caratterizzata da una sostanziale riscrittura organizzativa del
territorio siciliano, cui offrirono un contributo decisivo i Basiliani.
L’area messinese in particolare venne così a costituirsi come luogo di incontro e di
mescolamento di elementi culturali sia nordici che orientali (greci ed armeni in
specie) i quali finirono col sovrapporsi non sempre espungendoli da sé, ai
preesistenti elementi latini, bizantini ed arabi.
Si può senza tema di
smentita affermare che tale grumo magmatico di miti e di credenze si sia
mantenuto integro ed abbia fortemente connotato la cultura tradizionale
messinese almeno fino alla dominazione spagnola, la quale veicolò nuovi e non
meno interessanti modelli culturali.
Per certi versi il passaggio
dalla dominazione araba a quella normanna portò con sé un indubbio mutamento di
prospettive culturali, la cui traiettoria acculturativa può essere
emblematicamente indicata nel cambiamento intervenuto nella novellistica
popolare: dalla figura di Giufà, eroe orientale bizzarro e lunatico, a quella di
Re Artù, dall’impronta marcatamente solare.
Nella cultura tradizionale
siciliana le surreali e tragicomiche storie di Giufà costituiscono nel loro
complesso una sorta di ironico contraltare alla drammatica tragicità
dell’esistenza, proprio come le farse di Nofriu e di Peppinninu, spezzando la tensione delle
assai serie vicende paladinesche, riescono ad allentare, suscitando il riso da
parte degli spettatori, il groviglio di passioni che l’opra dei pupi rappresenta sulla scena.
Il carattere liberatorio e addirittura terapeutico del riso è strettamente
connesso all’originario significato sacro di tale fondamentale espressione
umana.
Giufà possiede tutte le
caratteristiche del demiurgo trickster, dell’essere mitico che è al
contempo personaggio creativo e buffone,
sacro e misterioso, come tale oggetto di tabu, che con i propri fraintendimenti
scardina e mette in crisi le ordinate corrispondenze tra parole e cose, e così
facendo in qualche modo rifonda sempre di nuovo il mondo.
Il riso, nei contesti sopra
richiamati, appare baluardo estremo contro la morte, segnale forte e pregnante
della vitalità che attraversa la storia umana e che di essa demistifica i falsi
idoli, le false verità, i saperi e le certezze tradizionalmente consolidati e
supinamente accettati, nonché lo stesso carattere univoco e monolitico del
linguaggio, laddove tale univocità e monolitismo si traducano in ottusa
cristallizzazione, in rinuncia definitiva alla sperimentazione e alla ricerca,
in passiva cecità di fronte alla straordinaria polisemia del reale.
Così, Giufà appare eroe
levantino, arabo, siciliano: a fronte della inattaccabile serietà degli eroi
nordici, dei modelli culturali importati dai Normanni, Giufà testimonia che
nella sfera culturale nord-africana e islamica, della quale anche la Sicilia
partecipa, l’assoluto si lascia scoprire solo a condizione di essere disposti a
sperimentarne le molteplici aporie.
Come un maestro Zen, Giufà
impartisce i propri insegnamenti compiendo atti ed elaborando stratagemmi
linguistici che sono fonti di illuminazione per chiunque ad essi assista,
squarciando alla stregua di un fulmine la caligine che avvolge il nocciolo
dell’esistenza. Mentre Artù, eroe solare, è l’esponente di un universo serio,
per nulla rabelaisiano, in cui la preminenza rimane per sempre accordata alla
conoscenza, ancorché sapienziale, dell’unica grammatica possibile attraverso la
quale conoscere e decrittare il reale, ossia quella del rito, dell’ordine e del
potere, Giufà è il detentore di un sapere tutto lunare, basato sulla scaltrezza,
sulla capacità di riscrivere la sintassi del mondo attingendo al potere
rivoluzionario della letteralità.
4- Ho accennato ad Artù, e conviene
dunque affrontare ora il tema della presenza normanna nella materia bretone e
nelle leggende plutoniche che in parte da essa derivano. La Sicilia ha
rappresentato, nell'immaginario della letteratura epica, una densa zona di
confine tra mondo cristiano e mondo pagano.
Nelle Chansons de Geste in auge in epoca
normanna, nel XII e XIII secolo, addirittura si retrodatava nel tempo,
attribuendola all'imperatore Carlo Magno o al figlio Luigi, la conquista
dell'isola e la sua liberazione dal giogo saraceno.
Sembra quasi che i Normanni
stessi abbiano cercato, attraverso la propagazione di tali cicli favolistici, di
accreditare i presupposti mitici della propria presenza nel Meridione d'Italia
facendoli apparire una prefigurazione - e quasi un paradigma in qualche modo
"fatale" e fondante - di ciò che all'occhio disincantato degli storici
successivi sarebbe stato percepito come mera - e a volte brutale - avventura
coloniale.
Alla fine del XII secolo la
materia cavalleresca era già ben conosciuta in Sicilia, come dimostra il
Pantheon (1185-1187) di Goffredo di
Viterbo, in cui si narra delle avventure in Sicilia di Carlomagno, di Orlando e
di Oliviero, di ritorno dalla Terra Santa.
Il radicamento di tali
vicende nella cultura locale può essere suffragato, fra l'altro, anche dalla
toponomastica: il casale, il castello e la tonnara di Oliveri, già esistenti
durante il dominio arabo, il capo non molto distante detto Capo d'Orlando, il
centro di Montalbano, sede di un importante castello, che nel teatro
tradizionale delle marionette armate, l'Opera dei Pupi, diviene la patria di
Rinaldo.
Tutti questi legami,
ancorché non sempre storicamente e filologicamente documentati, mostrano a mio
parere come la cultura popolare abbia a suo modo, attraverso le dinamiche e con
le forme che le erano proprie, provveduto a plasmare la materia bretone,
carolingia, normanna, inserendola in un proprio orizzonte culturale e piegandola
ad incarnare modelli di comportamento a vario titolo percepiti come rispondenti
alla propria concezione del mondo e della vita.
Anche per questo la Sicilia ricopre un
ruolo assai rilevante nella geografia immaginaria elaborata nei primi secoli del
secondo millennio; ad esempio, la sede celtica di Avallon, presso cui il corpo
di re Artù, trasportato dalle fate, avrebbe trovato eterna dimora, è stata da
alcuni autori riplasmata territorialmente e fatta trasmigrare in Sicilia.
Nell’ambito della produzione fabulatoria attestata in Sicilia durante l’epoca
normanna, ma per quanto concerne le Eolie già nell'VIII secolo ad opera di San
Willibaldo, i vulcani siciliani (Etna, Vulcano, Stromboli, monte Pelato di
Lipari) sono stati considerati luoghi ctonii in cui è possibile avere contatti
con l'al di là.
Questi luoghi saranno di volta in volta assimilati al Purgatorio
ovvero a porte d’ingresso per l’inferno.
La leggenda di Artù nell'Etna, che
Gervasio da Tilbury riporta nei suoi Otia
imperialia riferendo di averla appresa durante un viaggio in Sicilia
compiuto prima del 1190, ci mostra il re bretone giacente ferito nelle viscere
del vulcano; sebbene il suo domicilio sia descritto come un magnifico palazzo,
le ferite del re, alla stregua che in altre analoghe figure regali del ciclo del
Graal, non si rimarginano,
e tale particolare stato fa di Artù una
figura mediana tra il mondo dei vivi e quello dei morti, come hanno messo in
luce tutti gli studi volti ad evidenziare gli aspetti ascetico-iniziatici della
leggenda.
Su tale figura, e sul complessivo contesto favolistico
che può esser fatto rientrare nel tema del Motif-Index of Folk Literature di Stith
Thompson (otherworld in hollow
mountain, oltretomba nel cavo della montagna), l'essenziale è stato scritto
da Giuseppe Pitrè e da Arturo Graf nel XIX secolo, da Jacques Le Goff nel XX,
mentre Anita Seppilli ha bene evidenziato il ruolo svolto dai Normanni nella
propagazione della materia bretone in Sicilia.
La letteratura carolingia era
diffusa in Italia fin dai primi decenni del XII secolo, laddove quella
arturiana, indubbiamente veicolata dai normanni, cominciò a circolare mezzo
secolo più tardi.
E' degno di nota il fatto che la leggenda di Artù sarebbe in
parte trasmigrata adattandosi ad altri imperatori che ebbero a che fare con la
Sicilia, come Federico II e Federico I Barbarossa, e ciò è senz'altro da
ascrivere all'articolato milieu
culturale dei sovrani normanni, imparentati con gli angioino-plantageneti
d'Inghilterra (Enrico il Plantageneto e il figlio Riccardo Cuor di Leone sono re
d'Inghilterra, ma al contempo conti d'Angiò e di Poitiers e duchi di Aquitania e
di Normandia); attraverso tale comune patrimonio favolistico, ancora più
incrementato nell'ambito della corte di Federico II, si può scorgere il
pregnante lavoro di plasmazione della materia bretone per entro una
configurazione autonoma di essa che potremmo definire "siciliana".
Ugualmente
degno di nota e meritevole di un approfondimento, nella prospettiva di una
probabile filiazione normanna, è la tematica delle trovature e dei tesori nascosti, che al
di là delle matrici colte di stampo esoterico che hanno storicamente concorso
alla loro formazione come nuclei favolistici e leggendari, mostrano legami
altrettanto stretti con la reconquista normanna e con le strategie
di antropizzazione e plasmazione del territorio poste in essere dal XII secolo
in poi come strumenti di conoscenza, controllo e gestione dell'isola, come si sa
strappata palmo a palmo agli Arabi.
Nella
Chronica di Roger de Hovedene viene
riportato come nel 1191 il re Riccardo Cuor di Leone, giunto a Catania per
incontrarsi con il re di Sicilia Tancredi, doni a costui, per contraccambiare
quanto ricevuto come contributo alla imminente Crociata (oro, argento, cavalli,
navi), “la meravigliosa spada che i Bretoni chiamano Caliburne”.
La spada Excalibur, com’è noto, nella tradizione bretone è strettamente associata, nonché
alla conquista e al mantenimento del potere da parte di Artù, soprattutto al
diritto e alla sacralità di tale potere.
L’episodio riportato dal cronista
sancisce pertanto una linea di continuità tra la tradizione cavalleresca bretone
e la monarchia normanna in Sicilia.
La Fata Morgana,
protagonista
di alcune fiabe popolari nelle quali viene descritta come proprietaria di
un'acqua miracolosa, ha finito invece col radicarsi profondamente nell’area
dello stretto contrassegnando un fenomeno ottico di rifrazione allucinatoria il
cui effetto fantasmagorico venne spacciato per atto di incantagione degli
antichi, ad onta delle dotte spiegazioni che poi ne rese il poligrafo gesuita
Athanasius Kircher. E' probabile che il personaggio storico della sorella di
Artù abbia finito col sovrapporsi ad una figura mitica preesistente nell'area
peloritana, probabilmente una delle personificazioni della Grande Madre
mediterranea (o, come dice Robert Graves, della Dea Bianca), la cui caratteristica era
quella di detenere un potere magico che chi l'avesse "posseduta" avrebbe potuto
conquistare per sé.
Si tratta in ogni caso di una figura complessa e
stratificata, partecipando, nel corpus di leggende che la riguardano,
della duplice natura acquea e plutonica.
5 - Anche nell'ambito
cerimoniale e rituale è ancora possibile cogliere tracce della presenza normanna
in Sicilia.
A Monforte San Giorgio, ad esempio, i diciannove giorni che
intercorrono tra la festa di Sant'Antonio Abate e quella di Sant'Agata sono
scanditi dalla Katabba, suono
congiunto di tamburo e campane, che ricorda due volte al giorno, prima dell'alba
e dopo il tramonto, la liberazione del Valdemone ad opera del Gran Conte
Ruggero.
La rievocazione, oggi solo affidata a suggestioni di tipo sonoro, si
articolava un tempo secondo vere e proprie rappresentazioni mute a cielo aperto
che avevano luogo nel giorno della Candelora, quivi denominata anche "festa del
Lauro"; durante tali pantomime faceva la sua apparizione l'effigie del cammello
che, come vedremo nelle feste del mezzagosto messinese, è direttamente legato
alla conquista normanna. Questa figura festiva è peraltro rilevata anche in
altri centri della Sicilia e della Calabria, come San Costantino di Briatico,
Casalvecchio Siculo, Castroreale, tutti interessati dal passaggio dei
Normanni.
Altre feste siciliane, come
la festa del Tataratà a Casteltermini e quella della Madonna delle Milizie a
Scicli, traggono certamente origine dall'epopea normanna.
A Scicli, ad esempio,
si ricostruisce in forma figurata, attraverso il coinvolgimento di tutta la
comunità, l’intervento salvifico della Madonna, scesa dal cielo a dare man forte
ai Normanni, giunti anch’essi miracolosamente sotto la guida del Gran Conte in
aiuto degli Sciclitani, assaliti da un esercito di Saraceni sbarcato di sorpresa
a Donnalucata.
Ma a tale epopea sono probabilmente riconducibili anche eventi
cerimoniali svolgentisi extra moenia,
come il pellegrinaggio al santuario delle tre Verginelle a Tortorici, in cui
assumono un particolare rilievo pratiche cultuali assai arcaiche che
verosimilmente i Normanni importarono dal nord Europa.
La prima domenica di agosto
parecchie centinaia di fedeli provenienti da numerosi centri dei Nebrodi, ma
anche dalla zona etnea ed ennese, si recano in pellegrinaggio in contrada
Acquasanta, nel territorio di Tortorici, presso un piccolo santuario posto su un
altipiano. Un tempo il percorso veniva effettuato interamente a piedi, mentre da
qualche anno la maggior parte dei pellegrini giunge in auto fino alla casa
d'accoglienza, ove hanno luogo le funzioni sacre, sita ad alcune centinaia di
metri dal Santuario delle Tre Verginelle.
Secondo la tradizione orale le tre
fanciulle, allontanatesi nel bosco dalla custodia paterna, si imbatterono in un
turpe individuo, nell'iconografia popolare oggi raffigurato con i tratti
somatici di un turco infedele, il quale cercò di sottometterle alle sue insane
voglie. Essendosi le ragazze rifiutate di piegarsi alla violenza, il bruto con
una scimitarra ne uccise due e si accingeva a completare l'eccidio quando in
prossimità del cadavere di una delle giovinette prese a sgorgare l'acqua fino a
formare una polla ben presto rivelatasi fonte dalle straordinarie virtù
terapeutiche.
Intorno a tale acqua
santa la devozione popolare promosse la costruzione del piccolo Santuario,
formato da due soli ambienti, in uno dei quali è visibile la fonte miracolosa ai
piedi di un rudimentale altare con l'icona delle Tre Verginelle, mentre
nell'ambiente adiacente, quasi certamente luogo di incubatio, fanno mostra di sé
innumerevoli ex-voto oggettuali, trecce di capelli, stampelle, abiti da sposa e
capi di biancheria intima.
Al pianoro su cui sorge questo Santuario, oggetto di
un culto in parte preponderante extraliturgico, si accede inerpicandosi lungo
una serie di viottoli in salita contraddistinti ai bordi da piccoli cumuli di
pietre sovrapposte, di 30-40 cm di altezza, denominati localmente castelletti. Secondo la spiegazione che
ne viene offerta, si vuole così contrassegnare la via del ritorno quasi a volere
miticamente riparare alla improvvida leggerezza delle tre verginelle che proprio
per la mancanza di tali segni si persero nel bosco, andando incontro al loro
destino.
In realtà da una analisi
delle caratteristiche schiettamente arcaiche del pellegrinaggio, mi pare di
potere avanzare l'ipotesi che tale ormai consolidato gesto rituale adombri un
più antico ed ormai scomparso culto delle pietre, come del resto anche il nucleo
centrale della devozione popolare, l'acqua santa, potrebbe non essere altro che
l'ultimo cascame folklorico di un arcaico culto delle acque sulfuree affioranti
dalla terra.
Sempre in provincia di
Messina, il palio normanno di Capizzi e le varie cavalcate storiche e non,
presenti o passate, da Messina a Tusa a Mistretta a Capizzi-Caronia etc.
rientrano nelle ritualità festive in cui la cultura normanna è presente come
sfondo ovvero entra a far parte del complessivo e articolato sistema di
rappresentazioni che fa da griglia portante agli usi ed ai comportamenti delle
persone.
Analogamente, alcuni tra i
culti più diffusi in Sicilia, come quelli di San Giorgio, di San Giacomo, di San
Michele, di San Filippo d'Agira, di San Nicola di Bari, di San Teodoro, di San
Bartolomeo, di San Calogero etc., sono in qualche modo riconducibili o
direttamente all'epopea normanna, come San Giorgio e San Giacomo protagonisti di
miracolosi aiuti guerreschi dati all'esercito di Ruggero, o alla capillare
azione promossa dai Basiliani, che dei Normanni furono i più solerti
intermediari sotto il profilo della definizione di un nuovo orizzonte ideologico
chiamato a fare da sfondo al nuovo assetto del potere determinatosi con la
conquista normanna dell'isola.
6 - Esaminando infine le
tradizioni popolari messinesi, ritengo che anche i leggendari progenitori di
Messina, Mata e Grifone, potrebbero testimoniare, nella loro originaria
configurazione, di un'ascendenza in parte derivante dalla magmatica materia mitico-favolistica importata dai normanni.
Secondo Domenico Puzzolo Sigillo, le
due gigantesche statue sarebbero state infatti messe in cantiere per
presentificare ritualmente la vittoria e la successiva supremazia che la
parzialità latina nella Messina del XII
secolo conseguì ed affermò sulla parzialità greca in precedenza egemone;
l'occasione del riscatto sarebbe stata determinata dalla presenza nella città
dello stretto, in un periodo di alcuni mesi a cavallo tra gli anni 1190 e 1191,
del Re Riccardo Cuor di Leone, diretto in Terra Santa per combattere la Terza
Crociata ma indotto alla permanenza in Messina oltre che da avverse condizioni
atmosferiche, che bloccarono quivi la flotta regia, anche dalla preponderanza e
prevaricazione dell'elemento bizantino in quella Curia Stratigoziale "in cui
allora s'incarnava il potere politico, amministrativo, giudiziario e perfino
militare della Città".
Questi Greci "come ubbriacati dal potere, erano
divenuti uggiosi, non solo agli altri abitanti di Messina (prevalentemente
latini) ma anche ai forestieri, i quali tutti concordemente li ingiuriavano Griffones".
I simulacri di Mata e
Grifone dunque, elaborati in seno alla comunità latina i cui componenti
"credettero conveniente mantenersi legati in una associazione segreta per
organizzare, finanziare ed occorrendo armare e capeggiare l'azione palese ed
occulta, valevole a fronteggiare la insidiosa invadenza dei Griffones", non
avevano altra funzione se non quella di raffigurare, sul piano spettacolare e teatrale, la revanche "ammazzagreci" (matagriffones) il cui più concreto
svolgimento era stato costituito, sotto il profilo dell'architettura militare,
da quel castello di Matagrifone fatto edificare da Re Riccardo a perenne monito
per l'arroganza bizantina.
Proprio a ciò allude la Cronique d'Ambroise, fonte narrativa del
tempo edita con il titolo di L'Estoire de
la guerre saint, in cui viene poeticamente resa testimonianza
dell'iniziativa del Plantageneto:
"Le reis Richarz adonc feseit
Faire un ovre qui lui
plaseit
çe est un chastel,
Mategrifon
Dont furent dolent li
Grifon".
Già da quanto fin qui
esposto trapela l'orizzonte culturale che fà da sfondo alla elaborazione dei due
Colossi, a cui l'indagine di Puzzolo Sigillo conferisce vigore storico e
drammaticità: una municipalità messinese formata da associazioni di maggiorenti
latini organizzate in una setta al fine di perseguire una supremazia politica e
spirituale al contempo nella città.
In tale oscuro magma autoctono confluiscono
elementi ideologici di matrice ghibellina, aspirazioni millenaristiche e spinte
ereticali, per entro un quadro di riferimento sostanzialmente ispirantesi
all'esoterismo medioevale.
Su altri elementi "normanni" pure rilevati intorno
alle figure dei Giganti messinesi, andrà ricordato che la figura del
cammello,
che tradizionalmente accompagna i due Colossi e che è un elemento costante
nell'iconografia storica del mezz'agosto, viene fatta risalire da Giuseppe
Buonfiglio Costanzo e da Placido Samperi proprio ai Normanni, trattandosi in
pratica di un elemento residuo di una popolare celebrazione "della vittoria
ottenuta dal Conte Ruggeri, il quale, fugati i mori, entrò trionfalmente a
Messina coi suoi soldati bagordando, e coi cammelli barbareschi carichi di
spoglie".
Padre Samperi addirittura riferisce nella sua Iconologia che il condottiero normanno
sarebbe entrato a Messina, nel 1061, "non sul'ampia schiena di smisurato
Elefante, o d'orgoglioso Leone, come i Cesari e i Pompei tirati da questi
animali, ma sopra il dorso d'un barbaro Camelo guernito all'Arabesca", e
illustra nella stessa opera una medaglia che reca sul recto l'effigie della Vergine Maria
protettrice dei messinesi, e sul verso il Gran Conte a cavalcioni di un
cammello.
Non dimentichiamo infine che l'Entrata del Conte Ruggero era uno dei soggetti
preferiti nei "trasparenti" ottocenteschi, apparati festivi effimeri costituiti
da pitture collocate sugli sbocchi delle vie e illuminate da dietro, con
risultati di grande effetto scenografico; il più pregevole di tali dipinti,
dovuto al pittore Michele Panebianco, venne riprodotto nel volume di Domenico
Ventimiglia Le Feste secolari di Nostra
Donna della Lettera in Messina,
stampato a Messina nel 1843 e relativo ai festeggiamenti "giubilari" dell'anno
precedente.
Come ho cercato di mostrare,
la presenza dei Normanni in Sicilia dette impulso ad una straordinaria
proliferazione di miti e leggende, di usi e costumi, di temi figurativi, in
definitiva di produzioni culturali che hanno poi per molti secoli, e in qualche
caso fino ai giorni nostri, contrassegnato la cultura tradizionale siciliana,
contribuendo potentemente a delinearne l'identità.
Ciò è stato reso possibile a
causa da una caratteristica storicamente assunta da tale cultura, quella cioè di
costituirsi, non già come riteneva Gramsci a proposito della cultura popolare in
genere come coacervo indigesto di tutte le concezioni del mondo avvicendatesi in
una determinata porzione di territorio, bensì come un vero e proprio palinsesto,
realtà cioè che testimonia, nell’articolazione delle sue (seppure non ordinate)
stratigrafie, della propria vocazione a costituirsi come l’unico vero
contenitore dei tratti culturali dismessi - tratti culturali che non vengono mai
espunti ma trovano, ancorché riplasmati, una loro organica collocazione per
entro il sistema generale di rappresentazioni elaborato in seno ad essa.
Se tutto ciò è almeno in
parte vero, spero non susciti meraviglia l'ipotesi che in questa sede mi provo
timidamente ad avanzare - che l'eredità normanna si sia cioè trasmessa e
conservata nella nostra isola anche e soprattutto attraverso il patrimonio in
gran parte immateriale costituito dalla cultura tradizionale
locale.
Sergio Todesco
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