Alias n. 49,
sabato 13 dicembre 2003, pag. 16 - 19
A
Sirene spiegate Un inno al canto che
incanta
Voci capaci di donare un
piacere sconvolgente, di appagare ogni fame, le Sirene continuano a insorgere
contro la «sordità» dell’uomo, eternamente sedotto e quindi terrorizzato dai
toni «altissimi» del loro messaggio.
Il primo libro sulle Sirene l’ho
dedicato «a Federico Fellini, mostro che mostra e mostrifica, Sirena egli
stesso». Era più giusto, in quanto la spinta iniziale l’avevo avuta quando,
lavorando al film La Città delle Donne, per schermirmi da certe
domande troppo intime che il Maestro mi poneva, gli rispondevo di essere una
sirena.
Questa manovra diversiva si tradusse in ore e ore di ricerche in
biblioteca, una raccolta iconografica, letteraria e musicologica unica al
mondo, e la passione per un tema pieno di risonanze che non si sarebbe mai
assopita.
Un lungo percorso
sonoro
Le Sirene, da Omero ai
pompieri. Il sottotitolo, quasi scherzoso, stava ad attutire la terribile
potenza di un simbolo in perpetua trasformazione, a partire dalle incantatrici
del mare incontrate da Ulisse e narrate dall’Odissea, continuando con le
Partenope, Lighea e Ciana che hanno plasmato le coste campane, la Melusina
occitanica, le Undine germaniche, e le Nixe, la Lorelei e le Figlie del Reno
nel culmine della tensione romantica, le malinconiche Rusalke dei laghi russi,
le sempiterne Mermaid dei racconti celti, la fondatrice di Sirenograd-Varsavia
e quella divenuta l’emblema di Copenaghen, la dea afro-americana Yemanjá, la
Sedna della tundra, e le adescatrici ingabbiate nei cartelli pubblicitari. Un
lungo percorso che sfocia nei segnali sonori che sibilano nelle strade
trafficate: sirene dell’ambulanza, della polizia, dei pompieri. Dalle
Sirene-uccello che il guerriero di ritorno dal genocidio di Troia non ha
seguito, ai segnali d’allarme che avvertono dell’arrivo di ben altri uccelli
portatori di morte e di orizzonti disalberati.
Le Sirene coinvolgono il
senso dell’udito, quello che attiene alla collocazione nello spazio e nel
tempo. Nel tentativo di esprimere, come sempre, una realtà estrema, esse
continuavano a insorgere contro la «sordità» dell’uomo. E l’uomo ha paura del
loro messaggio alto, che esige un cambiamento fondamentale, il salto nel buio,
il rischio di smettere di essere ciò che si è.
Sacralità degli
ibridi
Innanzitutto, le Sirene sono
ibridi. Per metà donne, per metà animali. Esseri dimezzati, con le prerogative
di entrambe le componenti. La compresenza di due identità così disparati non
si dà in natura, appartiene al sacro.
Recenti studi di archeo-mitologia
hanno messo a luce certi ibridi femminili venerati sin dal venticinquesimo
millennio a.C. in Europa e Anatolia. Donne-gufo, donne-rana, donne-serpente
espongono i seni, la vulva, il ventre gonfio: manifestazioni tutte della Dea,
testimonianze di un’epoca scevra di violenza che la cultura del Neolitico,
successivamente, sostituirà con strumenti del sistema patrilineare e
patriarcale quali le armi e la carriola.
La zona di frontiera tra la specie
umana e quella ferina dell’ibrido può arretrare, avanzare, subire
impercettibili spostamenti, variabili all’infinito, verso l’armonia o lo
stridore, verso il sublime o il brutale, dando luogo ogni volta a creature
nuove, ciascuna portatrice di tensioni e reazioni imprevedibili. Si potrebbe
junghianamente supporre che immagini primordiali collettive abbiano una vita a
sé, indipendentemente dai singoli individui. I bambini sognano di animali che
ancora non conoscono o che non esistono nella realtà concreta: ciò che conta è
che questi si muovono, si avvicinano, fuggono, minacciano, e che si rimane
attoniti, ammaliati, impietriti, o li si vince.
Donne-uccello, Orfeo e
Ulisse
Le Sirene dell’antichità
classica sono donne-uccello.
Creature terrene e ultraterrene per
conformazione, legame fra la terra e il cielo. Entità aeree, hanno la
padronanza dello spazio e delle cime, la facoltà di alzarsi in volo e di
sollevarsi in cielo. L’ala rappresenta una sfida alla pesantezza, l’evasione
dalla gravità. Donne fino all’ombelico, pennute dalle cosce in
giù.
Braccia tornite accompagnando le ali. Voci dell’animale nato col dono
del canto, in bocche e respiri di donna.
Mani esperte nell’arte di suonare
gli strumenti musicali, caviglie che si risolvono in grinfie.
La voce, la
musica, quelle erano le loro caratteristiche supreme. Chi non vagheggiava di
udire nel mare la loro voce dolcissima capace di istillare un tale languore,
un piacere così sconvolgente e assoluto di appagare ogni fame e ogni sete?
Otto secoli avanti Cristo, nell’Odissea, il più antico poema nautico
conosciuto, Omero offre la prima testimonianza letteraria dell’incontro tra un
mortale e Le Sirene. L’uomo prescelto non poteva essere altri che Ulisse, già
avvezzo a trovare sulla sua strada apparizioni abnormi, e abile come pochi
nell’eludere le regole stabilite e nell’ordire stratagemmi per ingannare
l’avversario.
Seguendo scrupolosamente i consigli della maga Circe,
otturerà con la cera gli orecchi dei compagni, che non devono sentirle; si
farà legare all’albero della nave con lacci sempre più stretti, in modo da
godere della loro musica, senza rischiare la vita. A lui soltanto, il capo,
spetta l’incontro sovrannaturale. Le Sirene lo tentano con la promessa di
saziare la sua brama di sapere, di lanciarlo a esplorazioni ultime. E poi
sarebbe ripartito libero e felice, perché sapiente.
Sapiente e degno di
memoria.
Cioè immortale, come un dio.
L’incontro con Orfeo, invece,
precedente la vicenda omerica di una generazione, è narrato da Apollonio Rodio
(III secolo a.C.), nelle Argonautiche. Sulla nave parlante Argo, partita alla
conquista del Vello d’Oro, si era imbarcato, tra gli altri, Laerte, padre di
Ulisse. Orfeo, musicista portentoso, aveva il compito di dare la cadenza al
lavoro dei rematori col suono della sua lira.
Ma Chirone il centauro gli
aveva predetto che, in un’azione ben più eccezionale, avrebbe avuto ragione
delle incantatrici del mare. E così avvenne. Rientrati nel Mediterraneo dopo
aver attraversato le sabbie del deserto libico e recuperato il tesoro, gli
Argonauti passano vicino all’isola fatidica. Orfeo sfoggia un suono così forte
da coprire il canto delle Sirene. Ciò nonostante imo fra i membri della
spedizione, Bute era riuscito a udirle e si era gettato fra le onde. Salvato
in extremis da Afrodite sulle rive occidentali della Sicilia, diventerà il suo
amante e fonderà la città di Lilibea, oggi Marsala.
L’iconografia è parca
nel registrare la vittoria di Orfeo sulle Sirene. Invece l’episodio omerico
gode di un vasto riscontro nell’immagine, soprattutto nei dipinti vascolari
corinzi e attici tra i secoli VII e III, nelle statuette etrusche, nelle gemme
ellenistiche, nei rilievi dei sarcofagi romani. Esse sono quasi sempre tre, in
analogia con le Arpie, le Charitas e le Moire, e raramente si presentano in
numero di due come lascia intendere Omero impiegando il verbo al
duale.
Ulisse, capelli ricci, folta la barba, eretto, è legato all’albero
della nave, completamente nudo o col chitone che gli copre appena una spalla;
berretto conico, in qualche caso bardatura da guerriero; muscoli tesi, tutta
la sua attenzione rivolta verso le donne-uccello. Esse appaiono raffigurate
mentre suonano la lira o l’arpa, il diaulós o il flauto di Pan, i tamburelli,
i crotali, i sistri, a indicare la cifra musicale del loro fascino. Non c’era
altro modo per rappresentare figurativamente la voce e la funzione del
canto.
La voce
suadente
La voce persuade, tenta,
promette, si insinua, induce, seduce. Se-ducere significa condurre a parte,
trarre in disparte, far deviare, dirottare, stornare, spostare, divagare.
Costringere al cambiamento. Azioni tutte appartenenti al segreto e al rituale
dato che ciò che seduce non è palese, ma nascosto. La voce delle Sirene
concerne il femminile acquatico e oscuro. Esserne sedotti è ascoltarle
attivamente, soggettivamente, al di là dei sensi.
Dai nomi classici si
desume la qualità della loro voce. Affiancato a una figura rossa di donna
cormorano, un vaso di Vulci tramanda il nome più antico: Himeropa
(voce che provoca il desiderio), che più avanti nel tempo sembra diventare
Eumolpe (che canta bene) e Molpo (l’armoniosa). Successivamente si definisce
una terna: Aglaope o Aglaphonos (dalla voce squillante),
Telxièpeia (il cui canto addolcisce) e Pisinoe (la
suadente).
Quest’ultimo nome viene sostituito con Molpe, e spesso vi si
aggiunge uno nuovo: Ciana (la azzurra) che aveva meritato un tempio a
Siracusa ancora in vigore nel 396 a.C.
La triade più famosa, onorata nella
Magna Grecia e, più avanti, ricorrente negli umanisti, è quella costituita da
Leucosìa o Leucotea (la dea bianca), Lighea o Ligea (la
chiara voce) e Partenope (la vergine).
La musica delle
Sirene
Epifania sonora, voci dolci,
mielate, melliflue, il piacere delle Sirene risiede nell’udito. Forse perché
Omero era cieco, gli occhi sono inutili di fronte al loro mistero. Esse
esercitano il modo di seduzione primordiale: quello del canto, della parola
che canta e incanta. Per questo Platone paragonerà la musica delle Sirene
all’eloquio di Socrate, dal quale occorreva sottrarsi, tappandosi le orecchie,
fuggire, per non invecchiare appresso a una così intensa attrazione. Per
Pitagora la musica, sorella dell’astronomia, regola le stelle, il loro
decorso, il ritmo, l’ordine, l’accordo. Le sfere degli astri mobili effondono
armonia. La musica umana non ne sarebbe che l’imitazione. Entrambe governate
da un rapporto matematico tra la materia vibrante e l’altezza del suono,
indicato da frazioni. Frazioni che esprimono le più grandi scoperte iniziali
in campo acustico e traducono in cifre ciò che i greci consideravano
consonanza.
Quale ruolo svolgevano le Sirene in questo complicato impianto
astonomico-musicale? Se per i pitagorici la musica umana ha la missione di
scuotere le anime ingabbiate nel corpo terreno, stimolando l’amore per le cose
divine, la musica oracolare delle Sirene, rivolta alle anime erranti, accende
in esse la memoria, la nostalgia dei cieli, rendendo dolce il distacco
definitivo.
Platone offre la prima notizia sulla musica delle Sirene,
collegandola alla dottrina delle metempsicosi. È la narrazione di Er, un
guerriero della Panfilia miracolosamente tornato tra i vivi, sulla sua
permanenza nel mondo d’oltretomba. Per prima cosa allude a un prato fiorito,
che ricorda l’isola dove erano ferme le Sirene in attesa dei
naviganti.
Dopo avervi trascorso otto giorni, gruppi di morti si
incamminano per quattro giorni ancora, finché non appare ai loro
occhi la visione di una serie di fusi astrali incastrati l’uno nell’altro.
L’ultimo degli otto, di diamante, posto al centro dell’universo, li
colpisce sol suo bagliore. Il fuso gira sulle ginocchia di Ananke, le dea che
l’orfismo aveva assunto come madre iniziale. La accompagnano le sue figlie, le
tre Moire – Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo l’avvenire - sedute
in cerchio ciascuna su un trono. Fra le quattro dee, in una precisa
geometria, sono disposte le otto Sirene, che cantano rispondendo a
un’armonia unitaria.
Vediamo che le Sirene e le loro musica sono collocate
in un vasto sistema cosmogonico preolimpico, tra le entità femminili che
presiedono al destino dell’universo e dei mortali. Ananke rappresenta la legge
naturale, la necessità; è lei che imprime movimento ai fusi delle sfere, è lei
che determina il numero delle vibrazioni di partenza. Infrasuono, frequenza
inimmaginabilmente grave, puro movimento, che nessun essere della terra è in
grado di udire. Le Moire rappresentano le leggi che regolano la vita dei
mortali, i cui giorni filano, avvolgono in matassa e tagliano. Si potrebbe
congetturare che le Sirene, situate a distanza proporzionale dalle altre
quattro dee e in rapporto doppio di numero, cantassero nelle ottave alte. Più
che una musica vera e propria, una consonanza, l’unisono. Come il carillon
sotterraneo delle montagne di sabbia in riva al Mar Rosso. Come la cascata sul
fiume cinese Heng chiamata La Campana. Come le onde che si infrangono contro
le pareti di basalto della Grotta di Fingal. Come i suoni d’organo delle rocce
dell’Orinoco. Come la crepitazione della statua colossale di
Memnone.
Armonie
cosmiche
Musica del cosmo, ordinato e
armonico per definizione. Musica che – disse Trimegisto – altro non è che
conoscere l’ordine di tutte le cose. Musica che si colloca nel confine tra il
suono primordiale e l’apparizione della cultura, tra il fenomeno fisico della
natura e il linguaggio sonoro diventato pensiero. L’uomo, esorcizzando le
Sirene, autolimitandosi per portarle al silenzio, si è precluso questa
dimensione. Le ha messe a confronto con Orfeo e con le Muse in una tenzone
squisitamente musicale, e le ha fatte perdere. Le Muse le frustarono e le
ridicolizzarono senza pietà. Con le penne strappate alle contendenti si
confezionarono corone che sono l’emblema della «sapienza accademica» Così il
biasimo esemplare cadde sulle incantatrici del mare, che tacquero per sempre,
vuoi perché cercarono la morte, vuoi perché trasformate dalle avversarie in
rocce silenziose.
C’è chi attribuisce un carattere storico all’episodio. La
contesa cioè di dee italiche, le Sirene, e dee elleniche, le Muse, altare
contro altare, con tutta l’animosità che distingue le guerre
religiose.
Miti, leggende e raffigurazioni stanno a testimoniare una svolta
cruciale nella cultura. Il potere nato sul mare viene rovesciato dai nuovi
eroi «nemici delle onde», come li chiama Charles Picard. Il principio
acquatico viene sottomesso a quello terrestre.
Ecco Eracle, il moderno
eroe, che sgomina Nereo, Tritone, e Acheloo, il padre delle Sirene. Ecco le
Muse del monte Elicona che sgominano le incantatrici del mare. Ha preso il
sopravvento un’altra tendenza della musica. Quella che gode di un potere
ordinatore, che domina, che tende a produrre e a riprodurre. Quella che ha
costruito le mura di Tebe, disponendo pietra su pietra al comando della lira
di Anfione.
Quella che, inversamente, ha fatto crollare le mura di Gerico,
per il vigore delle trombe suonate da Giosuè. Si osservi: lira e
tromba.
Non più azione diretta ma tramiti, strumenti, intermediari,
oggetti. Ecco la lira di Orfeo, e lui, dimentico delle sue qualità di sottile
persuasore, usa la forza per ridurre al silenzio le Sirene.
Suggestioni
etimologiche
L’etimologia di «Sirene» si
presenta assai incerta. Dal greco seirios, incandescente, come pure
deteriorabile, e seraphin, ardere?
Dal sancrito sûrya,
sole, o bruciante insopportabile siccità? In questi casi potrebbe esistere un
riferimento al sole zenitale, al mezzogiorno, ora in cui esse
agivano.
Alcuni collegano l’omerico Surie con Sorrento, il cui
nome deriva dagli isolotti dove esse abitavano. Da Sirio, l’astro più fulgido,
situato nella Costellazione del Cane, col levarsi del quale insorge, appunto,
la canicola? O perché, trovandosi quasi sempre basso sull’orizzonte, Sirio
veniva associato al regno d’oltretomba? O ancora in quanto Sirio, al pari del
sole e di altre stelle fisse, era ritenuto la dimora delle anime
perfette?
Vogliamo derivare il termine da un’altra accezione del greco:
seirà, laccio, corda, fune, cintura, e seirazein, legare,
nel senso che le Sirene legano a sé i naviganti, come questi legano a terra i
vascelli? Oppure dall’altro seirazein che significa prosciugare, specie se
riferito all’arsura dei pascoli?
Il latino e le lingue romanze le
chiameranno «Serene», accostandole alla parola serenus, asciutto,
senza nuvole, cielo chiaro e disteso, rispecchiante il mare calmo sul quale
apparivano. Ogni etimo proposto non fa che riconfermare le prerogative delle
Sirene. Un influsso che sembra ubbidire al magnetismo, alla forza
gravitazionale. Un’azione di tirare a sé, sedurre, trascinare, attrarre.
Insirenire, assiderare, rendere siderei siderali. Avvicinare, abbacinare,
abbagliare, illuminare. Legare, stringere, allacciare, annodare, irretire,
fasciare, avvolgere, avvinghiare, affascinare, avvincere. Le Sirene non
vincono: avvincono.
Si racconta che, dopo l’onta recata dalla vittoria di
Orfeo e dalla resistenza di Ulisse, le Sirene si lanciarono in mare con
volontà suicida, e che i corpi delle tre più care furono deposti dalle onde
sulle coste della Campania. I Tre Pizzi (Tre Punte) alla fine dell’amalfitana
Marina del Cantone, ne sarebbero la mutazione in pietra. Si racconta, ma non
deve essere vero: le Sirene, grazie alla loro prodigiosa capacità di
trasformazione, che le rende immorali, sono ancora tra noi.
Le sirene
pesce
Sotto l’influsso di correnti
ascetiche e misogine quali l’orfismo, il pitagorismo e il cristianesimo, il
femminile si carica di connotazioni negative. Verso il II secolo d.C., le
Sirene, da donne-uccello, si trasformano in donne-pesce. Ora il simbolo si è
carnificato. Non gode più dell’astratta dignità che gli antichi filosofi gli
avevano conferito. La parte animale, istintiva, ha preso il sopravvento. Parte
inferiore – comunque la si voglia considerare – che deve essere soggiogata.
Parte bestiale e torbida, sede del peccato, indegna d’amore.
Alle Sirene
viene attribuita una sessualità che era totalmente assente in quelle
classiche. È mediante il sesso che portano l’uomo alla perdizione, alla morte
eterna. Tutte le loro componenti spirituali sono passate ad altri ibridi
alati, gli angeli, dall’indole simile all’anima, privi di sesso in quanto
privi di materia. Gli angeli hanno spodestato le antiche Sirene. D’ora in poi,
il loro canto è l’unico a meritare il qualificativo di divino. Così come
era capitato alle loro sorelle piumate, le Sirene-pesce vengono raffigurate
con strumenti musicali, a sottolineare la loro funzione principale e
inconfondibile. Le vediamo suonare altri strumenti di nuova invenzione: i
liuti e le vielle, le cornamuse e le trombe marine e le viole da braccio, le
arpe e le chitarre, e col tempo, strumenti ben più modesti come le maracas.
Tuttavia, più ancora degli strumenti musicali, più ancora dei pesci, le
conchiglie e i remi dell’ambientazione marina, due oggetti d’ora in avanti
diventeranno inseparabili e le definiranno: lo specchio e il
pettine.
Lo specchio e il
pettine
Lo specchio dell’acqua è il
primo specchio in assoluto. Specchio naturale dell’acqua, specchio artificiale
lastra lucida. Specchio del pescatore, atto a far luce sotto il filo del mare.
Specchio ustorio, che acceca come i fusi platonici di diamante. Specchio
deformante, anzi, metamorfosante. Lo speculum, atto a esplorare le
cavità più buie del corpo della donna. Le Sirene usano uno specchio a
impugnatura, un tondo su una croce, simbolo grafico del pianeta Venere, che è
pur sempre Afrodite Anadiomene sorgente dalle acque, e che in genetica vale a
indicare il femminile. Attributo nuovo nelle mani delle Sirene, che viene a
ribadire la loro appartenenza al mare e il carattere oscuro e insieme luminoso
della loro femminilità.
Le Sirene si specchiano: non conteniamoci di
giudicarlo un gesto semplicemente «civettuolo». Esse si guardono, si
contemplano, studiano il loro volto. Nello specchio si riflette un’immagine
speculare. I verbi riflettere e speculare significano anche pensare, meditare,
indagare, scandagliare, scrutare, operare con l’intelletto allo scopo di
conoscere. E le Sirene, con lo strumento di cui ora si servono per
specchiarsi, possono abbagliare l’uomo. Ancora la parola e l’etimo:
illuminare, mostrare la verità. Si acutizza il senso della vista a scapito di
quello dell’udito, aprendo la via a una rilevante componente di
voyeurismo.
Ora le Sirene sono in grado di sedurre con la sola presenza.
Ora sì è importante guardarle. Il pettine serve per ravviare la loro lunga
chioma, fluente, setosa, sinuosa. È lecito associare l’onda dei capelli
all’onda del mare che, come la materia stessa, procede per moto ondoso, nonché
all’informazione, che si trasmette a onde, sia un segnale sonoro, sia un
impulso luminoso. Disegno ondulato e regolare della sinusoide, suono puro,
luce pura.
Da solari a lunari, da
brune a bionde
L’oro del sole che prima le
infuocava si è concentrato sui capelli. La chioma corvina di una volta non
esiste più. Da brune, le Sirene sono diventate bionde. È mutato il rapporto
con le con le condizioni meteorologiche: ora sono serene nel senso di
serali, vespertine. Dal regime diurno sono passate al regime notturno. Sa
solari, sono diventate lunari. Abbandonato il legame con Sirio e la canicola,
sono andate sotto l’influenza dell’astro freddo. Non più situate nell’eterno
presente luminoso di Ananke e degli otto fusi, ma in una cosmologia più vicina
al paesaggio umano. Ora sono connesse col satellite dalla luce riflessa, che
come uno specchio ripete la luce del sole, e che insieme al sole controlla le
maree. Talvolta gli uomini della terra le confondono con i raggi della luna
riflessi sulle acque.
La luna nasce, cresce, decresce, svanisce nel buio e
risorge, con le stesse scadenze dell’ovulazione femminile. Il mese lunare
coincide con quello della donna; i nove cicli lunari, con i nove mesi in cui
l’embrione immerso nel liquido buio di donna si prepara a venire alla luce. La
luna nera, la faccia occulta e ignota della luna, corrisponde alla donna
oscura, al tenebrore dell’utero. I corni della luna somigliano ai corni della
lira, fra i quali si tendono le budella animali. Corde che suonano al tatto,
strumenti musicali come i corni e le tube, che suonano col passaggio del
fiato. Tube di Falloppio, canali segreti tra le ovaia e
l’utero.
Con una sola coda o
bicaudate
Modello formale trionfante, le Sirene-pesce con una sola
coda sono universalmente note. Esse si affermano sui palcoscenici: ricordiamo
lo scandalo suscitato dal seno nudo di Paola Borboni che impersonava Alga
Marina, e poi la serie delle Miranda pettegole e maliziose
riprese con grande fortuna dal cinema, guizzante la coda argentea ottenuta con
trucchi sempre più efficaci.
Sono queste che ispirano le gioiose sirene
disegnate dai bambini, a dispetto della truce fiaba di Andersen. Qualcuno le
considera l’immagine del cosiddetto «impenetrabile mistero femminile», e non
solo in senso metaforico. Cariche di erotismo dalla cintola in su,
sembrerebbero prive dell’organo sessuale distintivo. Sigillate e
inaccessibili, barricate dall’affilato, l’acuminato e il tagliente delle
squame e delle scaglie. E forse il dubbio che abbiano o non abbiano la
concavità le rende più torbide e inquietanti.
Invece le Sirene a doppia
coda presentano, ai fini della sessualità, la stessa conformazione delle donne
normali. L’iconografia non è da meno quando le riprende in posizioni quasi
ginecologiche, che denotano più un’ostentazione che una
carenza.
Paradossalmente, l’impero delle Sirene bicaudate sono le
cattedrali romaniche, templi di una religione ha sempre sostenuto la verginità
di Maria e che sentirà l’ulteriore bisogno di definire il dogma
dell’immacolata concezione della stessa. Mani anonime di uomo le hanno
scolpite sui portoni, i capitelli, le acquasantiere, gli scranni del coro. Le
hanno ritratte nei mosaici e nelle vetrate. Orientate verso l’esterno della
chiesa, assorte e inesorabili come idoli, quasi fossero l’ultimo avvertimento
al credente che si appresta a entrare nel sacro recinto. Somigliano alla Dea
dalla gambe divaricate del Paleolitico, a nudo il mistero della generazione e
della nascita. O malcelato da gonnellini, cinture frangiate, chiocciole,
fiori. Oppure rimosso come nelle bambole.
Yemanjá e i musicisti baiani
In Brasile, fra le deità
femminili del pantheon yoruba, Yemanjá la sirena occupa il posto più alto. Ha
scelto come fissa dimora Bahía de São Salvador, e precisamente le acque
profonde della laguna di Abaeté a Itapoá. I devoti, nella magica città
nordestina, non si contano: portano al collo, come segno di appartenenza, la
sua pietra color turchese, venerano gli oggetti che la rappresentano quali la
conchiglia, il sasso levigato, il ventaglio di forma circolare, con manico,
dipinto di bianco e con una sirena ritagliata sul lato interno; si vestono coi
suoi colori, l’azzurro e il bianco, le rivolgono preghiere, le promettono di
ripagarla con pegni.
Yemanjá suole manifestarsi ai suoi adepti in transe
con movimenti di danza che imitano le onde del mare. A Bahía il culto popolare
alla mae-d’água è grandioso. La si onora ogni anno, il 2 febbraio, in
una cerimonia di massa, gettando nelle acque simulacri della dea in
terracotta, legno, gesso, stucco, plastica. Partono le rumorose processioni di
barche cariche di statuette propiziatorie, lettere contenenti richieste, e i
doni che la dea predilige: specchietti e pettinini – come le sue antenate
mediterranee e celtiche - , saponette, rossetti, nastri di raso, cesti di
fiori, boccette di lavanda. Se l’oggetto rimane a galla, ahimè, vuol dire che
la Sirena l’ha rifiutato.
Yemanjá irretisce con la forza della sua
femminilità. Non canta, ha sostituito la musica con un semplice grido
caratteristico: Hin-Hi-Yemin. Ascolta il coro degli accoliti che
intona per lei le strofe note a tutti: «Due febbraio, giorno di festa nel
mare, io voglio essere il primo a salutare Yemanjá»… «Yemanjá, vieni, vieni
dal mare»… «Sirena, sirena, andiamo a giocare con l’arena»…«La sirena del mare
è apparsa, la sirena vuol giocare»… O quella toada celeberrima, dagli
echi leopardiani: «È dolce morire nel mar» del poeta Jorge Amado. Sono le
canzoni del baiano Doryval Caymmi, che ha espresso come pochi altri i temi
relativi al mare, dalla barca del pescatore che non torna più a riva, al rito
religioso della dea dell’acqua.
Al di là delle prese di posizione
politiche, delle dichiarazioni di «indefinitezza», dei manifesti estetici,
siano essi antropofagici, avanguardistici o tropicalisti, la brillante
generazione di musicisti baiani capeggiata da Caetano Veloso (l’autrice ha
firmato l’adattamento italiano della sua Janelas Albertas n° 2 –
Finestre aperte -, incluso nel cd I miei tanghi, ndr) e Gilberto Gil è
profondamente fedele a Yemanjá.
Nell’Uruguay, il paese più laico
dell’America Latina, dove le feste tradizionali del calendario cristiano sono
state riscritte in termini non religiosi, la macumba e il candombe non cessano
di conquistare nuovi seguaci. Il 2 febbraio del 1994, i devoti hanno posato
una statua di Yemanjá sulla Rambla Sur di Montevideo, uno dei luoghi più belli
della capitale di fronte al Río de la Plata, río como mar. Nascente
da una conchiglia, le braccia aperte verso mezzogiorno, nel gesto di offrire
gli oggetti del suo culto. Sul basamento è incisa una preghiera in lucumì e
una poesia «Alla liquida dea del vortice e della calma trasparente, sciabordìo
di un canto che annega nella molle dolcezza della sabbia.»
Somatizzazione
In questi paesi del Sudamerica
erano emigrati i miei, milanesi, materialisti, laici, anarchici, antifascisti,
anticlericali di vecchio stampo (religione-oppio-dei-popoli) dalla coerenza
granitica. Lì sono cresciuta, figlia unica. Alla morte di mio padre, mamma si
è trasferita in Italia, a vivere con me; la mandava in bestia che io mi
interessassi di Sirene, «quelle stupidaggini inutili». Non ha fatto in tempo a
vedere le mie fratture alle gambe, gli interventi chirurgici ai piedi, tutte
quelle azioni ripetitive agli arti inferiori che ho superato con ironia e che
qualche medico ha diagnosticato come «somatizzazione a sirena».
L’ultimo
mio lavoro si intitola Il Libro delle Sirene. Ho sentito il bisogno
di scrivere una nuova dedica: «A mio padre e a mia madre che, uno a Montevideo
e l’altra, anni dopo, a Roma, sono morti un due febbraio, il giorno della
Sirena Yemanjá». Dopodiché sono tornata a Bahía, in quella data, a rendere
omaggi ai miei, lanciando due tuberose al mare. Yemanjá le ha subito nascosto
tra i flutti, dimostrando così di averle gradite.
Meri Lao
Meri Lao ex pianista
classica, compositrice, docente di Storia della musica e del teatro,
commediografa, ha scritto libri come Basta (1967); Cuba Rìe (1972), Tempo di
Tango (1974), primo di una serie sulla musica rioplatense; Cile: il canto
resisterà (1974); Trovatori dell’America Latina (1976); Musica strega (1976);
Hasta Siempre (1977); Donna canzonata (1979); Le Sirene, da Omero ai pompieri
(1985). Nel 2000 ha pubblicato la nuova versione di quest’ultimo testo: Il
Libro delle Sirene (Di Renzo Editore, Roma, pp 220, 233 foto b/n, 40 foto
color fuori testo)
merilao@iol.it, www.sirenalatina.com,
direnzo@mclink.it
Non più sul web
www.colapisci.it
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