L’indomani ci svegliammo con il sorgere del giorno: i primi raggi del sole ci
mostrarono la regina dello Stretto, la seconda capitale della Sicilia: Messina, la Nobile.
La sua posizione meravigliosa, le sue sette porte, le sue cinque piazze, le sue
sei fontane, i suoi ventotto palazzi, le sue quattro biblioteche, i suoi due
teatri, il suo porto e il suo commercio che forniscono un impulso e movimento a
una popolazione composta di settantamila anime, la rendono, malgrado la peste
del 1742 e il terribile terremoto del 1783, una delle più fiorenti e graziose cittadine del mondo.
Tuttavia,
nel luogo in cui ci trovavamo, cioè a venticinque o trenta passi dalla riva, di fronte al villaggio Della Pace, potevamo
avere di quella vista soltanto un’idea vaga e imprecisa; ma, non appena avevamo levato l’ancora e guadagnato la parte mediana dello Stretto, Messina ci apparve
in tutta la sua regalità maestosa.
Poche posizioni sono simili a quella di Messina, una porta potente messa tra due mari,
attraverso la quale non si può passare dall’uno all’altro, se non assecondati
dal suo compiacente assenso regale. Addossata a pendii dirupati come per artifizio, ricoperti di fichi d’India, di
melograni e di oleandri, aveva di fronte la Calabria. Dietro la città si alzava
il sole che continuava ad elevarsi sull’orizzonte e tingeva il panorama,
rischiarandolo con i più variegati colori.
A destra di Messina si estende il
mar Ionio, alla sua sinistra il mare Tirreno.
Continuavamo sempre ad avanzare, con un movimento paragonabile a quello
impiegato a solcare un largo fiume; e a mano a mano che procedevamo, Messina
si offriva nei suoi più reconditi dettagli, aprendo davanti ai nostri occhi il suo lungomare magnifico, che s’incurva come una falce fin nel mezzo dello
Stretto, formando un porto quasi chiuso e protetto naturalmente.
Del resto, da un istante all'altro, tutte le asperità movimentate della costa ci apparivano più visibili: i villaggi si stagliavano bianchi e
nitidi sul fondo verdastro del terreno; cominciavamo a scorgere l'antica Scilla, quel mostro dal busto di donna e con la vita cinta da cani famelici, talmente
temuta dagli antichi marinai e che l'indovino Eleno aveva così tanto raccomandato a Enea di rifuggire. Per quanto ci concerneva, fummo meno prudenti
dell'eroe troiano; benché, come lui, appena scampati a una tempesta.
Il mare era ritornato completamente calmo, l'abbaiare del cani era cessato per lasciare
posto al rumore delle onde che s'infrangevano contro la riva.