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Messina nel tempo
Messina
Antropologia e tradizioni popolari

 

 

Se volessimo ripercorrere la storia di Messina, questa straordinaria città che ad onta della sua specialissima posizione di assoluta centralità rispetto al Mediterraneo ha come investito nell’ultimo cinquantennio tutte le sue energie nel rendersi progressivamente vieppiù brutta e volgare, e rassegnata quasi alla propria opacità, se volessimo ripercorrere tale storia attingendo alle svariate mitologie sulle quali gli antichi esercitarono il proprio pensiero selvaggio, scopriremmo con una certa sorpresa che il genius loci si è qui prodigiosamente moltiplicato in un vero e proprio pantheon di figure numinose, tutte impegnate a vario titolo a fornire alla città coordinate mitologiche, geografiche, socio-religiose, esistenziali.
Così il falcetto con cui Crono, il più giovane dei sette titani figli di Urano, castrò il padre sarebbe poi stato da lui scagliato in questo Bosforo d’Italia dando luogo all’ampia zona falcata che contrassegna il porto di Messina.

 

 

Così le peregrinazioni di Orione, forse già accecato dal padre della donna da lui violata, lo avrebbero condotto nell’area dello stretto, dove avrebbe atteso ad assicurare la configurazione definitiva della zona di Capo Peloro.
In modo non dissimile gli scrittori che tra il XVI e il XVII secolo vollero ancorare le origini della città dello stretto ad un evento mitico avvenuto in illo tempore, in un tempo metastorico per ciò stesso fondante e garante di tutta la storia successiva, si appropriarono di brandelli mitologici provenienti da altri più vasti affreschi narrativi inserendo nelle vicende locali tali presenze agiografiche, eroiche o numinose, da Ercole a Eolo, da Odisseo ad Enea, e poi nell’Era volgare da San Paolo a Sant’Antonio di Padova a San Francesco di Paola, da Re Artù alla sorella sua Morgana, eletti al rango di eroi civilizzatori, mitici progenitori o esseri dotati di una particolare carica sacrale, atta a conferire una volta e per sempre spessore e pregnanza, identità e memoria sempiterna al sito.

Tra le figure che segnano il trapasso dalla dimensione favolistica (anche nel caso di personaggi realmente vissuti: transitò veramente l’Apostolo Paolo per Messina? E il Santo Eremita di Paola, attraversò mai lo stretto camminando sulle acque?) a quella storica, va senz’altro ricordata la figura di Colapesce, non di certo perché più reale degli dei o eroi di classica memoria (basterebbe pensare quanti Cola Pesce o Pesce Cola o Nicolaus Pisces si trovano nelle leggende europee, dalla Norvegia alla Grecia), ma senz’altro per il suo porsi, forse per la prima volta nella storia della città, come elaborazione culturale emblematica e metaforica di un’anima popolare di essa, fino ad allora rimasta nascosta ed occultata.

 

 

Colapesce, giovane messinese secondo la maggioranza delle redazioni a stampa e versioni orali della leggenda a noi pervenute, è un essere che partecipa della duplice natura di uomo e di pesce a seguito di una maledizione scagliatagli dalla madre, esasperata per la sua eccessiva passione per il mare. In forza di tale sua ambigua condizione di uomo acquatico, Colapesce svolge una funzione socialmente utile all’interno della sua comunità: disincaglia le reti, avverte i pescatori degli imminenti fortunali e addirittura reca messaggi da una sponda all’altra dello stretto.
La fama delle sue straordinarie capacità giunge fino all’Imperatore, che nella maggior parte delle versioni colte della leggenda è Federico II di Svevia, presente nella Città dello stretto nella primavera del 1221.
E’ interessante notare, per inciso, come la presenza dell’Imperatore a Messina coincida con l’emanazione in questa città di numerose ordinanze e provvedimenti di natura repressiva nei confronti di pratiche che possono essere ricondotte alla cultura popolare.
Lo storico Abulafia ricorda le ordinanze contro le burle (forse pantomime carnevalesche) e contro il gioco d’azzardo deprecato in quanto occasione di turpiloquio. Ma nelle Assise di Messina del 1221 Federico adottò anche provvedimenti di emarginazione nei confronti di due gruppi sociali, gli ebrei e le prostitute, ritenuti pericolosi in quanto fonti di contaminazione per la società cristiana.
Analoga diffidenza era dato di registrare nei confronti delle comunità arabe che con la loro proverbiale prassi di tolleranza razziale e di integrazione culturale rappresentavano una tacita messa in discussione della politica integralista imperiale.

 

 

Federico dunque, per curiosità e per soddisfare un capriccio che viene in quasi tutte le fonti presentato come naturale corollario dell’arrogante crudeltà dei potenti, obbliga il giovane Colapesce a dare prova delle sue capacità costringendolo ad intraprendere un vero e proprio viaggio agli inferi; egli dovrà infatti recuperare un oggetto prezioso (monile, anello, coppa d’oro o d’argento, corona ecc.) che l’Imperatore getta nel fondo del mare. Il giovane avendo eseguito con successo l’ordine del Sovrano, viene da costui costretto a ripetere la prova in condizioni sempre più difficili, fin quando fallisce e non riemerge più rimanendo per sempre sepolto sotto l’enorme coltre funebre del mare. In alcune certamente successive versioni della leggenda, è il giovane nauta a decidere liberamente di non riemergere e sacrificare così la propria vita, avendo egli scorto una delle tre colonne che sorreggono la Sicilia in stato pericolante e quindi bisognevole di un perenne puntellamento.
Il tema leggendario, nella sua apparente semplicità, è ricco di antecedenti classici la cui presenza è da ricondurre ad una migrazione di temi analoghi dall’Ellade e dal mondo egeo-minoico alla Magna Grecia e successivamente al meridione d’Italia (Napoli, Puglia, Calabria, Sicilia) ed alla più vasta area del Mediterraneo occidentale (Francia e Spagna), e trae al contempo molti suoi motivi da tradizioni nordiche la cui penetrazione in Sicilia può essere ascritta ai Normanni.
La figura di Nicola Pesce può essere inoltre ricondotta a Poisson Nicole, demiurgo trickster delle acque presente nella mitologia e nel folklore francesi, ma anche ad archetipi mitologici che risalgono fino al dio del mare Nettuno.
Quello che in realtà occorre evidenziare, e che rende la leggenda di Colapesce significativa sotto il profilo antropologico, è il tema della prova così come esso è stato recepito ed in parte riplasmato dai ceti subalterni meridionali, ed assunto quindi da questi come aspetto particolarmente rispondente alla propria weltanschauung.
Colapesce è un uomo che viene dal popolo e che mantiene tale sua connotazione sociale anche in presenza di un sostanziale mutamento di stato per ciò che concerne le sue capacità ed abilità in ambito esistenziale.
Come tale, egli deve pagare lo scotto della conquistata emancipazione dalla condizione di penuria e di limitata libertà che caratterizza i ceti popolari.

 

 

Si accennava poc’anzi al ruolo fondamentale svolto dai Normanni per quanto concerne, sul piano culturale contestuale alla loro espansione politica, la migrazione di molte tematiche favolistiche, tra le quali quelle connesse alla tradizione epica carolingia ed arturiana. Secondo Anita Seppilli in tale trasmissione di elementi epici, che poi dal Sud si sarebbero espansi anche verso il Nord Italia, rientrerebbero anche “alcune leggende agiografiche intrise di miti e riplasmate su matrici antichissime”.
Di fatto, la vittoriosa penetrazione dei Normanni alla riconquista della Sicilia, che proprio da Messina prese l’abbrivio con l’entrata trionfale nella città dello stretto del Gran Conte Ruggero, è costellata di prodigi, interventi salvifici di santi e figure numinose, fondazioni di luoghi sacri, ed è caratterizzata da una sostanziale riscrittura organizzativa del territorio siciliano, cui offrirono un contributo decisivo i Basiliani. L’area messinese in particolare venne così a costituirsi come luogo di incontro e di mescolamento di elementi culturali sia nordici che orientali (greci ed armeni in specie) i quali finirono col sovrapporsi non sempre espungendoli da sé, ai preesistenti elementi latini, bizantini ed arabi.
Si può senza tema di smentita affermare che tale grumo magmatico di miti e di credenze si sia mantenuto integro ed abbia fortemente connotato la cultura tradizionale messinese almeno fino alla dominazione spagnola, la quale veicolò nuovi e non meno interessanti modelli culturali.
Per certi versi il passaggio dalla dominazione araba a quella normanna portò con sé un indubbio mutamento di prospettive culturali, la cui traiettoria acculturativa può essere emblematicamente indicata nel cambiamento intervenuto nella novellistica popolare: dalla figura di Giufà, eroe orientale dai tratti vagamente tricksterici, a quella di Re Artù, dall’impronta marcatamente solare.

 

 

Giufà, il furbo sciocco delle novelle popolari siciliane, è il detentore di un sapere basato sulla scaltrezza, sulla capacità di riscrivere la sintassi del mondo attingendo alla fertile ambiguità della metafora; Artù è l’esponente di un universo serio, per nulla rabelaisiano, in cui la preminenza rimane per sempre accordata alla conoscenza, ancorché sapienziale, dell’unica grammatica possibile attraverso la quale conoscere e decrittare il reale: quella dell’ordine, del rito e del potere.

 

 

La Fata Morgana, della cui attività non rimane notizia alcuna, ha finito invece col radicarsi profondamente nell’area dello stretto contrassegnando un fenomeno ottico di rifrazione allucinatoria il cui effetto fantasmagorico venne spacciato per atto di incantagione degli antichi, ad onta delle dotte spiegazioni che poi ne rese il poligrafo gesuita Athanasius Kircher.
Già da quanto fin qui esposto risulta abbastanza delineato il genio della città.
Messina si presenta cosmopolita, aperta al futuro ma attenta a cogliere e tesaurizzare la sua anima classica; essa si sente proiettata verso il mare e percepisce al contempo di essere il punto di arrivo di correnti migratorie a volte provenienti da terre lontanissime. La sua cultura riesce a conservare, stratificati come in un palinsesto, i tratti che tutte le genti che l’hanno attraversata, senza mai peraltro possederla del tutto, le hanno lasciato in eredità.
Nei primi secoli del secondo millennio la città è un luogo di tolleranza in cui coesistono più o meno pacificamente etnie diverse, tutte in qualche modo accomunate dal commercio e dalla variegata attività lavorativa, produttiva, artigianale che intorno ad esso si svolge attraverso una mirabile quanto continua circolazione di merci tra la città ed il proprio entroterra rappresentato da una straordinaria cintura di villaggi che costituiscono nel loro complesso un sistema satellitare ricco di risorse per un agglomerato irrimediabilmente compresso tra i Peloritani ed il mare.
 

 

Cosa pensava, elaborava, riplasmava il popolo messinese nell’incessante lavorío di produzione e riproduzione delle condizioni materiali della propria esistenza?
Ancorché riferentesi a dinamiche di circolazione di modelli e di valori culturali per un periodo circoscritto ed in un’area assai più vasta (l’Europa cinque-settecentesca) rimane valida anche ai fini di una analisi dei tratti fondamentali della cultura messinese la preziosa notazione di Carlo Ginzburg secondo la quale “cultura dominante e cultura popolare giocano una partita ineguale, in cui i dadi sono truccati. Dato che la documentazione riflette i rapporti di forza tra le classi di una società data, le possibilità che la cultura popolare lasciasse una traccia di sé, sia pure deformata, in un periodo in cui l’analfabetismo era ancora così diffuso, erano molto ridotte. A questo punto, accettare i consueti criteri di verificabilità significa esagerare indebitamente il peso della cultura dominante”.
La produzione ideologica dei ceti popolari messinesi perviene oggi a noi dunque attraverso un ineliminabile filtro storiografico. I rapporti tra culture orali e civiltà della parola scritta non sono mai stati né pacifici né univoci, hanno spesso registrato patteggiamenti e compromessi, ma di fatto la storia è stata scritta secondo i quadri di riferimento dei ceti dominanti.
E’ utile a tale proposito osservare che le tradizioni popolari messinesi vennero fissate alla memoria da una schiera di borghesi illuminati, cultori di storia patria ed eruditi per diletto (T. Cannizzaro, G. Grosso Cacopardo, G.La Corte Cailler, G. Arenaprimo, D. Puzzolo Sigillo ed altri) i quali riferivano dei fatti di cultura popolare con un rigore storico autoappagantesi dei riscontri archivistici ma quasi mai disposto a gettarsi in medias res con la sensibilità antropologica che l’argomento richiedeva, e pertanto lasciavano operare, seppure inconsapevolmente e in perfetta buona fede, nella valutazione dei fenomeni indagati i propri parametri culturali, tipici della classe di appartenenza nella seconda metà dell’ottocento e fino alla Grande Guerra, quella borghesia al contempo liberale e conservatrice destinata ad essere travolta e spazzata via dal Fascismo.
Fatta salva la consapevolezza di tale situazione, rimane purtuttavia utile ed opportuno per noi, nella prospettiva di una analisi non inficiata dalla genericità, l’approfondimento di alcuni snodi pregnanti che è dato cogliere nella storia “antropologica” della città, in cui appaiono più agevolmente leggibili, al di fuori delle coperture ideologiche, i tratti distintivi della cultura popolare messinese.
Semplificando e sintetizzando, si potrebbe individuare tali snodi riconducendoli ai seguenti ambiti:
1) il rapporto di Messina con il proprio passato storico ovvero mitico e favolistico, che si concretizza in ambito colto nell’articolata serie di studi e di interessi rivolti verso il piano sotterraneo della città che conserva, stratificate, le vestigia dell’antichità, mentre in ambito popolare dà luogo ad un articolato corpus di mitologie e credenze intorno a tesori nascosti esistenti nelle sue viscere, che in parte riprendono temi comuni alle tradizioni plutoniche presenti nelle culture popolari sotto ogni latitudine offrendo tuttavia tratti originali di stretta pertinenza peloritana;
2) l’ambito festivo, la cui gestione presenta a Messina, almeno nel periodo di cui è rimasta testimonianza storica ( secc.XVI-XIX ), una singolare ricchezza di machine e di apparati rituali approntati per le più svariate occasioni celebrative; 3) il rapporto della città con i violenti terremoti che hanno storicamente punteggiato la sua esistenza; tale rapporto ha finito col configurarsi come vero e proprio orizzonte esistenziale, produttore di angoscia e di paure ma anche veicolo di aspettative palingenetiche e di ideologie; 4) l’universo dei mestieri, delle attività lavorative e produttive tradizionali, che ha fortemente connotato la cultura popolare messinese attraverso una amplissima gamma di tecniche e di saperi fabrili, che vanno dalla molluschicoltura alla pesca del pescespada, dalla sericoltura all’estrazione delle essenze, dalle attività proprie della realtà agropastorale e contadina dei villaggi ai mestieri di città, la produzione dolciaria in testa, ancora oggi in parte investigabili ancorché ridotti a scarne vestigia di una cultura un tempo organica ed imponente.
Di ognuno di tali ambiti si fornisce qui di seguito un ulteriore, seppure non esaustivo approfondimento.
1) Per quanto concerne il primo punto ci si limita in questa sede a richiamare gli interessi antiquari, che costituiscono una cifra fondamentale per la comprensione delle caratteristiche assunte dalla produzione intellettuale, qui come in poche altre città impegnata a riportare alla luce le vestigia del passato prossimo e remoto di Messina.

 

 

Sul piano della percezione popolare di tale articolazione sotterranea della città basterà qui menzionare la credenza intorno alla cosiddetta truvatura di Via Cardines, ove esisteva un tempo un’antica iscrizione osca sotto la quale si riteneva nascondersi un tesoro, disposto a rendersi patente ove un uomo a cavallo, attraversando al galoppo la via, avesse letto, ad alta voce e senza rallentare l’andatura, la scritta misteriosa; o quella concernente la presunta città sommersa esistente nei fondali del lago di Faro, zona nella quale secondo autori classici (Solino) esisteva nell’antichità un tempio dedicato a Nettuno i cui materiali sarebbero stati in seguito reimpiegati nell’edificazione del Duomo; ed infine, nel più ampio comprensorio messinese, la tradizione concernente i tesori nascosti del Castello di Fiumedinisi, di Monte Scuderi e di altri luoghi incantati, dei quali è possibile impadronirsi a condizione di compiere, in prossimità dei siti che li custodiscono, riti particolari che ordinariamente mettono alla prova l’abilità e il coraggio (e quasi sempre a repentaglio la vita) di chi voglia per avventura tentarne la conquista.
Già da tali sintetici cenni riguardo a quest’ultima tradizione si nota come i tratti provenienti dalla cultura popolare si trovino strettamente mescolati ad elaborazioni di stampo esoterico ed iniziatico di chiara matrice colta, al pari della per certi versi analoga leggenda di Artù nell’Etna cui il Medioevo riservò grande popolarità e circolazione.

2) L’aspetto relativo alla fruizione popolare del sacro trova a Messina un’ampia gamma di rappresentazioni.
Dal tradizionale culto della Madonna della Lettera alle teatrali feste in onore dell’Assunta, dalle ritualità penitenziali poste in essere nella Settimana Santa alle più arcaiche cerimonie contadine di matrice precristiana, la dimensione festiva ha in ogni epoca costituito per la città un potente elemento di coesione sociale e d’identità comunitaria.
 

 

Il momento più significativo del ciclo pasquale a Messina è la processione delle barette del Venerdì Santo, che costituisce una delle più antiche tradizioni popolari messinesi.
L’uso di condurre in processione gruppi statuari raffiguranti scene esemplari della Passione durante la Settimana Santa è infatti attestato a Messina da circa quattro secoli. Come in molti altri centri della Sicilia e del Meridione, la Via Crucis di Messina è di chiara origine spagnola e mutua le proprie caratteristiche dal costume tipicamente iberico di celebrare le feste pasquali con grandi rappresentazioni a cielo aperto, fortemente drammatizzate, nelle quali si rievocano le fasi salienti della passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, affidate a serie di tableaux vivants con personaggi in carne ed ossa o, appunto, a gruppi statuari condotti in processione da numerosi portatori i quali, per devozione o per estinguere il debito contratto con un voto, si sobbarcano la fatica del trasporto di tali pesantissime machine.
La processione della Via Crucis consiste nel trasporto delle barette, ognuna delle quali seguita da un gran numero di fedeli, lungo un articolato percorso che, dipartendosi dalla piazza Duomo ove i fercoli sono stati fatti convergere dopo essere stati prelevati dalla sede che attualmente li ospita, a questa poi ritorna a seguito di un tragitto che prevede numerose fermate o stazioni durante le quali le scene della Passione sono fatte oggetto di mesta contemplazione; pratiche devozionali e penitenziali, orazioni e preghiere collettive.
In passato, quando tra il XV e il XVI secolo si venne affermando tale rito, in luogo dei gruppi statuari venivano condotte in processione l’urna con il Cristo morto seguita da altre bare. La cerimonia si svolgeva nella notte del giovedì santo ed era organizzata e gestita dalla Confraternita di Nostra Signora del SS. Rosario sotto il titolo “Della Pace”.
Successivamente al terremoto del 1783 la della Pace si fuse con quella dei Bianchi e la processione venne spostata al venerdì santo. Si vennero successivamente aggiungendo alle urne alcuni gruppi statuari, del quali il più famoso rimane quello che raffigura la caduta, eseguito nel XVIII secolo dal famoso ceroplasta messinese Giovanni Rossello, e poi rifatto alla fine del XIX secolo da Francesco Fiorello, anch’egli artigiano della cera.
Nel 1846 venne realizzata dall’artigiano della cartapesta Matteo Mancuso l’Ultima Cena, purtroppo andata distrutta nel terremoto del 1908 che determinò lo scioglimento della Confraternita e la scomparsa dei gruppi statuari ad eccezione dell’Ecce Homo e del Cristo alla Colonna.
Le attuali barette (o Varette, come comunemente sono chiamate) sono in numero di undici, ma di tali gruppi solo sei presentano interesse di artigianato locale e sono valutabili come beni etno-antropologici a pieno titolo, le rimanenti cinque essendo state realizzate negli anni cinquanta da una ditta di Ortisei.
I sei gruppi statuari più antichi, ossia l’Ultima cena, realizzata da Giovanni Scarfi e dal cartapestaio leccese Carmelo Bruno intorno al 1916, il Cristo alla colonna e l’Ecce Homo risalenti alla fine del secolo XVIII, la Caduta sotto la croce chiamata anche Cascata, rifatta nel 1920-21 utilizzando forse una statua realizzata prima del terremoto dal Fiorello, la Deposizione, realizzata dal già citato Carmelo Bruno ed apparsa per la prima volta nella processione del 1923, e Gesù nel Sepolcro, realizzata negli anni ’20, testimoniano di una continuità nei saperi artigianali che attraversando alcuni secoli giunge fino ai nostri giorni, con notevoli apporti di cartapestai siciliani e meridionali in genere impegnati (soprattutto i pugliesi) nella produzione di simulacri processionali che si pongono come zone di confine tra la statuaria colta ed i manufatti d’arte popolare tout court.
La processione delle Varette, ancora oggi abbastanza partecipata ad onta del contesto urbano chiassoso e distratto nel quale essa si svolge, è comunque oggi una pallida eco di quella che doveva essere la Via Crucis nella Messina ottocentesca, quando non era ancora stato dismesso l’uso di lanciare, lungo il percorso seguìto dal corteo, una fitta pioggia di fiori dai balconi, ed il susseguirsi delle azioni e dei gesti penitenziali ancor più potenziati dalla vista degli emblemi della passione trasformava l’evento festivo in un pratica comunitaria incentrata nella teatralizzazione di un lutto cosmico.

 

 

Nel mese di giugno, periodo che apre la ritualità gioiosa e trionfale dell’estate, si svolgono le secolari feste dedicate alla Madonna della Lettera, protettrice della città. Secondo una tradizione ormai consolidata, nell’anno 42 dell’era volgare una delegazione messinese, forse a ciò stimolata dall’Apostolo Paolo il quale sarebbe transitato per l’ area peloritana nel corso delle peregrinazioni evangelizzatrici di cui rimane memoria negli Atti, si sarebbe recata a Gerusalemme per rendere omaggio alla Madre di Dio, porre sotto la sua celeste protezione Messina e testimoniarLe al contempo il fervore religioso della città.
La Vergine, secondo la pia tradizione, avrebbe accondisceso a ricoprire il ruolo di protettrice di Messina e per sancire tale nuovo legame con la città avrebbe inviato ai messinesi la famosa epistola beneaugurante, chirografata su una pergamena arrotolata ed avvolta con alcuni fili dei propri capelli.
Tale evento etiologico, conosciuto come tradizione della Sacra Lettera ed elaborato letterariamente a partire dal XV secolo attingendo ad un nucleo devozionale risalente agli inizi dell’ era cristiana (Chronicon di Flavio Lucio Destro, del 440 ma riferentesi all’anno 86), ha finito col configurarsi come atto archetipico di rifondazione spirituale della Città, improntando con la pregnanza dei temi che lo compongono gran parte delle vicende sociali e religiose di Messina, con una persistente influenza sulle tradizioni popolari cittadine e sui comportamenti devozionali della comunità messinese, dapprima (secc. XV-XIX) in una dimensione realmente interclassista, da ultimo (sec. XX) con tratti sempre più di pertinenza pressoché esclusiva dei ceti popolari urbani e suburbani.
La festa si estrinseca nella processione del Sacro Capello, ossia nella sfilata di una varetta fatta costruire nella prima metà del XVII secolo su committenza dell’Accademia della Stella, ordine militare del tempo; su tale fercolo trovano spazio una statua in argento della Madonna realizzata agli inizi del nostro secolo su modello dello scultore Gangeri, e soprattutto una pigna-reliquiario in cristallo di rocca contenente i capelli della Madonna che come già detto sigillavano l’ epistola dell’anno 42.
Il clima è gioioso, tipico delle ritualità primaverili, e non è improbabile che la festa abbia finito col riplasmare, alla stregua di altre celebrazioni mariane, cerimoniali e rituali festivi relativi a culti della Magna Mater attestati in tutta l’area mediterranea e medio-orientale.
Secondo i cronisti cinque-secenteschi la protezione celeste da parte della Vergine Maria si concretizzò per la comunità messinese nella disponibilità, verificatasi in concomitanza con svariati momenti di crisi della Città quali guerre morbi e carestie, di grandi quantità di derrate alimentari che giungevano misteriosamente a Messina trasportate su navi quivi approdate miracolosamente a seguito di tempeste “anomale” e provenienti da luoghi lontani. In realtà tali navi erano golette e velieri depredati dalla popolazione messinese, cui la necessità stimolava periodicamente l’esercizio di veri e propri atti di pirateria. Tale cruda verità storica nulla toglie ovviamente al valore antropologico della credenza, che presenta, sia pure in contesto assolutamente diverso, singolari analogie con i Cargo Cults melanesiani.

 

 

Le sacre reliquie della Vergine tornano a sfilare per le vie della città qualche settimana dopo, allorquando, in occasione del Corpus Domini, viene condotto in processione il cosiddetto Vascelluzzo, modello di galea in argento risalente al XVI secolo fatto realizzare ex voto per i numerosi interventi salvifici a beneficio della città stretta nella morsa della carestia. Anche qui, come in altri analoghi contesti celebrativi, la presenza di elementi vegetali (le spighe di grano che addobbano il vascelluzzo) testimonia di un sincretismo che, sia pure come pallida eco, rinvia alla riplasmazione di antichissimi culti locali come quello di Cerere.
A partire dal XVI secolo, ma forse anche in precedenza, il ciclo festivo ferragostano a Messina è stato contrassegnato dalla messa in opera e dalla fruizione rituale di un certo numero di apparati mobili, condotti in processione o fatti sfilare in giorni determinati con grande concorso di popolo e secondo percorsi stabiliti. Il grande apprezzamento da sempre manifestato in ambito subalterno nei confronti di tali machine festive, ed al contempo le notizie storiche disponibili sulla loro origine, sulla scorta di fonti d’archivio in verità alquanto scarse, ma dalle quali trapela con forte attendibilità la matrice colta della loro ideazione, rendono tali manufatti elementi significativi di una densa zona di confine in cui è dato cogliere in tutta la sua complessità l’articolazione delle dinamiche storicamente determinatesi tra forme di spettacolo colto e forme di spettacolo popolare in questa città.

La Vara di Messina è una enorme machina di forma piramidale che illustra plasticamente il momento dell’assunzione in cielo della Vergine Maria.
Nella prima delle piattaforme che compongono la sua struttura, collocate su di un ciclopico ceppo munito di slitte, trovano infatti posto le raffigurazioni della Vergine morta circondata dagli Apostoli, secondo l’iconografia di origine Bizantina della dormitio virginis, mutuata dalle svariate redazioni apocrife del transitus Mariae, e salendo verso l’alto una rappresentazione dei sette cieli che l’Alma Maria doveva attraversare per giungere all’Empireo; questi cieli sono tutti sintetizzati dalla cortina delle nuvole che, dipartendosi dalla base della machina a mo' di baldacchino della “Bara”, si innalzano circondate dal sole e dalla luna, concepiti come nel sistema tolemaico; ancor più su, in una terza piattaforma, troviamo un globo celeste con stelle dorate, raffiguranti forse le stelle fisse, ed infine alla sommità, dopo l’ennesima cortina di nubi costellata come le altre da schiere di angeli, l’effigie di Gesù Cristo che tiene sulla mano destra l’Alma Mater, l’anima della Vergine assunta in cielo.

All’interno della Vara, la struttura metallica campaniforme che ne costituisce l’ossatura ospita una serie di ingranaggi i quali, azionati manualmente da persone a ciò addette, determinano il movimento rotatorio, in orizzontale ed in verticale, di tutte le figure ed i personaggi, un tempo viventi ora statue, che affollano questa grande piramide rituale.
Le origini della Vara, secondo le fonti più accreditate, risalgono al XVI secolo o addirittura, secondo l’erudito messinese Puzzolo Sigillo, al Quattrocento, e tuttavia le questioni relative alla paternità della ideazione della grande machina ed alla sua datazione sono ancora oggi nodi critici irrisolti.
La prima cronaca messinese che parla di una machina trionfale assimilabile alla Vara è quella di Colagiacomo d’Alibrandi il quale, nel descrivere i festeggiamenti e l’accoglienza tributati dal Senato e dal popolo messinesi all’Imperatore Carlo V, transitato nel 1535 per Messina dopo la vittoriosa spedizione contro Tunisi, si sofferma sul carro trionfale allestito in onore dell’Imperatore, nel quale carro la distribuzione dei personaggi e dei simboli cosmici è sostanzialmente analoga a quella della Vara.
Quest’ultima dunque potrebbe essere stata preesistente al carro trionfale di Carlo V ed essere stata riadattata per l’occasione: l’Imperatore giunse infatti a Messina nel mese di ottobre.
Viceversa qualche studioso ha avanzato l’ipotesi che la Vara derivi dal carro trionfale del 1535, per successiva trasformazione.
Al di là di tali problemi, che interessano soprattutto gli storici, è importante mettere in luce, della Vara, la grande carica emozionale che il suo trascinamento determina nella enorme massa di fedeli che ogni anno, nel giorno di Ferragosto, si raccolgono intorno a questo simulacro di dimensioni eccessive, barocche, che porta in giro per la città, svettante verso il cielo, la sequela di un mistero cosmico colto nelle sue molteplici ierofanie.
La Vara avanza mostrandosi. La sua peculiare caratteristica è quella di essere un asse del mondo in movimento che consente, a chi al suo seguito compie il percorso processionale, di muoversi guadagnando nuovi spazi, e purtuttavia rimanendo al centro del proprio universo. Tale esigenza di domesticazione rituale del territorio, propria di tutte le società tradizionali, ha determinato, in aree rientranti nell’orbita culturale di Messina, l’elaborazione di analoghe macchine trionfali che sono state certamente modellate sull’archetipo messinese, come ad esempio la Vara di Randazzo e la cosiddetta Varia di Palmi.
Esempio, sia pur sofisticato, di macchina processionale, in ciò simile alle innumerevoli vare e varette utilizzate in tutte le feste meridionali per trasportare e mostrare il simulacro della divinità, la Vara ha sempre colpito la fantasia di quanti, viaggiatori italiani o stranieri, si siano nel corso degli ultimi tre secoli volti a fissare lo sguardo sulla città di Messina e le sue tradizioni.
Dopo aver attraversato sostanzialmente indenne le varie vicende sismiche e belliche che hanno irrimediabilmente cancellato alcune testimonianze della storia della città, la festa della Vara si accinge oggi a varcare le soglie del Duemila mantenendo intatta la capacità di coagulare intorno a sé le aspettative, la devozione, la fede ed anche i sogni di tutta una comunità.

 

 

Sulle origini dei due giganti Mata e Grifone sono state avanzate numerose ipotesi, alcune suggestive ma destinate a rimanere tali in assenza di puntuali riscontri storici e d’archivio. Secondo l’erudito La Corte Cailler “pel buon popolo messinese sono, da secoli, i fondatori della città ed anche i geni tutelari della stessa, come scrisse il Pitrè... Ed effettivamente nacquero in assai lontana età i due colossi, poiché durante i rifacimenti di oggi (scriveva La Corte nel 1926) sul petto del Gigante si sono notati tre medaglioni, che prima nessuno aveva osservato, uno dei quali risale certamente al XIII secolo mentre gli altri due sono dei secoli susseguenti.
La Gigantessa venne rifatta completamente dopo il terremoto del 1783 (dallo scultore Santi Siracusa, n.d.c. ), essendo andata distrutta l’antica, ma la statua di Grifone è certamente della seconda metà del secolo XVI, quando la costruì Martino Montanini, fiorentino (1560), con la testa e le braccia mobili, che nel 1581 vennero fissate, e forse rifatte, sul disegno precedente, da Andrea Calamecca da Carrara”. I Giganti, che come la Vara sono stati alcuni anni fa restaurati a cura dell’Amministrazione Regionale dei Beni Culturali, hanno avuto anch’essi una storia movimentata. Sappiamo con certezza, ad esempio, che solo nel 1723 essi presero l’attuale posizione equestre, mentre in passato non avevano forma stabile ma venivano di volta in volta montati e vestiti per l’occasione e, dopo il trasporto, smontati e spogliati, ridotti alle parti essenziali, cioè i personaggi lignei di Mata e Grifone e le teste dei cavalli. Tale tipologia originaria li rende maggiormente accostabili ad altri consimili giganti concepiti in aree influenzate dall’orbita culturale messinese, che probabilmente sono stati modellati sui Giganti di Messina, ad esempio i Giganti di Mistretta nonché quelli di Palmi e quelli di Seminara in Calabria. L’ideologia complessiva di questi gruppi statuari può essere ricondotta da un lato ad esigenze di patriottismo municipalistico, molto sentite nel ’500 quando le città facevano a gara per dimostrare la propria antichità attraverso l’esibizione di ciclopici resti ossei, rinvenuti durante scavi ed attribuiti ad ipotetici giganti, primi abitatori del sito; d’altro canto le modalità di messa in opera e le dinamiche di fruizione, squisitamente popolari, dei due Colossi, mostrano a nostro parere che anche questa particolarissima machinafestiva ha subìto nel corso dei secoli una serie di plasmazioni che ne hanno in parte modificato il senso. Ciò che di fatto rimane della tradizione dei due giganti è il loro uso processionale che ne lascia trapelare, qualunque ne sia stata l’origine, la successiva plasmazione popolare determinatasi probabilmente a partire dalla fine del XVIII o dagli inizi del XIX secolo.
Non si può parlare dei giganti messinesi senza richiamare alla memoria l’ultima machina festiva di questa rassegna, ossia il Cammello, che delle due statue equestri costituiva una sorta di appendice. Era, questo, costituito “da una leggera ossatura di legno sulla quale si adattava una pelle completa di dromedario. Sotto l’ossatura erano i due facchini, le gambe dei quali - visibili - erano ricoperti dalla pelle predetta. Tra i due portatori era legato un sacco dove si riponeva il ricavato della visita ai rioni della città. Attorno al Cammello erano un suonatore di cornamusa ed altri fanciulli mascherati, come ce li presentano antiche stampe. Costoro andavano, dice il Buonfiglio, in maschera giuocando e bagordando, ed il giuoco ed il bagordo - chiarisce Giuseppe Pitrè - era una successione di movimenti, di smorfie, di dinoccolamenti, di corse, di salti che il Cammello - o meglio gli uomini camuffati da cammello - andava facendo per le piazze e per le strade” (G. La Corte Cailler. Sulle origini di questa usanza sono state avanzate alcune ipotesi. Il Buonfiglio, cronista secentesco, sostiene che si tratti di una popolare celebrazione “della vittoria ottenuta dal Conte Ruggero, il quale fugati i Mori, entrò trionfalmente a Messina con i suoi soldati bagordando, e coi cammelli barbareschi carichi di spoglie”.

 

 

“Scena abissina”, la chiama Pitrè, e con il consueto acume la mette in relazione con l’analoga pantomima del Serpente di Butera, ‘u sirpintazzu che sfila per le strade del paese durante la festa di S. Rocco. Altro cammello rituale noi lo troviamo tutt’oggi nella festa di S. Onofrio, a Casalvecchio Siculo come pure nel comprensorio calabrese, segnatamente a S. Costantino di Briatico. Il ruolo di tali particolari figurazioni, al di là della funzione spettacolare e vagamente totemica di cui esse sono investite, rinvia ad una gestione squisitamente popolare della festa, attraverso la messa in opera di rituali mediante i quali è possibile lecitamente procedere ad un esproprio di beni. La strana effigie del cammello insomma si configura, nelle sue modalità fruitive tradizionali, come machina esemplare atta a porre in essere rituali di disordine controllato, aventi come punto di forza la temporanea ridistribuzione dei ruoli e dei beni che, semel in anno, possono essere assegnati in modo differente che nella realtà ordinaria.
Spacciati a lungo per oggetti pittoreschi, buoni come merce folkloristica da fare consumare ad un pubblico di turisti annoiati o distratti, la Vara, i Giganti ed il Cammello si rivelano all’antropologo interessato alla ricostruzione di alcuni tratti culturali della città di Messina, come manufatti pregnanti attraverso i quali è possibile misurare in tutto il loro spessore alcune fondamentali strategie di cui la comunità messinese ha fatto uso nel corso della sua secolare storia per conferire senso al proprio universo.
Una rivisitazione delle vicende che hanno segnato l’esistenza di questi importanti emblemi cittadini può costituire una preziosa occasione di esercizio della memoria storica, riscattando le machine festive messinesi dalla patente di lievità e di insignificanza ingiustamente loro attribuita dai cultori della histoire événementielle, se è vero, come sosteneva Ernesto de Martino, che “non tutte le cose che abbiamo reso lievi meritavano di diventarlo, ed in ogni caso il lieve ed il grave non appartengono alle cose in sé, ma sono sempre di nuovo ridistribuibili nella trama della realtà in funzione di certi problemi presenti che stimolano a scegliere il passato importante”.

 

 

3) Il terzo indicatore pregnante della storia messinese e delle tradizioni che essa ha prodotto è il terremoto, colto nella duplice valenza di fenomeno sismico e di apocalisse culturale, ossia di evento che sconvolge repentinamente i parametri sociali consolidati e sollecita la comunità tutta ad una faticosa rifondazione dei propri orizzonti urbanistici ed esistenziali. E’ avvenuto così che a Messina le dinamiche mutamento-persistenza siano state, da sempre, compresse ed accelerate. Se ciò ha rappresentato per un verso una continua occasione di trauma culturale per la città, ha d’altra parte consentito una più rapida e quasi sincrona aderenza delle sovrastrutture alle strutture, nel senso che le ideologie non si sono mai potute consolidare ed attardare più di tanto, travolte dall’improvviso mutamento dell’assetto comunitario.
Limitando l’analisi, a titolo esemplificativo, al rovinoso sisma che rase al suolo la città quasi novant’anni or sono, è indubbio che le tradizioni popolari siano state il corpus di saperi, di valori, di modelli culturali che più di ogni altro ebbero a subire una sorta di mutazione a seguito dell’evento.
Morì infatti, o emigrò la più gran parte dei naturali portatori di tale cultura, e non ebbe luogo un ricambio che garantisse una “continuità nel mutamento”, come invece avvenne per forme e tratti culturali espressi dalle fasce medie e alte della borghesia.
Apparentemente il terremoto livellò, nel senso che i ceti privilegiati avevano più da perdere, e di fatto persero di più, rispetto ai ceti subalterni. Ma per entro tale processo di livellamento, continuarono ovviamente a persistere dinamiche di classe; chi aveva detenuto o deteneva il potere sia pure nella estrema eccezionalità e precarietà del momento, aveva in pari tempo tutti gli strumenti per rifondare il proprio mondo.
Come si ricostruisce una cultura? Senza dubbio attraverso una rifondazione delle sue coordinate, che consistono certo nel mondo materiale e nel complessivo sistema degli oggetti che di quella cultura costituiscono il corpo e l’orizzonte visibile, ma consistono soprattutto nel sistema dei segni, nei parametri di riferimento e nella weltanschauung che quella cultura esprime.
Il folklore, la somma di concezioni del mondo pertinenti i ceti popolari che si cercò di far rinascere, furono di fatto quelle edulcorate, funzionali ad un certo assetto sociale, obbedienti al mantenimento dello status quo ed in ogni caso mai apertamente contestative degli assetti egemoni.
Una analisi della cultura popolare successiva al terremoto sotto il profilo degli eventi cerimoniali e rituali mostra così come le feste popolari siano state progressivamente private di qualsiasi connotazione di classe (la festa come dispositivo di reintegrazione culturale basato sulla condivisione di una forte esperienza comunitaria tra eguali) e sempre più ricondotte a ben controllate strategie compensative di momenti critici dell’esistenza, quando non ad oculati tentativi di incanalare e disciplinare per entro un alveo non eccentrico malesseri e tensioni sociali, trasformandoli di fatto da elementi di rischio per l’ordine costituito in inconsapevoli ma non meno efficaci occasioni di dominio. Nel 1926, ripristinate per la prima volta dopo il terremoto le antiche feste di mezz’agosto, tornarono a vedere la luce le gloriose e secolari machine festive messinesi, la Vara ed i Giganti. Il grande apparato mobile dell’Assunta e le due ciclopiche statue equestri, al pari di altri manufatti espressione della cultura popolare cittadina ottocentesca, avevano subìto a seguito del sisma danni assai gravi che ne avevano compromesso la funzionalità per quasi un ventennio.
Il ripristino del 1926 e la riproposizione alla Comunità messinese di un evento cerimoniale e rituale fortemente connotato in senso emozionale, la processione della Vara dell’Assunta, appaiono però, piuttosto che il faticoso punto di arrivo di una città che attende alla costruzione di una nuova identità, gli esiti di una lucida strategia volta ad utilizzare la cifra festiva come instrumentum regni, valevole soprattutto a compattare intorno a pregnanti emblemi cittadini la variegata collettività messinese. E’ infatti fuor di dubbio che la cultura di quegli anni ritenesse ben pochi dei tratti preesistenti al terremoto, essendo la Messina della ricostruzione formata da poche migliaia di messinesi e da una nuova popolazione composta da maestranze, da operai edili, da militari, da funzionari dello Stato venuti a gestire e pilotare i modi ed i tempi della rinascita.
Le feste del ventennio oscillarono pertanto tra la riproposizione alquanto stanca delle trascorse ritualità (processioni, cavalcate storiche, fuochi pirotecnici, regate a mare) ed una dapprima timida poi entusiastica apertura alle nuove forme di spettacolo di massa (concerti musicali, gare sportive, sfilate di automobili).
Di fatto, la cultura che le esprimeva era assai distante da quella che aveva connotato la società messinese pre-terremoto. La mutazione demografica cui si è già accennato aveva determinato un mescolamento di microculture locali, ciascuna portatrice di ben determinati modelli, norme, valori a volte estremamente diversificati all’interno dei diversi gruppi che contribuirono a ripopolare Messina. Tale mescolamento, che nel tempo avrebbe avuto effetti benefici sotto il profilo dell’integrazione e della sprovincializzazione della città peloritana, aveva nell’immediato presente un esito dilacerante sulla residua comunità messinese ottocentesca, risultandone oltremodo potenziate le dinamiche acculturative (ed i relativi modelli culturali importati a seguito di tali dinamiche) e viceversa mortificato l’ancoraggio della città alle proprie radici.
Tutto ciò a causa di uno sconvolgimento tettonico e con effetti, come è possibile ancora oggi vedere, talmente devastanti che nella storia moderna della città l’unico evento che si possa in qualche modo ad esso assimilare è forse la durissima repressione seguita alla rivolta antispagnola del 1674-78.

 


4) Ultimo, ma non ultimo, degli snodi pregnanti utili a delineare le caratteristiche della cultura tradizionale messinese riteniamo essere l’universo culturale che ha preceduto l’attuale società dei consumi e del profitto, in questa città configurabile non tanto come pre-industriale quanto come pre-terziario.
Fino alla prima metà del nostro secolo è esistita a Messina una serie impressionante di mestieri, di attività artigianali cui era demandato il compito di assicurare alle comunità locali tutti quei prodotti e quei servizi che erano utili al funzionamento di una società non opulenta, cui la scarsità delle risorse disponibili e la relativa semplicità dei mezzi di circolazione e distribuzione dei beni stimolavano inventiva e fabrilità, conoscenza delle materie e pratica di esse, progettualità non avulsa dal sapere della mano, quelle attitudini insomma che un pensatore ottocentesco ormai fuori moda definiva “l’ attività conforme allo scopo”.
Vanno qui ricordati alcuni di questi mestieri, nella speranza che la semplice enumerazione di essi possa risvegliare una curiosità o un desiderio di conoscenza storica: aromatario, argentiere, bottaio, calzolaio, cartaro, carrettiere, carbonaio, ceramista, cordaro, conciacapelli, fabbro, falegname, fullone (gualchieraio), maniscalco, marmoraro, scalpellino, salinaro, stagnino, stazzonaro, tintore, vignaiolo, vasaio o anche, secondo quanto soccorre la memoria, ’u siminzaru, ’u cocciularu, ’u ficurinniaru, ’u conzalemmi, ’u lampiunaru, ’u castagnaru, l’ammola cuteddi o arrotinu, ’u nivarolu, ’u gilataru, ’u scuparu, e via sognando...
E’ evidente che a tale variegato e stratificato universo della fabrilità corrispondesse un altrettanto ricco e pregnante universo mentale, fatto di simboli, di linguaggi, di miti, di riti e di sogni. Questo patrimonio oggettuale, linguistico e segnico rappresenta una delle poche reali risorse antropologiche che il nostro Paese, e la Sicilia in particolare, ha oggi il compito, e quasi il dovere storico di conservare per «quelli che verranno». Ove la nostra attuale cultura dovesse venire meno anche a questo elementare esercizio della memoria storica, che deve peraltro accompagnarsi alla volontà di esperire concrete strategie finalizzate al recupero di alcune competenze artigianali, dovremmo rassegnarci a vivere in un mondo omologato, anzi omogeneizzato, privo come tale delle diversità che fanno ricca l’esistenza e definitivamente consegnato alla monotonia.
Se il progresso è, come almeno oggi viene percepito, un continuo, apparente ascendere de claritate in claritatem recidendo i ponti con il proprio passato, ad esso non riusciamo a sottendere altro che una logica dell’oblio, un cieco andare avanti senza mai volgersi a considerare il cammino fatto; a tale atteggiamento da bestiame bovino dobbiamo contrapporre una volontà consapevole di memoria. Quest’ultima è infatti, come ci ha insegnato il più maturo pensiero occidentale da Agostino ad Hegel, un togliere e conservare; senza questa attitudine elementarmente umana il futuro che ci accingiamo a vivere potrebbe essere ancora più oscuro di quanto il nostro oscuro presente lasci presagire.
Quelli che possono essere definiti i tratti della cultura tradizionale messinese in grado di esprimere valenze antropologicamente apprezzabili sono pertanto oggi da valutare alla stregua di relitti folklorici e di cascami di un passato ormai di fatto privo di connessioni con la città e con la gente che la abita.
Così, se nella Guida di Messina “prima e dopo il disastro” stampata nel 1914 un intero capitolo, organico nella sua composizione interna, era dedicato alla demografia della città, oggi non sarebbe più possibile riscrivere un contributo analogo. Il presente saggio stenta dunque a trovare unitarietà metodologica per la quasi totale opacità dell’oggetto della propria indagine. La mutazione antropologica che ha avuto luogo nel nostro paese nel corso degli ultimi quarant’anni ha colto Messina già gravemente indebolita nella sua memoria storica e quindi pressoché incapace di sviluppare al proprio interno, nei confronti di un divenire tanto più frenetico quanto più anodino, i benefici anticorpi che preservano dal contrarre la malattia propria di quelle che Lévi-Strauss definiva le società calde, sempre tese a consumare velocemente il proprio presente e di fatto irrispettose delle proprie strutture profonde ed impartecipi del proprio telos culturale.
Se questa è la situazione, ed onestà intellettuale vieta di pensare altrimenti, alla città che si consegna al terzo millennio non rimane che sperare - e puntare - in una rifondazione ecologica del proprio territorio ed etica della propria comunità, senza le quali rimangono praticabili solo i retorici ancoraggi ad un passato del quale non si ha più bisogno o le sterili fughe in avanti in cui l’ascesa de claritate in claritatem si rivela mero esercizio virtuale.

 

 

Sergio Todesco
(Adattato graficamente da colapisci.it)

 

 

   

 

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