Il lupo mannaro
C'era una volta un
ricco barone che rivestiva un'alta carica alla corte del re di Francia. Possedeva numerose
proprietà e vasti latifondi. Trascorreva l'estate in campagna con la famiglia in un
castello sulle rive della Marche, e lì si concedeva ai piaceri della caccia.
I suoi poderi erano
affidati ai fittavoli e tra questi ce n'era uno che era entrato alle sue dipendenze da
poco tempo. Era un uomo già avanti negli anni e coltivava i campi che confinavano con il
muro di cinta del castello. Nessuno, nella zona di Berry, lo conosceva.
Ma dal giorno in cui il
fattore era passato al suo servizio, il sonno del castellano fu gravemente turbato.
All'inizio del novilunio e nelle tre notti successive, terribili, furiosi latrati facevano
tremare il castello dalle fondamenta: ogni volta, al dodicesimo rintocco di mezzanotte, la
muta di cani del barone cominciava ad abbaiare. Quando questi balzava dal letto e si
affacciava alla finestra per appurare la causa dell'agitazione notturna, la muta aveva
già preso il largo, benché il canile fosse stato chiuso con robuste serrature. La canea
si disperdeva poi per i colli e le valli, nella pianura e nei boschi, e l'eco si udiva
fino a Al mattino i cani venivano trovati addormentati fuori dai portoni del castello.
Erano sfiniti, esausti e in uno stato penoso. Alcuni avevano perfino serie ferite.
Il barone chiese in
giro che cosa significasse quello strano e misterioso tumulto nel cuore della notte e si
sentì rispondere:
- Sarete stato sorpreso dall'esercito degli spettri che organizzano le
loro cacce notturne
Altri
parlarono dell'apparizione del fantasma della Grande Bestia o della Levriera, insomma
furono in molti a raccontare storie del genere, senza tuttavia nascondere il proprio
dileggio. Le varie risposte indispettirono il proprietario
del castello e non soddisfecero la sua curiosità. Un caso fortuito lo avrebbe tuttavia
aiutato a fare luce sul mistero.
Un giorno la baronessa
chiacchierò con una giovane contadina. Era la figlia del nuovo fittavolo e una ragazza
sempre allegra e gioviale, priva di malizia e spensierata. La signora le chiese, senza
dare il minimo peso alla domanda:
- Ma che hanno i cani, in certe notti come quella di ieri? Perché urlano,
ululano e abbaiano fino all'alba, tanto che nessuno riesce più a riprendere sonno?
- Ah, è stato perché ieri ci
siamo infilati nelle nostre pellicce -
rispose la giovane
figlia del fittavolo, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.
- Che
significa: ci siamo infilati nelle nostre pellicce?
- domandò la signora sbalordita.
La ragazza, rendendosi
conto di essersi tradita tanto ingenuamente, notò lo stupore nello sguardo della
baronessa. Indecisa sul da farsi e assai confusa, si chiuse nel silenzio, che tuttavia,
durò solo un attimo. La giovane, infatti, ritrovò presto a sua loquacità e, non essendo
avvezza a raccontare frottole e non perseguendo secondi fini, rispose sinceramente a tutte
le domande. Raccontò che in certi giorni del mese, ma soprattutto nelle notti fra Natale
e la Candelora, tutta la sua famiglia si infilava in pellicce di animali e correva
all'impazzata nella contrada inseguita dai cani, poi chiese:
- Non conoscete quella canzoncina che si anta dappertutto?
La giovane contadina
cominciò subito a intonarla:
Tra Natale e la
Candelora
paura si ha delle
bestie ognora.
- Ma per l'amor del cielo
- esclamò la castellania - è proprio la
sarabanda che noi chiamiamo la caccia dei lupi mannari! È
spaventoso quel che fate, tu e i tuoi!
- Ah, ma non facciamo del male
a nessuno - ripose
calma la ragazza -
Se volete, posso indossare la
mia pelliccia. Mi ci vuole un istante. Nulla più facile
La baronessa indugiò a
rispondere perché, se per un verso si sentiva incuriosita, per l'altro era trattenuta
dalla paura. Ma la giovane contadina scambiò il silenzio per una tacita approvazione e
disse:
- Se ora mi presento ai vostri occhi con l'aspetto di una lupa, di certo
vi spaventerete, ma non dovete fare altro che colpirmi sul muso con il primo oggetto che
vi viene a tiro: istantaneamente acquisterò la mia forma umana.
Pronunciate quelle parole, la ragazza
si arrampicò sull'impalcatura della stalla, e pochi minuti dopo una lupa, una vera lupa
dall'aspetto sinistro, balzò a terra spiccando un salto attraverso la botola e si
strofinò contro i piedi della castellana. Costei lanciò un urlo e svenne.
Trascorsero parecchie
ore prima che tornasse in sé. Riprese conoscenza nel suo letto al fianco del marito, al
quale raccontò per filo e per segno ciò che le era accaduto.
Qualche tempo dopo
questo episodio, in una notte di gennaio senza luna, un uomo armato di fucile si recò al
pascolo e si nascose dietro a dei cespugli di ginestra non lontano da una grande croce.
Proprio lì vicino c'era un crocicchio dove convergevano quattro strade.
A mezzanotte,
nella campagna risuonarono improvvisamente dei latrati spaventevoli, misti a risate e a
grida di giubilo che parevano provenire dall'aldilà.
Già l'istante
successivo la misteriosa muta notturna aveva raggiunto il quadrivio. C'erano cani, lupi e
un'infinità di altri esseri sconosciuti agli studiosi. Di fronte alla croce si
impennarono selvaggiamente e lo strepìto infernale aumentò, sinché due spari
interruppero il trambusto.
Seguì un breve silenzio e un gigantesco lupo grigio, che
sembrava il capobranco, si scrollò il pelo con irruenza e disse in tono deferente:
- Peccato che tu non abbia potuto colpirmi. La mira era ottima.
Non appena il lupo ebbe
pronunciato queste parole, la canea riesplose più furibonda di prima, ma poi i mostri si
dileguarono nelle tenebre.
L'uomo con il fucile
altri non era che il castellano in persona, come è facile immaginare. Nella voce del lupo
aveva riconosciuto quella del nuovo fittavolo, sicché la mattina successiva non
resistette alla curiosità di tornare nello stesso luogo in cui era accaduto il fatto.
Trovò nientedimeno che ì due proiettili del suo fucile. Erano ancora sul terreno
esattamente nel punto in cui il grande lupo grigio aveva scosso la pelliccia.
Mentre, profondamente a
disagio, si dirigeva verso le fattorie, il barone scorse il vecchio fittavolo che, vispo e
allegro come al solito, stava arando sulla cresta di un colle e con voce suadente
canticchiava una canzoncina nell'orecchio dei buoi per spronarli al lavoro.
- Guarda,
- disse il barone all'uomo -
ho trovato questi due bossoli.
Erano nel punto esatto in cui stanotte ho sparato a un lupo.
- È molto strano
- rispose il fittavolo e pronunciò la frase con la
massima naturalezza.
Il nuovo episodio
dimostrò al castellano che non è facile acciuffare il lupo mannaro nemmeno se i
proiettili sono stati benedetti con l'acqua santa. D'altra parte egli sapeva che era la
pura verità ciò che la gente raccontava:
- Non si ha alcun potere su un lupo mannaro fintantoché è alle nostre
dipendenze.
Soprappensiero, se ne
tornò a casa. Che cosa avrebbe dovuto fare?
Il suo fittavolo era un buon agricoltore,
sbrigava qualunque lavoro con diligenza e accuratezza, come del resto facevano gli altri
servi, ma - si disse - non poteva tenere al suo servizio persone che avevano tali costumi
diabolici. Per giunta, sua moglie stramazzava a terra priva di sensi ogni volta che si
vedeva davanti agli occhi la giovane contadina; non riusciva a dimenticare l'apparizione
improvvisa della lupa che l'aveva atterrita qualche tempo addietro.
Alla fine si decise: convocò al castello il fittavolo e gli fece
comunicare che lui e la sua famiglia erano licenziati. L'uomo protestò e asserì di avere
sempre servito con fedeltà, di essersi dimostrato un contadino esperto, di avere
coltivato i campi in maniera esemplare, di tenere in perfetto ordine la casa e la fattoria
e che anche il suo raccolto era stato eccezionale. Ma le sue lagnanze furono vane. Il
castellano gli obiettò di non poter tenere alle proprie dipendenze chi, tramutato in
belva, scorrazzava per i campi nel cuore della notte.
A quelle parole, il
fittavolo si astenne dal chiedere ulteriori delucidazioni sul proprio licenziamento e,
furente e amareggiato, tornò dalla propria famiglia.
Quindici giorni più
tardi l'uomo, ovvero il lupo mannaro, si stabilì con i familiari in un podere di
proprietà di una ricca abbazia, dove in breve tempo fu messo a capo di tutti i contadini.
Trascorsero altri
quindici giorni e i terreni del castellano mutarono aspetto di colpo: erano la desolazione
più assoluta! Di notte, infatti, la muta selvaggia aveva percorso in lungo e in largo i
suoi campi calpestandoli.
Alle prime luci dell'alba si videro le mucche che cercavano
spaesate i loro pascoli. Molte zoppicavano. Era stata la vendetta del fittavolo.
Ma il suo signore non
fece parola con nessuno dell'accaduto: sapeva di non dovere aprire bocca con anima viva se
voleva ottenere il proprio scopo.
Piuttosto raggiunse la
chiesa: tolse un pezzetto di piombo dal tetto e asperse alcuni proiettili con l'acqua
benedetta. Poi recitò tre Ave Maria e tre Pater noster.
Così equipaggiato, si spinse
fino ai pascoli e si nascose nei cespugli.
La notte era senza luna e molto buia, tanto che
non si riusciva a distinguere la propria mano nemmeno accostandola agli occhi. C'era
silenzio.
L'unico rumore che il castellano percepì era il calmo respiro dei manzi che
ruminavano pacifici; qui e là udiva lo stridio dei grilli e di tanto in tanto un toro
soffiava.
Tutt'a un tratto,
però, la mandria manifestò una strana inquietudine. Per primi furono i bovini più
vecchi ad agitarsi: orientarono tutti le froge verso il medesimo punto dell'orizzonte e,
con respiri rapidi e forti, fiutarono ansiosamente tutti gli odori portati dal vento.
All'inquietudine
iniziale seguì un'inquietudine maggiore e più marcata. I manzi e i tori si strinsero
l'uno contro l'altro e racchiusero all'interno di un cerchio i più giovani e i più
deboli. I più robusti e coraggiosi si schierarono, per così dire, in ordine di
battaglia: tenevano le teste sollevate, cosicché si vedeva una selva di coma minacciose
puntate verso l'alto.
Tuttavia il castellano
non udì per il momento nessun rumore insolito. 'Prestava però fiducia agli animali, che
di cose sovrannaturali se ne intendono più degli uomini. All'erta com'era, non volle
trascurare nessuna precauzione, sicché controllò l'arma un'ultima volta. Ma, a un
tratto, scorse un punto luminoso in lontananza.
- Ah, sarà la lanterna di un bovaro che si accerta che nessun animale si
sia allontanato dal pascolo
- pensò.
L'imprevisto lo
infastidì molto, poiché interrompeva un'avventura di cui desiderava venire a capo alla
svelta. La sua meta, infatti, era ormai a portata di mano.
Ma la luce compì una
specie di balzo in alto e presto fu sostituita da una seconda, e poi una terza illuminò
lo spazio. Ne seguirono una quarta, una quinta, una sesta e una settima; via via se ne
aggiunsero molte altre.
- Dio mi perdoni
- disse il barone, che non
poté fare a meno di ridere -
Tutta la gente che lavora nei
miei fondi si è radunata. Quei codardi non hanno osato raggiungere da soli i
pascoli a quest'ora e perciò si sono schierati, come per una battaglia, e
questo unicamente per andare a controllare le serrature dello stabbio.
Deluso, vedendo i suoi
piani naufragare, il castellano abbandonò l'appostamento poiché non gli garbava di
essere scoperto dagli uomini, ma nel contempo si accorse che il fermento dei manzi
continuava a crescere quanto più le luci si avvicinavano. Così decise di tornare nel suo
nascondiglio e di restarvi in attesa degli eventi.
Per lo più le luci saltellavano qua e
là, come se fossero stati fuochi fatui, non davano l'impressione di seguire un ordine
prestabilito e tuttavia formavano una fila ininterrotta dalla quale nessuna si scostava.
Pareva che si muovesse un serpente.
Per il resto, non si
vedeva e non si sentiva nulla.
A un certo punto il castellano non osò credere ai propri
occhi. Vide infatti figure umane con le schiene curve e le teste sollevate, poiché
reggevano le lanterne sulla fronte. L'apparizione spettrale dei fittavoli si dissolse
però come nebbia per far posto alla realtà.
Ma la realtà, a sua volta, assomigliava a
una visione fantastica: uno stuolo di animali strani dall'aspetto indescrivibile si
avvicinò piano piano al pascolo. Nell'oscurità le loro pellicce brillavano come carboni
accesi, i loro piedi si appoggiavano per terra e nondimeno non producevano alcun rumore.
Il corteo degli animali era guidato dal vecchio lupo grigio, vecchia conoscenza del
castellano.
La mandria dei bovini
si irrigidì dallo spavento. Uno sparo di arma da fuoco trafisse il buio e il silenzio
della notte di novilunio.
Il lupo mannaro,
colpito dal proiettile, stramazzò al suolo, ma subito si rialzò riassumendo un aspetto
umano e se ne andò. Il suo seguito raccapricciante era scomparso come se non fosse mai
esistito.
Da quel giorno la pace
tornò nei poderi del barone.
Fiaba della Francia Centrale
www.colapisci.it
|