Del sole e della luna
Anche gli ultimi clienti si alzarono, pagarono
le consumazioni e se ne andarono.
Era un gruppo di ragazzi
abbronzati, avranno avuto sì e no vent'anni, ridevano e parlavano a
voce alta e le loro voci si lasciavano dietro come una scia di suoni
e colori, il rosso delle risate, l' azzurro delle ingenuità
scambiate, il verde e il giallo di un mondo non ancora adulto, non
ancora smarrito nei meandri del dubbio e della routine, ma fatto di
schizzi di sogni, di pennellate di speranze, di volontà
apparentemente incrollabili. Lei sapeva che era un castello di
carte, quel loro mondo. Per la maggior parte almeno, lo era.
Uscì
piano, quasi con cautela, da dietro la cassa, una donna vecchia,
pelle scura fitta di rughe, capelli tirati lisci dietro la testa in
un nodo che con il tempo si era andato facendo sempre più
piccolo. Lei sapeva. Perché lei ricordava. Quando si è molto
vecchi i ricordi diventano una folla di volti, di gesti, di
avvenimenti coniugati al passato e a volte ricordare è un'
impresa: riuscire a srotolare quella matassa per ricavare il
dettaglio, il particolare cercato. Comunque, in generale, lei aveva
imparato che essere giovani è difficile e che in fondo la giovinezza
tradisce. Scosse il capo. Sentì i motorini partire, ci fu anche chi
fece l' asino e sgommò. Il suono spezzò la notte tiepida, un insulto
alla quiete, al profumo dell' aria che sapeva di mare. Giovani.
Avrebbero imparato. Poco alla volta. O in un colpo solo.
Chissà.
Giovanni aveva incominciato a chiudere. Le sedie erano
già state raccolte, i tavolini pure. Il tendone verde, quello
sarebbe rimasto bello steso a raccogliere l' umido della notte, a
impregnarsi del salmastro. Lei aveva finito i conti della giornata.
Doveva solo spegnere le luci dentro. Si girò.
"Dentro". Per
un momento le venne da sorridere ripensando a quando "dentro" era
stato il suo obiettivo, quasi una idea fissa. Adesso era lì: un
locale circolare, con un tetto di tegole, in mezzo a un prato: la piadineria, come la chiamavano i ragazzi era lì, sua. Era stata
brava. Hamid le passò accanto e la salutò. Non perché se ne stesse
andando, solo perché era fatto così. La salutava tutte le
centinaia di volte che si incrociavano.
Era un bel ragazzo Hamid. Un
extra. Quell'estate aveva deciso di prendere un extra come aiuto
per Giovanni che ormai aveva i suoi anni anche lui e non ce la
faceva più a correre fra i tavolini a prendere le ordinazioni e a
servire i clienti.
Per la verità non era stata una vera e propria
decisione presa a priori. Lo aveva detto al giornalaio, al fornaio,
al fornitore di tovaglioli di carta che cercava uno che aiutasse per
l' estate. La voce era girata e una mattina, quando ancora
lavoravano a riaprire il locale dopo la chiusura invernale, si sa,
un po' di pittura, una rinfrescata, cose così insomma, e poi c' era
anche il prato da risistemare, Hamid s' era presentato. Parlava bene
l' italiano. Aveva occhi scuri e profondi. Le ricordarono qualcuno,
chi non sapeva, ma era certa d'averli già visti due occhi tanto
simili a quelli. Così, un po' per gli occhi, un po' per come Hamid
le parlava, quieto, raccontando di come fosse arrivato dal Pakistan:
"Tutto regolare", diceva, porgendole un pezzo di carta che era poi
il suo permesso di soggiorno, dal Pakistan dove aveva lasciato la
sua famiglia e diceva che voleva lavorare per guadagnare e mandare
soldi a casa e che già lavorava, ma se lei lo avesse preso per le
ore della sera, lui sarebbe stato tanto contento, un po' per tutto
l' insieme, lo aveva assunto. " Va bene, va bene", aveva detto.
"Ce la fai con due lavori?" aveva chiesto e Hamid:
"Sì, certo, come
no?" Beata giovinezza, piena di forza e di coraggio. Anche lei ne
aveva avuto, di forza e coraggio e giovinezza. Le luci erano spente,
il locale era al buio. I fanali della strada lì vicino creavano
ombre strane, con un po' di fantasia si poteva immaginare di
vedere rappresentato di tutto in quelle ombre. Salutò Giovanni,
salutò Hamid. Si avviò verso casa, un due passi di distanza.
Era la
casa di tutta quanta la sua vita, nel senso che lì era vissuta e lì
sarebbe morta. Una casa a un solo piano con appena un filo d' erba
che correva su tre lati e un balcone a tre gradini da terra, come
fosse una specie di anticamera alla casa, su cui si apriva la porta
d'ingresso. Salì i gradini, prese la chiave dalla tasca del vestito
di cotone, aprì ed entrò.
Non ebbe bisogno d' accendere la luce per
percorrere il corridoio che faceva da spartiacque fra il reparto
giorno, cucina, saletta e il reparto notte, due camere e il bagno.
Non ne ebbe bisogno sia perché conosceva a memoria ogni centimetro
di pavimento, e si sarebbe potuta orientare anche al buio più
completo, sia perché l' oscurità della notte era soffusa dalla luce
dei fanali sulla strada che entrava dagli scuri socchiusi insieme al
la luce della luna.
La luce della luna. Già. Bianca e soffice,
fili lisci che diffondevano un chiarore tenue, amichevole,
ammiccante al passato. Un tempo le piaceva guardare il viso della
luna, piena o a falce non importava, e parlarle , raccontando dei
suoi sogni, delle sue speranze. Ma adesso, che di sogni e speranze
non ce ne erano rimasti quasi più e quelli sopravvissuti al lavorio
degli anni erano logorati tanto da parere trasparenti, alla luce
della luna tornavano i ricordi, come richiamati inesorabilmente da
una qualche magia, da un incantesimo, chissà.
In cucina la tavola
era apparecchiata, come l' aveva lasciata, con tre coperti. Uno per
lei, uno per Giacomo, uno per Mario. Non ci mangiava mai nessuno la
sera, a casa, ma lei apparecchiava ugualmente. Da quanto tempo? Un
vent'anni. Apparecchiava per sé e per il marito e per il figlio
pronta com'era ad accoglierli nel profondo, a nutrirli, a amarli,
anche se non sarebbero venuti a cena mai più nella vita. Guardò
la tavola: i piatti bianchi con il bordo azzurro riflettevano lungo
i bordi la luce, i bicchieri di vetro parevano sfumati del colore
della tovaglia, la brocca in coccio arricchita da tocchi di ceramica
rustica stava lì come in attesa e lei allungò una mano e l'
accarezzò, piano, soffermandosi sulla rugosità, su ogni segno, la
strinse poi forte e, come sempre accadeva, le parve di sentire un
qualcosa dentro che non era gioia, né dolore, né aspettativa, ma
solo uno star meglio, un vedersi oltre il suo essere lì.
Amava
gli oggetti, le cose inanimate per lei avevano voce e vita, o
meglio, la prendevano sotto le sue mani, donandole un senso di
profonda armonia. E infatti armonica e piena era la pancia della
brocca, dolce il tondo del piatto, perfetta la forma del bicchiere,
mentre, sparecchiando, riponeva ogni cosa al suo posto, nella
credenza, sul primo piano, dove era così semplice andare a
riprenderle al momento di apparecchiare, con un gesto quasi
inevitabile. In camera, guardò il letto. Si sedette sulla
poltrona a fianco della finestra socchiusa. L'aria faceva tremare la
tenda. La luce della luna creava aloni di polvere argentea. E i
ricordi arrivarono al galoppo come se proprio quel momento avessero
atteso, vibranti di forza, ti ricordi? Ti ricordi? Lei ricordava. Il
sole che si alzava d' estate sul mare e lei, bambina, era già a
vongole sulla spiaggia. Ricordava le pene e la miseria. La fame. Le
liti e la lotta dei suoi per tirare avanti: gente che non aveva
niente, che non avrebbe mai avuto niente. Gente che si smarriva
negli ostacoli, che non sapeva sorreggersi l' uno con l'altro,
sempre in fuga, mai fermi a contrastare. Suo padre beveva troppo e
perdeva al gioco quel po' che riusciva a guadagnare, sua madre,
avvelenata dal lavoro al mercato, si lasciava dietro una scia di
odore di pesce, mai se lo sarebbe tolto quell' odore, mai
in tutta la vita.
Ma ci sono odori peggiori: l' odore del
fallimento, dell' incomprensione, del disgusto, dello sfinimento. C'
era anche questo nell' odore di pesce che sua madre si portava
appresso. Lei aveva deciso di fermarsi a provare, a tastare il polso
della vita, a controbattere giorno a giorno. Era una ragazza
alta, capelli folti, castani, occhi grandi bruni, sfumati nel
nocciola. Prese una brocca piccola, ruvida e grezza, dal ventre
rigonfio e si disse: "Ci provo". Si mise a un angolo di strada, era
estate e il sole spaccava la testa ma lei aveva preso un cappello di
paglia di sua madre, rovinato intorno alla tesa, ma ancora decente.
Stese una tovaglietta, di quelle con la stampa color ruggine, a
coprire una cassetta rovesciata e sulla tovaglietta posò la piccola
brocca insieme ad un' altra più grande piena di acqua e limone e, a
lato, su un grande disco di cartone mise le piade che aveva fatto a
casa di sua nonna, proprio come sua nonna faceva.
Le era passato per
la testa che magari le poteva vendere sul momento ai villeggianti.
Perché al paese sul mare, d' estate arrivavano i villeggianti con
i bambini e i nonni e gli amici, tutti bianchi di pelle, con abiti,
gonne, camicie pure bianche e stavano lì, appunto, a fare i bagni,
le sabbiature, a villeggiare insomma.
Non era accaduto niente per un
bel po', poi, un signore si era fermato e gliene aveva comprato una,
sembrava perplesso e incuriosito, ma, più di tutto, affamato.
Tutto era incominciato così. Lei prendeva le monete e le metteva
nella piccola brocca che portava sempre con sé. Aveva fatto e
venduto piadine per anni, nel sole che le strinava la pelle e
riscaldava il suo spirito facendola guardare avanti con occhi
limpidi, sicuri e pieni di fiducia, mettendo da parte ogni soldo. La
piccola brocca non era stata più sufficiente a raccogliere i
guadagni della giornata. E poi, una notte quando la luna pare
proprio come un' enorme frittata appesa in cielo, si era anche
innamorata. Lei, la donna della piada, lui, Giacomo che faceva il
pescatore. Non poteva essere altrimenti. La giovinezza, la forza e
la passione sono un tutt'uno, da che mondo è mondo. Si erano tirati
su la casa per loro e per i figli che sarebbero arrivati e due ne
arrivarono a tempo debito, Mara e Mario. D' estate affittavano la
loro casa ai villeggianti e si ritiravano nella baracca che era
stata per anni la casa di Giacomo prima che si sposassero. La
baracca era vicino al molo, dove era giusto che stesse la casa di un
pescatore e dal molo Mario una mattina era caduto, annegando.
Lei
era a far piade, lui era fuori in mare. Era una donna forte e non
era crollata. Aveva vacillato un poco. Ma aveva resistito al colpo.
Ferma a guardare l' acqua del porto, con il sole che scherzava fra i
suoi capelli, traendone riflessi biondi. Aveva alzato la testa e l'aveva fissato, il sole, sempre lì, eterno, sempre caldo, come si
cerca un punto di riferimento. O un ancoraggio riparato. Non si
era spezzata neanche quando Giacomo era uscito una sera, era estate
e c' era la luna, a fare un giro, aveva detto, e non era tornato
più. Era stata rigida sulla porta per sei notte ad aspettare che
rientrasse, la settima notte, fatti i conti dell' incasso del
giorno, aveva preso Mara in braccio e le aveva sorriso. "Buona,
buona. La mia bambina buona. Va tutto bene." Così le disse.
Aveva incominciato in quel periodo a sentire importanti gli
oggetti. Non oggetti particolari o di pregio. Oggetti comuni. Da
mercato. Bastava che un colore, una forma, un brillio le
richiamassero alla mente qualcosa, l'impressione anche solo dello
sguardo di Mario, il tondo della sua guancia, la leggerezza del suo
respiro, il vigore del braccio di Giacomo quando si erano
incontrati, bastava quello perché l' oggetto, tazza, piattino,
fiaschetto, bricco o caraffa, si animasse e incominciasse a parlare
con lei.
Quando Mara fu grande, uno che veniva a passare l'estate
al paese sul mare, s'innamorò di lei e la sposò. Fu un bel
matrimonio. Mara andò a vivere in una grande città della pianura.
Lei intanto s'era fatta il locale. Piade e prosciutto e salame e
coppa e birra e vino e gelati e gli affari erano andati bene. Sempre
più spesso, con il correre del tempo, si chiedeva perché.
Perché avesse sfacchinato tanto. Per Mara, certo. Per se stessa
anche, perché doveva pure fissarsi una meta da raggiungere per
tirare avanti, una come lei che di piegarsi e lasciarsi cadere non
ne voleva proprio sapere.
"Già ", si disse, seduta nella poltrona,
"già". Era semi addormentata, un poco intorpidita e la mente
divagava in qua e in là, si arrampicava su per il muro della camera
e scherzava con i ricordi, inseguendoli, accarezzandoli, lasciandoli
di colpo per riacciuffarli l'attimo dopo. Sul canterano di fronte a
lei, il Cristo sotto la campana di vetro sorrideva e benediceva gli
uomini di buona volontà. Sul lato destro c'erano la piccola brocca
panciuta, screziata di verde, la tazza bianca dove lei aveva messo
ogni mattina il latte per Mario e il bicchiere da vino che era stato
di Giacomo. Li guardò e vide marito e figlio venire verso di lei, l'uomo teneva il bimbo per mano, allegri forse per qualche loro
segreta buffoneria. La luce della luna li velò e li cancellò con
delicatezza. Solo riflessi color latte rimasero sulle cose posate
sul canterano. Sogni.
"E' stato un sogno, si disse,
anche se
proprio non è che stia dormendo. Un gran bel sogno." E si chiese
che cosa stessero sognando l'ormai vecchio Giovanni che da sempre
ormai l'aiutava al locale e il giovane Hamid che, forse, ritrovava
nel sonno la sua terra, la sua famiglia. "Tutti hanno i loro
sogni, come una ricchezza che nessuno e niente può portar via. Più
preziosa di tutto il resto. Capita poi che certe cose ti conciliano
i sogni che vuoi sognare. Già.", pensò e l'occhio corse ancora agli
oggetti sul canterano.
Si alzò allora, decisa, e prese fra le dita
il bicchiere, lo tenne stretto e subito non fu più bicchiere, ma
mano calda. Così viva, così confortante. Ecco, era tanto facile e
pareva tanto vero. "Vecchio stupido, disse, che te ne fai ancora
in giro? Perché non torni a casa? " e parlava a Giacomo il
pescatore.
Non ci fu risposta, ma le risposte, si sa, non sono
tutto. E lei, ad ogni modo, non avrebbe rinunciato, mai nella vita,
a quei suoi gesti, incantesimo o stregoneria che fossero.
Rimise il
bicchiere di Giacomo al suo posto, accarezzò con gli occhi la tazza,
la brocchetta, leggermente sorvolando con la punta delle dita la
sua vita intera. Ma era ora ormai di chiudere gli occhi e dormire
un' ora, tanto le bastava, perché di lì a poco Giovanni avrebbe
bussato e lei gli avrebbe aperto e insieme sarebbero andati a
prendere quel che occorreva al locale e poi tutto avrebbe
incominciato a girare come sempre.
Il capo posato all' indietro,
chiuse gli occhi sui sogni, la realtà che si era costruita, e si
addormentò, stanca, ma insieme quasi appagata, mentre la luna si
sfaceva nel sorger del
sole.
Non più in www.SoloTesto.com
www.colapisci.it
|