Il
Mediterraneo non è che questo,
un appello alla riconciliazione
José Saràmago, portoghese,
premio Nobel per la letteratura, annovera fra le sue opere il romanzo, "La
zattera di pietra" che partiva da un metaforico evento geologico: la
penisola iberica si staccava dai Pirenei, dall’Europa, ed andava alla deriva
verso l’America Latina.
Tutto questo avveniva, prima che il termine globalizzazione divenisse di uso
comune: l’Unione Europea aleggiava come uno spettro inevitabile che avrebbe, di
lì a poco unito e sovrastato, popoli e mercati. Si andava formando la fortezza
Europa, nessun paese poteva sperare di andare alla deriva, mantenere legami o
crearne di nuovi.
Inevitabile allora procedere in due direzioni: rendere più stabili e materiali i
confini interni e contemporaneamente alzare gli steccati verso popoli e culture.
Uomini e donne per cui il bacino del Mediterraneo è da sempre un’immensa piazza
da attraversare nei due sensi, senza barriere o confini prestabiliti.
Parlarne oggi a Messina e avere come interlocutori René, combattiva donna
palestinese, Jilmaz, kurdo di Turchia, Hassan, forse tunisino, forse marocchino,
non sta a noi saperlo, significa avere due alternative visibili e concrete.
L’una esclude l’altra.
Terra di conquista La prima,
quella che appare vincente, immagina una Sicilia terra di conquista, avamposto
estremo della frontiera europea. Poco importa se mancano le infrastrutture e
l’acqua scarseggia o è mal distribuita, poco importa se diviene terra di
nessuno, se le promesse di sviluppo si tramutano rapidamente in affarismo
spietato in cui i confini fra legalità e illegalità non esistono, di quartieri
interi rasi al suolo, di strade senza sbocchi, del cemento che cola sulle piante
di fico d’india soffocando sapori, fauna, cultura.
E poco importa se il ponte che collegherà Scilla a Cariddi sarà malfermo e
battuto dai venti per tre mesi l’anno, soggetto ai sommovimenti sotterranei di
una terra fragile e inquieta. Quel ponte, se si dovesse realizzare, con la sua
unica immensa campata, sarà l’ennesima fallimentare sfida inutile, l’opera
mastodontica che con la sua ombra cupa darà volto alla miopia culturale e
politica di chi ne sarà l’artefice. Fra Villa San Giovanni e Capo Faro, fra
Scilla e Cariddi, si sono dati appuntamento anche quest'estate coloro che in
questa ipotesi non credono.
Una settimana di incontri, dibattiti, mobilitazioni e spettacoli, minoranze
visibili di una società civile scettica ma vigile, che sente emergere la puzza
d’imbroglio dalle carte che illustrano il progetto del ponte più lungo del
mondo.
Un canto di protesta
Fortunato Sindoni è un anziano cantastorie, di quelli che non finiranno
mai in prima serata televisiva. Fra cartelloni che sembrano giungere da epoche
remote, la chitarra a tracolla e pochi accordi, la sua voce è insieme rabbia,
sberleffo e sfida. Semplici metafore, allusioni solo apparentemente grossolane,
un linguaggio che non teme la rudezza e una cantata che svela le menzogne
governative più di qualsiasi analisi da politologo.
Forse perché è giocata nell’eterno dialogo fra il potente e il povero, il ricco
che vede nel ponte l’ennesima occasione per fare affari d’oro e il pescatore che
con domande puntuali, ne denuncia gli scopi reconditi e reali. Il pubblico
comprende, applaude, si emoziona, prende parte. Bertoldt Brecht ne sarebbe stato
entusiasta.
A due passi dallo spiazzo in
cui si esibiva Sindoni e in cui erano piantate le tende del movimento contro il
ponte, un enorme inutile pilone bianco e rosso. Guardando verso Scilla se ne
scorge uno analogo: non servono più a nulla, la corrente elettrica passa da anni
in cavi sottomarini e fra i due piloni non c'è più alcun legame. Ma tenerli in
piedi costa meno che abbatterli, resteranno lì forse in eterno, monumenti di
archeologia industriale a deturpare una zona protetta e preservata per il valore
ambientale dalla Comunità Europea.
Sempre che Colapesce non si addormenti. Il mito dice che quando uno dei tre
pilastri su cui poggia la Sicilia iniziò a traballare, il pescatore Colapesce
sacrificò la propria vita e si immerse per l’eternità a puntellare il pilastro e
salvando l’isola. Ma Colapesce ogni 100 anni pare addormentarsi e la Sicilia
trema fino a quando non si risveglia. Un fenomeno che la nostra algida
terminologia scientifica porta a definire l’area ad alto rischio sismico.
L’ultimo colpo di sonno fu
fatale per Messina che nel 1908 fu rasa al suolo dal terremoto. La città odierna
poggia su macerie, su quelle macerie dovrebbe sorgere il ponte. Macerie su
macerie.
Un altro secolo sta per passare, altra ragione per cui a Messina come a Villa
San Giovanni, parlare del ponte provoca irritazione, fastidio. Le promesse
dell’imbonitore di Palazzo Chigi cozzano contro l’acqua che continuerà a mancare
dai rubinetti, il lavoro che non c’è e non ci sarà, il caos di una piccola città
che vorrebbe una qualità della vita diversa.
Anche i commercianti, cui
erano state instillate speranze di lauti guadagni, stanno facendo i conti con la
realtà: Messina vedrà il ponte sulla propria testa, chi giungerà in Sicilia si
ritroverà direttamente sull’autostrada per Catania o per Palermo - peraltro mai
completata - diventerà uno dei tanti non - luoghi, non godrà neanche dello
status di "autogrill", i viaggiatori la vedranno e la ignoreranno come si fa con
un paesaggio fastidioso.
Poi, superato l’imbuto, l’Isola resterà quella che è sempre stata.
Quella dei quartieri di Palermo dove d’estate farsi la doccia diventa un sogno,
quella di paesi e città distanti fra loro poche decine di chilometri ma
totalmente scollegate. Quella dei tanti paesini di un interno arso dove il tempo
si è fermato più nel male che nel bene.
Quella di Trapani o Mazara del Vallo in cui il confine fra la Tunisia e l’Italia
è labile e incerto malgrado gli isterismi delle camice verdi.
Quella delle isole minori, paradisi estivi per i turisti, ma in cui d’inverno è
difficile anche partorire e i cui legami con l’isola madre dipendono spesso
dalla clemenza del mare.
L’utopia e la realtà Inevitabile
scivolare verso la seconda alternativa, quella di Renè, Jilmaz, Hassan, quella
di Saramago. Una utopia che porta ad immaginare infiniti ponti, linee
tratteggiate da uomini e donne che tornano a navigare senza il timore che il
proprio sogno si infranga su uno scoglio, una motovedetta, una galera. E allora
Tunisi, Algeri, Rabat, Gerusalemme, Beirut, tornano ad essere snodi di una rete.
Così come lo sono state per secoli e secoli: Siracusa, Napoli, Genova,
Marsiglia, Barcellona. Traiettorie che i tanti e le tante Renè, Jilmaz, Hassan
potrebbero scegliere se seguire o meno.
Accadrebbe allora che la Sicilia, ma non solo la Sicilia, potrebbero
rappresentare i piloni solidi su cui le infinite linee si intersecano. Città e
paesi che invece che non-luoghi, sarebbero oasi durante la strada, centri di
sosta e di reale accoglienza. Si potrebbe scegliere se e dove fermarsi, se e
quando continuare a camminare, andare avanti, tornare indietro.
E, sempre nell’utopia, viene da immaginare altrettante infinite reti a collegare
fra loro le oasi di cui è piena la Sicilia: ferrovie degne di questo nome,
traghetti che vanno e vengono dai tanti piccoli porti, senza doganieri o
militari a scrutare l’orizzonte.
Potrebbe accadere se il
Mediterraneo divenisse un mare di pace e di diritti. Se la rabbia con cui Renè,
il capo avvolto nella kefiah, 15 anni ormai trascorsi a Messina, gli occhi scuri
del figlio tali e quali a quelli dei suoi compagni di scuola, potesse trovare
finalmente una soluzione. Per lei, per quelle come lei: Nablus, Ramallah, Gaza
non potranno mai essere soltanto nomi ripetuti stancamente in un telegiornale.
Saranno ferite impresse nella pelle che solo una pace reale e giusta potrà un
giorno rimarginare. E che dire di Jilmaz? Per lui Dyarbakir e Bingol significano
casa e famiglia. E fra casa, famiglia e questo piccolo lembo di terra italiana
ci sono soldati, armi, case distrutte e poi un lungo viaggio che potrebbe essere
senza ritorno.
Mille spiegazioni razionali
che attengono alla geopolitica, a volontà di potenza, ad un quadro in cui
violenza militare e di strapotere economico che non hanno soluzione di
continuità. Ma cosa significano poi parole, analisi e concetti di fronte alla
lontananza e al dolore, alla nostalgia di sapori ed odori? Un perché destinato a
restare senza risposta.
Per Hassan la risposta è più immediata: è cresciuto sin da bambino con le
immagini che lo schermo televisivo gli sparava addosso. L’italiano lo ha
imparato da quello schermo, dai colori psichedelici da paese dei balocchi dove
denaro, lavoro, ragazze sembravano lì a portata di mano. Dove arricchirsi non
era un problema, certo bisognava rischiare. Rimediare i soldi necessari al
viaggio, un indirizzo, un numero di telefono, se possibile un passaporto falso
che costa meno delle mance necessarie ad ottenere un visto regolare.
E poi c’è quel tratto di mare maledetto: poche miglia e diventa di un blu notte
che sembra pronto a risucchiarti.
D’estate a volte soffia solo una brezza leggera che fa sentire la meta più
vicina. Ma basta un nulla: una nuvola scura che squarcia il cielo, la brezza si
trasforma in una folata, il mare si increspa, si alzano onde mentre lo scafo che
sembra sempre più fragile comincia ad oscillare. E poi colpi sempre più forti
alle fiancate, mentre la prua tenta di tenere la rotta e il rumore del motore
diviene intermittente, colpi di tosse in attesa che riprenda il respiro.
A volte va bene, arriva in lontananza un peschereccio a gettare la cima e poi
una coperta anche se il freddo non esce più dalle ossa.
A volte va meno bene, ci si ritrova aggrappati su uno scoglio acuminato mentre
il mare ti chiama ed è solo la forza della disperazione a impedire di lasciarsi
andare.
A volte va male. Chi ha
provato a dissuadere Hassan racconta dei tanti scomparsi in quel braccio di mare
che separa l’Africa dal mondo ricco, uomini e donne di cui si sono perdute le
tracce o, al massimo, che ora giacciono in fosse comuni dove anche del loro nome
non si ha più notizia.
Ma Hassan ci ha provato lo stesso: lo hanno preso, chiuso in una gabbia
apparentemente incompatibile col mondo dorato che si era immaginato alla
partenza.
Da quella gabbia in cui è rinchiuso insieme a tanti suoi simili, Hassan prepara
la fuga e insieme sogna di vivere in un mondo da cui non sia più necessario
fuggire.