Glauco
e Scilla
Glauco e Scilla
- Bartholomäus Spranger (1580/1582)
Kunst historisches Museum, Vienna (Austria)
Qui tace Galatea. Disciolto il
gruppo,
le Nereidi sciamano nuotando
nelle placide onde. Scilla torna
ma non osa affidarsi al mare aperto;
si aggira tutta nuda sulla sabbia
dove riassorbe il flutto. Quando è
stanca,
scoperto un angolino, si ristora
nell’onda chiusa ai gorghi. All’improvviso,
nuotando a larghe braccia, giunge
Glauco,
ospite da pochissimo del mare,
e da poco mutato ad Antedone.
Vedendo la fanciulla, affascinato,
si ferma rivolgendole parole
che gli sembrano buone a trattenerla
quando voglia fuggire. Tuttavia
quella fugge veloce, per paura,
sulla vetta di un monte, che si
eleva
vicinissimo al lido. Questa vetta
sorge davanti al mare: dai suoi
flutti
s’innalza, ingente, a picco, e
sfida il cielo.
Scilla si ferma poiché lì è al
sicuro.
Non sapendo se è un mostro o un Dio
marino,
ammira il suo colore e quella chioma
che gli scende sugli omeri e sul
dorso:
si stupisce del fatto ch’esso
emerga
con l’inguine di un pesce sinuoso.
Ne avverte lo stupore Glauco e dice:
"Io non sono uno prodigio né
una belva;
sono, vergine, un Nume delle acque.
Né Proteo né Palemone o Tritone
mi vincono in potere, qui nel mare.
Tuttavia fui mortale, prima d’ora:
amavo l’alto mare e pure allora
esercitavo l’arte in mezzo ai
flutti;
ritiravo le reti con i pesci,
o, stando su uno scoglio, regolavo
la lenza con la canna. C’è una
spiaggia
che delimita un prato tutto verde,
della quale una parte scende in mare
e l’altra è ricca d’erba, non
strappata
a morsi da giovenche, né brucata
da pecore mansuete e capre irsute.
L’ape non succhia il nettare dai
fiori,
né i fiori fanno serti nuziali;
mai nessuno le falcia. Sto seduto
sopra le zolle erbose, mentre
asciugo
le mie reti inzuppate, per contare
ed ordinare i pesci catturati:
o finiti per caso nella rete
o, creduloni, penduli dall’amo.
Sembra cosa non vera, ma a che serve
narrare cose false? La mia preda,
al contatto dell’erba, già si
muove
cambia posizione, e poi si rizza
come se fosse in mare. Stupefatto
io rimango in attesa, mentre i pesci
fuggono ad uno ad uno dentro l’onda
e lasciano la spiaggia ed il
padrone.
Io li guardo basito e mi domando
se ciò viene da un Nume o da quell’erba.
E dico fra me stesso: – Quale
forza
può avere questa erbetta? – Con
la mano
ne strappo un ciuffo e mordo con i
denti
il ciuffo che ho strappato. Non
appena
quel succo sconosciuto mi entra in
gola,
sento uno strano fremito nel petto
e un impulso improvviso a
trasformare
la mia natura in altra. Dura poco.
Io mi tuffo sott’acqua mentre
dico:
– O terra, ti saluto: sono certo
che ti lascio per sempre –. Ed ora
i Numi
mi degnano, accettato, dell’onore
comune a tutti, al punto da pregare
ed Oceano e Teti che ogni forma
mi tolgano mortale: da costoro
vengo purificato con un carme
cantato nove volte e liberato
d’ogni mia nefandezza. Poi si
vuole
che affondi il petto cento volte in
acqua.
Subito, da ogni parte, a precipizio
si riversano i fiumi, da ogni parte,
ravolgendomi il capo interamente.
Questo ti posso dire e raccontare
ed è ciò che ricordo, poi che dopo
ogni mio sentimento venne meno.
Ritornato in me stesso, ben compresi
ch’ero un altro nel corpo, tutto
quanto,
non più com’ero prima, e
differente
mi sembrava il pensare. Vedo prima
questa barba verdastra, arrugginita,
la chioma che mi vado trascinando
lungo i flutti marini, e spalle
immense
e braccia tutte azzurre e strane
gambe
ricurve come pinne. A che mi giova
questa forma diversa, a che mi giova
l’esser piaciuto ai Numi delle
onde,
a che l’essere un Dio, se tutto
questo
non t’importa neppure?"
Mormorando
queste parole ed altre, lascia
Scilla
e, furibondo per la sua ripulsa,
va negli antri di Circe prodigiosa.
Glauco e Scilla
- Santi di Tito
Già l’abitante Euboico dell’onda
che tumida si gonfia ha abbandonato
l’Etna, rosseggiante nei crateri
del fiato dei Giganti, e quei
maggesi
degli orridi Ciclopi, che non sanno
a che serva il rastrello, a che l’aratro,
e non devono nulla ai buoi
aggiogati.
Ha superato Zancle e pure Reggio,
che le sorge di fronte, e insieme il
flutto
che annienta le carene e che,
racchiuso
entro due lidi, occupa i confini
della terra sicania e dell’Ausonia.
Attraverso le acque del Tirreno,
che supera a bracciate, Glauco
giunge
ai colli erbosi e agli atrii, tutti
pieni
di svariate belve: è la dimora
della magica Circe, nata al Sole.
La vede e la saluta, ricambiato.
"O Dea, ti prego" dice
"miserere,
miserere di un Nume: tu soltanto
potresti consolare questo amore,
sempre che ne sia degno. Certamente
io conosco il potere delle erbe,
e il potere del Sole, più di ogni
altro,
ché dalle erbe venni trasformato.
Sappi dunque il motivo della rabbia.
Lungo la spiaggia italica, di fronte
alle mura messenie, vidi Scilla.
Qui taccio per vergogna le promesse,
le parole dolcissime spregiate,
perfino le preghiere. Ti scongiuro,
con la tua bocca sacra canta un
carme,
se il carme ha una potenza. Ma se
pensi
che l’erba è più efficace, passa
all’erba.
Ne sappiamo la forza!..Non ti chiedo
di calmare o guarire la ferita:
non voglio che abbia fine; voglio
solo
che Scilla senta parte del
calore".
E Circe (non c’è alcuna che l’ingegno
abbia più adatto al fuoco dell’amore,
o che l’abbia d’istinto o
ricevuto
da Venere, sdegnata con il padre
per l’antica denunzia) parla e
dice:
"Segui meglio una donna che ti
vuole,
che ha uguale desiderio, ed è
compresa
dalla stessa passione. Tu eri degno
d’esser chiesto da lei, sì, lo
potevi.
Se mi lasci sperare, credi pure,
sarai desiderato. Ed ecco io stessa,
pur essendo una Dea, pure se figlia
dello splendido Sole e grande
esperta
e dell’erbe e dei carmi, ebbene io
sogno…
sogno di appartenerti. Te lo dico
affinché non ti manchi la fiducia
e non dubiti affatto della forma.
Tu sdegna chi ti sdegna, e
corrispondi
a chi ti viene dietro: con un gesto
ti vendichi di entrambe". E
Glauco a Circe
che lo tenta in quel modo:
"Prima in mare
nasceranno le fronde, e in cima ai
monti
cresceranno le alghe, che si muti
il mio amore per Scilla, finché
vive".
La Dea s’indigna e sfoga la sua
rabbia
contro la preferita, dal momento
che non può, né lo vuole, contro
Glauco
del quale è innamorata.
Indispettita
per l’amore negato, trita in
fretta
quelle sue erbe infami per estrarne
gli orrendi succhi e recita,
alternando,
i carmi dell’Averno; poi si veste
d’un velo tenebroso. Dalla stanza,
attraverso la schiera delle belve
scodinzolanti, Circe si indirizza
alla volta di Reggio, ch’è di
fronte
alle rocce di Zancle; s’introduce
nell’onda gorgogliante e poggia i
piedi
come se camminasse in terra ferma:
percorre il pelo d’acqua a piante
asciutte.
C’è un angolo di mare chiuso ad
arco,
prediletto da Scilla, quando il
sole,
altissimo nel cielo, rende l’ombra
minima sulla terra; dentro i gorghi
la Ninfa si rilassa, riparata
dal caldo estivo. Circe inquina l’acqua
di veleni pestiferi, la sparge
d’infusi amari, succhi di radici
molto pericolose, mormorando
con la magica bocca strani carmi,
parole ambigue, oscure, ripetute
per ventisette volte. Scilla viene
e s’immerge nell’acqua sino al
ventre,
quando sente che l’inguine è
insozzato
da bestie mostruose, sbraitanti.
Scilla - Fontana di Nettuno -
Messina
Non crede, sulle prime, che le
bestie
sono parte del corpo, del suo corpo,
e cerca di fuggire e allontanare,
atterrita com’è, le bocche
oscene.
Ed invece le attira. Palpeggiando
i femori, le gambe fino ai piedi
tocca musi da Cerbero, non membra.
Si blocca, intimorita dalla rabbia
delle bestie ringhiose, e ne
costringe
i dorsi sottoposti con il ventre
che le rimane e l’inguine
troncato.
Glauco che l’ama piange e insieme
fugge
il connubio di Circe, che il potere
usò dell’erba in modo troppo
ostile.
Scilla resta in quel luogo. In odio
a Circe
coglie il momento buono e priva
Ulisse
di molti suoi compagni. In ugual
modo
ella avrebbe sommerso le carene
dei profughi Troiani, quando un Nume
non l’avesse mutata in quella
roccia
che si vede tuttora. Il navigante
evita questo scoglio minaccioso.
Ovidio
Metamorfosi
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