Cola PesceColapisci: l'uomo che diventa pesce per necessità o per scelta I ricordi di Cola: Fatti leggendari


Galatea

"Da Fauno e da Simete nacque Aci,
gioia grande del padre e della madre,
ma più grande per me, l’unica sposa.
Egli era molto bello a sedici anni,
ché una molle lanugine adornava
le sue tenere guance. Lo volevo
nel modo che il Ciclope mi voleva,
d’un amore infinito. Non so dire,
sempre che tu lo chieda, se l’amore
che sentivo per Aci superava
l’odio per il Ciclope: tale e quale!
Venere genitrice, quanto è grande
la forza del tuo regno! È un uomo rude,
un ispido selvaggio che nessuno
ha mai veduto senza il proprio danno,
spregiatore dei Numi e dell’Olimpo,
eppure s’innamora ed arde tutto
di passione sfrenata; più non bada
alle pecore e agli antri. O Polifemo,
tu curi già l’aspetto e vuoi piacere,
già coi rastrelli pettini la chioma
irsuta sulla fronte; già ti piace
radere dalle guance con la falce
l’ispida barba; guardi dentro l’acqua
il tuo volto feroce e lo addolcisci.
La ferocia, l’amore per le stragi,
quella sete di sangue ch’era immensa
cessano all’improvviso, e le carene
arrivano e ripartono sicure.
Tèlemo l’Eurimide, frattanto,
arriva presso l’Etna, in Sicilia.
(Mai che fosse ingannato da un uccello!)
Si avvicina al tremendo Polifemo
e gli dice così: "Sappi che Ulisse
ti rapirà quell’occhio che tu porti
unico sulla fronte!" Quello ride:
"Stolidissimo vate" dice "sbagli.
Già l’ha rapito un’altra!" Disprezzando
chi gli predice inutilmente il vero.
intanto calca il lido a grandi passi
o torna stanco nella grotta oscura.
C’è un colle che si sporge con la punta
a picco sopra il mare, dove l’onda
batte da entrambi i lati. Sulla cima
sale il rozzo Ciclope, accompagnato
docilmente dal gregge. Lì seduto,
poggia ai suoi piedi il pino, che gli serve
come fosse un bastone, ma più adatto
a reggere le antenne, e, preso in mano
lo zufolo legato in cento canne,
fa risuonare intorno i monti e il mare
del suono pastorale. Ben celata
dietro una rupe, in grembo ad Aci mio,
ascolto da lontano. Alle mie orecchie
giungono le parole: – O Galatea,
più candida del candido ligustro,
più fiorita dei prati, più slanciata
dell’ontano e più splendida del vetro,
più scherzosa di un tenero capretto,
più leggera dell’acqua contenuta
nelle conchiglie ruvide per l’onda,
più gradita del sole nell’inverno,
più gradita dell’ombra nell’estate;
più nobile dei frutti, più attraente
d’un altissimo platano, del ghiaccio
tu sei più trasparente; sei più dolce
di un grappolo maturo; sei più molle
delle piume del cigno e più del latte
appena coagulato; se non fuggi
sei bella come un orto quando è irriguo.
Eppure, Galatea, sei più feroce
dei giovenchi indomati, sei più dura
d’un albero di quercia secolare,
più fallace dell’onda, più indolente
delle verghe dei salici e i vitigni;
più salda di uno scoglio come questo,
più rapida del fiume, più superba
d’un pavone lodato; sei pungente
più delle spine ed aspra più del fuoco
più torbida di un’orsa che ha sgravato;
sei più sorda dei f lutti, più aggressiva
di un serpe calpestato; più fugace,
(oh, potessi impedire che lo fossi!)
non soltanto del cervo intimorito
dai latrati dei cani, ma perfino
del vento più veloce e della brezza.
Quando mi conoscessi, certamente
non vorresti fuggire. Rifiutando
un qualsivoglia indugio, tu per prima
vorresti trattenermi. Sì, possiedo
degli antri naturali, in roccia viva:
sono parte del monte, dove il sole
non si sente d’estate, né d’inverno
si sente il freddo; e molti bei frutteti
stracarichi nei rami, ed ho filari
lunghissimi di viti, dove i chicchi
brillano come l’oro, ed uve rosse.
Le conservo per te, queste e quelle altre.
Tu stessa coglierai con le tue mani
le fragoline rosse, morbidette,
spuntate sotto gli alberi, nei boschi;
corniole d’autunno e tante prugne,
non solo prugne nere, succulente,
ma quelle, pure buone, somiglianti
alla cera più fresca. Se mi sposi,
a te non mancheranno le castagne
né i corbezzoli dolci; qui ogni pianta
ti servirà i suoi frutti. Questo gregge
che vedi pascolare è tutto mio:
molti animali vagano nei boschi
ed altri stanno all’ombra delle selve;
altri sono rimasti nelle grotte.
Se tu me lo chiedessi, non saprei
dirti precisamente quanti sono.
È costume del povero contare
una ad una le pecore. Se vanto
la bontà del mio gregge, non mi credi.
Ma guarda da te stessa! A malapena
camminano, portando le mammelle
gonfie sin nelle gambe. E quanti agnelli
nei miei tiepidi ovili! Ed altrettanti,
sono gli ultimi nati, i miei capretti.
Il latte non mi manca: ne conservo
una parte da bere, l’altra parte
mi diventa formaggio, sciolto il caglio.
Sono piaceri facili, regali
quasi di tutti i giorni! Pure avrai
altri doni più rari: caprioli
e leprotti e cinghiali ed un piccione,
strappato insieme al nido a quell’altezza.
Ho visto due orsacchiotti, così uguali
che a stento li distingui: sono figli
di un’orsa a pelo folto che ho scovato
in cima alla montagna. Nel vederli
mi sono detto: – Voglio conservarli
alla donna che amo: per giocare –.
Emergi, Galatea, su, finalmente,
col tuo capo bellissimo, dal mare.
Accetta questi doni, non spregiarli!
Io mi conosco, certo! Or non è molto
mi vidi rispecchiato alla sorgente:
il mio aspetto mi piacque nel guardarlo.
Vedi che sono grande!.. Giove stesso
(voi solete narrare che nel cielo
regna non so che Giove) non è grande
più di questo mio corpo. La mia chioma,
foltissima davvero, mi si allunga
sull’occhio torvo e, come una foresta,
adombra le mie spalle. Non pensare
ad una cosa brutta se il mio corpo
è coperto di setole pungenti,
ispide e molto fitte. Non è brutto
l’albero senza fronde? Ed ugualmente
è brutto quel cavallo dal cui collo
non scende la criniera; folte piume
rivestono gli uccelli; della lana
si adornano le pecore; ed all’uomo
si conviene la barba e il pelo in petto.
Ho in fronte un occhio solo, pure è grande
quanto è grande uno scudo. E che vuol dire?
Forse il Sole non vede dal gran cielo
tutte quante le cose? Eppure il cerchio
è unico del Sole. Se vi aggiungi
che mio padre è Nettuno, re del mare…
Io te l’offro per suocero. Ti prego,
abbi pietà di me, le mie preghiere
ascolta supplichevoli: mi piego
solo davanti a te. Io che disprezzo
il fulmine di Giove acuminato,
e Giove stesso e il cielo, io, timoroso,
Nereide, ti guardo: è, la tua rabbia,
più crudele del fulmine. Il disprezzo
ben lo sopporterei, quando fuggissi
ugualmente da tutti. Ma rispondi:
perché tu mi respingi ed ami Aci?
ed Aci preferisci alle mie braccia?
Egli si piace, giusto, lo concedo!
Ma che non piaccia a te, mia Galatea!
Mi si dia l’occasione, ed avrà modo
di provare che ho forze uguali al corpo.
Gli strapperò le viscere; le membra
ridurrò in tanti pezzi, che nei campi
seminerò e nell’onde, le tue onde!
Si mescoli con te! Brucio, difatti:
il fuoco, stuzzicato, più è rovente.
Mi sembra di portare, trasferito
qui, nel mio petto, l’Etna rabbioso.
Ma tu non ti commuovi, Galatea –.
Mentre invano si cruccia e si lamenta,
si alza e, irrequieto, (vedo tutto)
va per la selva e i pascoli ben noti,
come un toro che infuria, se la mucca
gli viene allontanata. Quando scopre
Aci con me, che, ignari ed al sicuro,
non temiamo di nulla, grida: – Ho visto!
Io farò in modo che codesto amplesso
sia l’ultimo che vedo! – La sua voce
è tanto forte quanto la può avere
un Ciclope adirato. Inorridisce
l’Etna del frastuono. Ed io, atterrita,
mi tuffo dove l’acqua è più vicina.
L’eroe Simetio fugge mentre grida:
– Aiutami, ti prego, Galatea!
Venite in mio soccorso, genitori!
Accoglietemi voi, nel vostro regno,
poi che sto per morire! – Polifemo
lo insegue nella fuga: strappa al monte
una parte di roccia e poi la scaglia.
Pur se una punta sola della roccia
colpisce Aci, essa lo ricopre
interamente. Noi ci adoperiamo
per fare ciò che il Fato ci consente:
che riacquisti per sé le forze avite.
Il colore del sangue fuoriuscito
dalla roccia assassina, va sparendo
in brevissimo tempo e assume quello
delle acque di un fiume, intorbidato
dapprima dalla pioggia e poco dopo
ridivenuto limpido; la roccia
si squarcia e si frantuma: dalle crepe
spuntano canne vive e flessuose
mentre la parte cava della roccia
gorgoglia d’acqua. Subito dal sasso,
fino a metà del ventre, fuoriesce
un giovane, ricinto nelle ciocche
da canne attorcigliate: quello è Aci,
a parte la grandezza ed il colore
azzurro del suo viso. Certo! Aci.
Trasfigurato in fiume, è sempre Aci,
un fiume che conserva il nome antico"

 

Ovidio
Metamorfosi

   

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