Era
il 18 maggio del 1061, il "Gran Conte" Ruggero cera finalmente riuscito.
Aveva creato una salda testa di ponte a Torre Faro con i suoi 260 cavalieri ed aveva così
consentito agli altri 1500 soldati guidati da Roberto il Guiscardo di invadere Messina.
I Saraceni, signori dell'Isola, più numerosi e sostenuti dalla popolazione,
avevano già respinto in forza a febbraio un precedente tentativo di invasione del
"Gran Conte", eppure adesso erano li, alla merce dei Normanni padroni ormai
della città. Come era potuto succedere?
Le origini della catastrofe erano nelle divisioni e nelle rivalità di potere fra
gli emiri, che nel corso del precedente secolo, resisi sempre più autonomi nei confronti
del califfo, avevano dimenticato lantica unità e avevano cominciato a guerreggiarsi
fra di loro per acquistare sempre più terre e sempre più potere.
Emiro di Messina era
Ibn-al-Hawas, benvoluto dalla popolazione e nemico acerrimo dellemiro
Ibn-ath-Thumac, che, visto che da solo non sarebbe mai riuscito a vincere il braccio di
ferro, aveva raggiunto un intesa col "Gran Conte" Ruggero, aprendogli così la
strada per la riuscita dellimpresa.
E adesso era il disastro.
Ciafar, un giovane diciottenne figlio dell emiro di
Cordova, che aveva combattuto disperatamente tutta la mattina lungo la spiaggia che dal
Faro va a Ganzirri, correva disperato fra le genti in fuga, tentava di raggiungere la zona
di Camaro, dove era la residenza estiva dellemiro e dove era stato ospitato con la
sorella, la quindicenne Iras, che era lì sola e sarebbe divenuta preda della soldataglia
se non fosse riuscito a farla fuggire.
Correva come una lepre, il cavallo gli era morto in battaglia e
lui moltiplicava le sue forze per giungere alla villa prima degli invasori. Dovunque
cera una grande confusione. Soldati arabi in fuga, Normanni allinseguimento,
Normanni nelle case in cerca di prede da saccheggiare e di nemici da uccidere, la
popolazione che correva a nascondersi lontano dalle proprie case, portandosi dietro quel
che poteva delle sue cose, e le urla dei feriti si mescolavano alle grida degli inseguiti
e ai secchi ordini dei vincitori.
Ciafar, nellansia del momento non aveva perduto la
testa, aggregatosi in un primo momento ad un gruppo di soldati in fuga, aveva
successivamente tagliato da solo in obliquo la città, ponendosi addosso un grosso
mantello che nascondeva la spada che si portava appresso, riuscendo così in qualche modo
a passare inosservato.
Ecco,
era fatta, era giunto finalmente a casa.
Il saccheggio era già cominciato; ma non ad
opera dei Normanni, che non erano ancora giunti sin lì, bensì dei servi che si
impadronivano delle cose preziose che trovavano per infagottarle e fuggire con esse.
Tratta fuori la spada e piattonando la schiera dei servi che fuggivano al suo arrivo,
giunse ai piedi della scala che portava alla camera che aveva abitato con la sorella, e ad
un tratto nella voce che chiedeva aiuto con accenti disperati riconobbe quella di Iras.
Salì la scala di volata e trovò nella camera il suo servo Jussuf che, stretta in un
angolo Iras, laveva gettata per terra e adesso tentava di violentarla.
Ciafar, col
sangue agli occhi, afferrò per la collottola Jussuf e presa una frusta menò colpi
vigorosi sul corpo e sul viso del servo fino a che cadde tramortito. Iras, piangente, si
rifugiò fra le braccia del fratello, in cerca di conforto.
- Sorella mia, non temere,
è tutto finito - disse Ciafar
- su non piangere più, adesso ci sono io e ti proteggerò sin quando vivrò. Adesso
rassettati e copriti bene, dobbiamo fuggire da qui, da un momento allaltro
arriveranno i nemici e se ci scoprono, da solo potrò fare ben poco.
Disse e, presa per mano la sorella, se la tirò dietro, fuori dalla villa per un
viottolo che conduceva ad un sentiero che si incerpicava sui Monti Peloritani.
Era ancora chiaro e, facendosi riparo degli alberi, sincamminarono su per
il monte verso la fuga sperando nella salvezza.
Venne la sera e poi calò la notte e,
senza un attimo di pausa camminarono a lungo per viottoli e sentieri di capre, per evitare
i soldati nemici e forse, peggio ancora gli sciacalli in cerca di prede. Nel mezzo della
notte superata la vetta del monte erano già in vista di Rometta, proprio lì dove si
stavano radunando gli arabi in fuga per organizzare un fronte di resistenza.
- Ciafar, non ho più forze - disse Iras gettandosi a terra -
sono già dodici ore che camminiamo e i miei piedi non ce la fanno più.
I piedini della fanciulla erano infatti sanguinanti, così le
braccia che erano state tormentate dalla sterpaglia e dai rami attraverso i quali avevano
dovuto trascinarsi. Ciafar si preoccupò, sua sorella aveva il viso pallidissimo, le
emozioni e la fatica lavevano prostrata. In fondo erano già nei pressi di Rometta,
se avesse trovato un casolare avrebbe potuto farla riposare e ritemprare le forze.
Ricordò che lì vicino c'era la capanna di un pastore, che gli era stato amico
nei giorni della fortuna e che gli era stato prodigo di consigli saggi, forse lui avrebbe
potuto ospitarli per la notte.
- Iras, coraggio, un piccolo sforzo ancora e fra breve potremo
riposare - disse Ciafar, aiutando la sorella a rialzarsi e sorreggendola per un
braccio le fece riprendere il cammino.
Finalmente giunsero in vista del casolare, una
semplice capanna dove spesso si era soffermato Ciafar per riposare dopo una caccia; ma lì
non cera nessuno. Probabilmente il pastore suo amico si era rifugiato sui monti.
Entrati, Ciafar attinse l'acqua del vicino pozzo e lavati e medicati i piedini e le
braccia piagate della sorella la fece coricare sul saccone di paglia ove lei
saddormentò immediatamente.
Sbarrata la porta con una spranga di legno si sdraiò
su della paglia trovata in un angolo e senza spogliarsi e con la spada al fianco, prese
sonno a sua volta.
Trascorsero le ore, lalba era allorizzonte e tingeva tutto
di rosa; ma di rosa non era la sorte dei due giovani.
Ad un tratto Iras si svegliò di colpo, aveva sentito delle voci, si alzò e
guardo da uno spiraglio dellimposta e con terrore vide una pattuglia di soldati
normanni e davanti a loro la figura lacera e dal volto sfigurato di Jussuf che indicava
loro il casolare.
Fremente di paura svegliò il fratello e gli disse ciò che aveva visto.
Ciafar, tratta la spada si levò in piedi proprio nel momento in cui la porta schiantata
si apriva violentemente e nel suo vano appariva il corpo gigantesco di un normanno, forse
il capo delle pattuglie che tentava di irrompere con la spada in pugno. Ciafar gli corse
incontro per impedirgli laccesso e riuscì a colpirlo al cuore facendolo stramazzare
addosso ai suoi compagni fra i quali, ansioso di vendicarsi del padrone, il più vicino
era Jussuf che certo era stato la guida del gruppo all inseguimento dei fratelli.
Ciafar,
con un colpo di taglio gli mozzò la testa, gridando:
- Cosi muoiono gli scellerati.
Ma i nemici erano molti, un duello impari si ingaggiò.
Ciafar
per quanto agile e snello si muoveva nel ristretto spazio della porta e pur essendo
rapido, tanto da ferire un altro soldato, fu colpito a morte, proprio vicino al collo da
dove il sangue sgorgava a fiotti.
Sanguinante e barcollando all'indietro, giunto vicino
alla sorella, la strinse a sè con la sinistra e datole un bacio sulla fronte la uccise
con la sua spada per non farla diventare preda dei suoi nemici.
Morirono così insieme
abbracciati e per loro lultimo gesto damore fu la morte.
Questa tragedia è stata tramandata e cantata nei secoli e la pietà del
ricordo dei due sfortunati fratelli, ha sempre inumidito le ciglia di tante generazioni di
Messinesi.
Nino Muccioli
Leggende e racconti popolari della Sicilia
Newton & Compton editori
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