Il mito in Sicilia
Meglio di
“Dinasty” e “Beautiful”, la mitologia altro non è che una saga familiare d’altri
tempi, con mariti che tradiscono le mogli, suocere che tramano contro le nuore,
bambini abbandonati dai propri genitori e fratellastri in cerca di rivalsa per
torti subiti. Tutto questo in un passato che non è di nessun tempo, ma che è di
tanti luoghi. A cominciare dalla Magna Grecia, terra che diede i natali nell’VIII
secolo a.C. al grande “soggettista” Omero (l’autore dell’Iliade e dell’Odissea),
nato – forse - nelle colonie ioniche della Turchia; e per finire all’impero
romano, sulle cui terre, a Sulmona (L’Aquila), venne alla luce nel 43 a.C.
Publio Ovidio Nasone, colui che scrisse Le Metamorfosi, canovaccio di questa
“Dallas” ante litteram. Storie che non hanno tempo, ma che hanno luoghi.
E luoghi in Sicilia, soprattutto, tra i quali ci muoveremo tra queste pagine e
quelle future. Luoghi scelti, come fa ogni autore che si rispetti, tra i più
belli conosciuti, tra i più fiabeschi, così straordinari che tutto può
succedervi.
Uno tra i luoghi più straordinari
che le civiltà più antiche hanno potuto conoscere è proprio la Sicilia, teatro
nel quale rappresentare l’umano e il divino, l’odio e l’amore, la felicità e la
tristezza, la vita e la morte. Un’isola in cui c’è tutto e il suo contrario,
ovvero l’universo mondo possibile e quello impossibile, eppure immaginabile.
Un luogo di tanta maraviglia certamente non può che avere origine prodigiosa.
Così un’antica leggenda racconta che tre ninfe, partite per il mondo per
raccogliere ogni possibile dono della terra, prima di far ritorno ai loro lidi
fecero sosta in un bellissimo angolo di mare. Ammaliate da tanta bellezza,
decisero che quello era il luogo in cui conservare il loro tesoro: librandosi su
quel mare incantato, disponendosi ai tre vertici di un triangolo, lasciarono
scivolare i prodigi raccolti “creando” Capo Pachino, Capo Lilibeo e Capo Peloro,
le tre punte della Triquetra, della Trinacria.
Sorge sul mare, la Trinacria, e attrae sulle sue terre anche gli uomini più
possenti, come Orione, figlio di Nettuno allevato dall’umano Irèo, un contadino
che abitava l’angolo nord-orientale dell’isola. Orione, dalle dimensioni
gigantesche ereditate dal vero padre, venne chiamato alla corte del re Zanclo
che, conoscendone la fama di bravissimo architetto cresciuto artisticamente alla
scuola di Atlante (il meglio, in quel periodo), aveva pensato di assumerlo “a
cottimo” per rifare il porto della città. Orione giunse nell’odierna Messina, vi
incontrò la dea Eos, l’Aurora, e si innamorò della donna e della città. Vi
costruì un tempio dedicato al padre divino (dove oggi si allarga piano Margi)
ma, dopo aver visto fallire la sua storia d’amore con Eos (non s’incontravano
mai: lei si alzava prestissimo, mentre lui dormiva, e quando lui era sveglio lei
non si sapeva dove fosse…), colleziona altre terribili relazioni sentimentali:
la moglie Side viene scaraventata nel Tartaro dalla Superbia; si innamora di
Merope ma il suocero lo acceca per impedirne le nozze! Cercando i suoi occhi,
però, incontra Artemide (per gli amici, Diana). I due si innamorano ma lei è
preda della Gelosia e lo uccide. Niente può il divino padre Giove, tranne che
onorare l’ultima volontà del gigante: unirlo alla città che ha amato, almeno una
volta l’anno. E così, ogni 22 dicembre, Orione è sul cielo di Messina.
Un altro gigante, Peloro, abitava da quelle parti. Almeno così dice Esiodo, che
sembra molto ben informato di quanto succedeva in quel di Messina nel II
millennio prima di Cristo. Racconta che proprio questo colosso, figlio di un
drago e nato a Tebe, sia stato il “prescelto” per combattere contro Tifeo, o
Tifone. Costui era un bruttissimo ceffo figlio di Madre Terra, detta anche Gea o
Gaia, e di Tartaro (l’inferno in carne ed ossa), concepito al solo scopo di
vendicare la sconfitta dei Giganti, frutti dell’unione di Urano con sua madre,
la stessa Gea: questi esseri enormi avevano avuto la folle idea di scalare
l’Olimpo (un vero scandalo), ma gli dei, aiutati da Ercole, li sconfissero.
Anche Tifone, però, fallisce la sua vendetta contro Giove e il dispotico
proprietario dell’Olimpo lo condanna incatenandolo sotto la Sicilia. Tifeo,
però, era quello che si dice un gran pezzo d’uomo, così è necessario
sorvegliarlo. Chi meglio del gigante che lo aveva sconfitto poteva assolvere
allo scopo? Immortali gli dei, eterne le condanne ed anche le pene. Sì, però per
Peloro è davvero una gran sfiga.
Peloro, per fortuna, non è solo a
sorvegliare per l’eternità quel brutto ceffo che sputa fuoco (ma questo capita
in quel di Catania, lo vedremo in altra puntata): gli da compagnia e un aiuto di
tanto in tanto il giovane Cola, Nicola per sua madre, di origini catanesi e
“emigrato” a Messina. Cola amava il mare e passava le sue giornate nuotando,
tanto che il suo corpo si adattò a quella passione: i suoi piedi diventarono
palmati. La sua fama giunse alle orecchie di un re straniero – la leggenda parla
di Federico II ma, essendo nel 1221, dovrebbe trattarsi di Ruggero II -, un re
curioso che gli affidò il compito di scoprire cosa ci fosse sotto il mare di
Sicilia. Cola, detto Colapesce, si immerse e gli raccontò dei monti, delle valli
e dei pesci che abitavano qual mondo. Il re, allora, gli chiese quanto fosse
profondo e il ragazzo gli confessò che, in quel di Punta Faro, il mare era
troppo profondo e lui aveva avuto paura a scendere fino al fondo. Il re gli
intimò di ritentare, Colapesce si tuffò. Quando riemerse, raccontò di un mostro
con la bocca tanto grande che avrebbe potuto inghiottire una nave intera, un
mostro che mangiava tutto quello che c’era e che poi vomitava l’acqua, un mostro
che l’aveva quasi ucciso e che aveva danneggiato la colonna di Peloro. “Sì, va
bene, ma quanto è profondo il mare a Capo Faro?” continuava a chiedere il re.
Cola, però, non ne voleva sapere di tuffarsi finché il re non gettò in mare la
corona del regno e gli ordinò di ripescarla. Colapesce confessò la sua paura di
non riemergere più, ma si fece dare delle lenticchie: “se scampo, tornerò su io;
ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che non torno più”, scrive
Italo Calvino nella sua trascrizione della leggenda. Il re e la corte rimasero
in attesa, ma tornarono su solo le lenticchie. Si dice che sia rimasto sotto
capo Peloro, in aiuto del gigante a sostegno della sua colonna danneggiata. Ma
che cosa era quel pesce gigantesco di cui tanta paura aveva Colapesce?
Un’altra leggenda narra di Cariddi, un mostro marino figlia di Gea e Nettuno che
risucchiava il mare con tutto il suo contenuto… (continua...)
Claudia Lohman
Sikania
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