Cola PesceColapisci: l'uomo che diventa pesce per necessità o per sceltaI ricordi di Cola: Fatti leggendari


La Fata Morgana in Sicilia

Nel romanzo arturiano in lingua d'oc Iaufre Morgana appare nel Mediterraneo la prima volta, verso il 1180, dichiarandosi Eu sui la fada de Gibel, "sono la fata dell'Etna", come vien fatto di tradurre dato che da tempi non ben memorabili l'Etna viene chiamato pleonasticamente Mongibel, cioè monte in due lingue, latina (mons), araba (dijebel).
Le cose però, come sempre nell'universo cavalleresco, sono più complesse.
Il romanzo Iaufre offre un seguito ambiguo:
 

Eu sui la fada de Gibel
El castel on vos fos amme
A num Gibaldar, et nun cre
Qu'el mun n'aja tan ben serrat
De murs, ni tant fort batallat.

Io sono la fata di Gibel,
il castello in cui foste condotto
ha nome Gibaldar, e non credere
che al mondo un altro vi sia tanto ben fortificato
di mura, né orlato di tante torri.


Forse l'equivoco nasce solo dalla comune radice di
Gibel e Gibaldar, cioè Gibilterra.
Ad ogni modo il personaggio nuovo fatato nel Mediterraneo è sempre lei, Morgana.
Per qualche andare del tempo è la fata Morgana che tiene reggia, ospita re Artù dentro l'Etna. Dove se non nei boschi, i profumati boschi nelle vallate del monte? 
Dalla cima dell'Etna con magica lestezza e mosse guizzanti gli occhi di lei passavano dalla sponda calabra a quella messinese dello stretto di mare, con una fitta di inquieta felicità.

Erano le prime luci dell'alba, quelle in cui si scatenavano le sue invenzioni migliori: fece un gesto improvviso e nacque nello stretto di Messina il celtico mirage, come se le coste dirimpettaie non fossero più presenti, come se ci fosse un panorama che si specchiasse in un altro, uno specchio dentro un altro fino a perdersi di vista.
Lo scrittore A. Kopisch nelle Poesie, uscite a Berlino nel 1833 e tradotte a Torino da Gustavo Straforello nel 1859, immagina il conte Ruggero, il Normanno, che da Scilla guarda al di là dello Stretto la Sicilia ed è visto da Morgana, che lo invita sul carro incantato; ma il Normanno rifiuta. Allora Morgana gli ammannisce il mirage: l'isola si accosta, l'Etna si accosta e tutta l'isola gli sta davanti fino a Trapani, fino al tempio di Citera.
Anche a Catania qualcosa avvenne: nel 1161 Riccardo Cuor di Leone consegnò a Tancredi, re di Sicilia, la spada Excalibur di re Artú, forse un modo di dare prestigio all'ultimo periodo del dominio normanno in Sicilia, minacciato dall'avvento prossimo degli Svevi.
Excalibur e l'Etna si accostavano disperatamente l'una all'altro, entrambi partecipi di quel capolavoro che era la leggenda di re Artú, ormai entrata in orbita nei cieli del pianeta.
Allora con il secolo XII qualcosa è molto cambiato. C'è uno spostamento geografico e mitopoietico. Non escono più dai condotti etnei le grandi seduttrici, le sirene; non vi scendono più le anime che viaggiavano sulla nave nera e silenziosa, priva di equipaggio. 
L'Etna entra in un nuovo soprannaturale, diverso da quello classico, greco-latino, e da quello cristiano, un soprannaturale che è nordico-celtico e a noi mediterranei appare meno inquietante, ma più bizzarro e fabuloso.
Sembra un mondo "
altro", con altri frequentatori.

(..)

L'Etna assume così la natura ibrida dell'isola di Avalon coi suoi ospiti che vagano fra l'aldiquà e l'aldilà, responsabili anche i normanni. Se si perde la memoria dei popoli, le storie narrate vanno intorno errando come involucri vuoti.
Come nell'isola di Avalon, così anche nell'Etna valgono leggi diverse riguardo allo spostamento nello spazio e allo scorrere del tempo. 

(..)

Virtú delle fate, compresa Morgana, è la leggerezza dell'essere. Camminano silenziose, quasi volando sopra la terra come angeli, appaiono e scompaiono, cinte di un vago alone di luce. Simili all'arcobaleno hanno natura sospesa e umori variabili, che nel secolo XII le fanno volare dalle praterie dell'Irlanda alle brughiere della Scozia, alle rocce di Gibilterra, alle balze dell'Etna; forse è lo stesso arcobaleno a segnare loro la strada.
Hanno le fate una particolare attrazione per i neonati che esse salvano e proteggono, perché hanno per gli infanti la reverenza di una madre e forse anche la voglia.
Esse impregnano di sé lo spirito dei luoghi, Irlanda, Scozia, Etna, che paiono soggiacere a incantesimi o, per lo meno, a quegli effetti magici che le connotano.

La vita delle fate è retta da una logica fantastica rassicurante e per noi tutto quello che fanno ha valore proprio perché non sappiamo che valore dargli. 
Secondo il cappellano scozzese Kirk ci sono molti suoi fedeli che hanno la "seconda vista", cioè il dono di vederle nell'ambiente fra gli Highlands e la Bassa Scozia, e non si sa bene come mai ciò avvenga.
Le fate usavano un linguaggio con parole di diverso significato e cambiavano i nomi di cose ordinarie in suoni che funzionassero
"in modo analogo a quello che esse desideravano produrre e cosí formavano uno stile magico speciale loro proprio" che modificava la natura delle cose. 
Il buon cappellano scozzese crea una analogia coi Neoplatonici che pure usavano parole magiche
"di diverso significato, parole che essi pensavano fossero state escogitate dagli dei che conoscevano la natura delle cose". 
Oltre alle parole naturalmente ci sono filtri ed altri mezzi per produrre l'amore cosí che le
"persone amate, appena toccate, seguano chi le tocca perdendo immediatamente ogni dominio di loro stesse, sia per una simpatia inspiegabile sia per qualche altro impulso invisibile".

Qui, a ristabilire l'equilibrio fabuloso, tre fate di cui una è nientemeno che Morgana vengono a passare nei paraggi dell'evento, sentono un neonato piangere, ne sono attratte ed ecco che Morgana rapisce il figlio del re, quasi nuova versione del rapimento del bimbo Lancillotto da parte della Dama del Lago.
Il neonato è condotto nel castello della fata Morgana che naturalmente è fatato ed è dentro l'Etna, là dove nessun uomo può morire:

 Sappiate in vero e senza mentire
che quel castello era fatato,
e sappiate che ciò corrisponde a verità,
che nessun uomo può colà morire.

Il fantasma dell'isola di Avalon è ormai sovrano nell'Etna, che ne assorbe l'incanto atemporale e magico. L'Etna non è fatto per generare un mondo fatato nordico, può solo per un momento rappresentarlo. Morgana si fa madre adottiva, fa battezzare il bimbo col nome di Floriant, lo cresce, lo affida a un maestro, gli fa apprendere tutto ciò che si addice a un prode. 
Morgana non ha ancora i suoi caratteri fatali di predatrice amorosa; investe Floriant cavaliere, gli offre la spada e gli speroni, lo informa delle sue origini nobili; indi lo rimanda nel mondo dei viventi e continua da lontano a sorvegliarlo e proteggerlo.
Particolare curioso: gli dona una nave e gli intima di raggiungere re Artú, che evidentemente non è ancora giunto nell'Etna.

(...)

La sposa Florete diviene lei pure ospite con Floriant nel castello fatato e come nelle belle favole i due vissero felici e contenti. Ma poiché naturalmente erano in quell'aldilà che si è visto diventare l'Etna su modello dell'isola di Avalon, non si finisce di venir bene a capo di cosa fu per loro il trascorrere felice del tempo, non avendo noi esseri reali nessun potere di giudizio sulle immagini dell'aldilà. 
Nessuno ci ha detto che cosa si raccontano gli uni degli altri, Morgana di Artú, Artú di Morgana, Florete di Floriant. Quando li incontri in un romanzo o in una chanson sai solo che sono in luoghi aldilà del tempo e che anche l'Etna è divenuto una delle frontiere dell'altro mondo, come dire un luogo dell'aldilà che ha la leggerezza delle cose sognate. 
Queste insufficienze dell'aldilà non consentono a noi esseri reali di descriverlo, raccontarlo; restiamo esitanti e possiamo solo riferirne l'esistenza indistinta, in modo che ciascuno supplisca con la sua immaginazione. Ma si tratta sempre di soluzioni di seconda mano. Come dire che tra Floriant e Florete, tra Morgana e Artú noi siamo sempre degli intrusi o forse addirittura degli esclusi.

 

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Catasto Magico

Maria Corti
Einaudi

   

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