Cola Pesce Colapisci: l'uomo che diventa pesce per necessità o per scelta I ricordi di Colapesce: Fatti e leggende di mare


Il pescatore e il gigante

Un pescatore trasse, un giorno, dall’acqua marina in cui aveva immerso la rete, un vaso di rame, ben tappato. Lo aprì illudendosi di trovarvi dentro un tesoro, ma con sua maraviglia, dal vaso non uscì che fumo. Il fumo, a poco a poco, si solidificò e assunse la forma di un uomo altissimo e robusto.

- Preparati a morire – tuonò la voce del gigante.

Il pescatore era disinvolto e non mancava di coraggio.
- Di che dunque m'incolpi? – domandò.

- Di avermi tolto dal ricettacolo in cui, molti secoli fa, per punirmi della condotta empia, mi fece chiudere il re Salomone.

- Scusa, ma mi sembra proprio che il tuo raziocinio zoppichi. Ti ho liberato, e vuoi punirmi?

- Ecco: durante il primo secolo della mia prigionia pensavo: "Offrirò ricchezze inestimabili a colui che aprirà il vaso e mi renderà la gioia dell’aria e della luce". Passava il tempo, e io ero sempre dentro l’involucro di rame. "Al mio liberatore" decisi nel secondo secolo "offrirò un sacco di brillanti". Ma passava il tempo, e io continuavo a star chiuso nell’angusta prigione. Giunse il terzo secolo del mio castigo: "Se avrò la felicità di uscir dal vaso" andavo dicendomi "a colui che mi toglierà da questo odiosissimo recipiente vorrò dimostrar la gratitudine soddisfacendo tre suoi desideri". Ma il tempo passava senza che la sorte mi concedesse il sospirato sollievo. Allora diventai aspro. "Non più doni" decisi "Non più gratitudine". E feci un giuramento: "Ucciderò chi aprirà il vaso". L’hai aperto tu, il vaso. Preparati, dunque, a morire. I piagnistei sono inutili. Potrò, se mai, concederti di scegliere la fine che preferisci.

Il pescatore cercò di salvarsi con la scaltrezza, e mostrando stupore, disse:
- Come? Vuoi farmi credere di esser uscito tu, cosi grande, da questo piccolo vaso? Non raccontarmi fandonie, vecchio mio.

- Io non racconto fandonie.


- Dichiararlo è facile. Ma riusciresti a dimostrarmelo?

- Certo proclamò il gigante.

Si ridusse di nuovo in fumo e rientrò nel recipiente.
- Vedi che ho ragione – disse.


Il pescatore, svelto svelto, rimise il tappo al vaso, esclamando:
- Amico, adesso resta lì, che io ti scaglio nel mare.

- Ti prego, non farlo – implorò il gigante.

- Vuoi che ti liberi, per aver la soddisfazione di venir ucciso? Non sono cosi babbeo!

- Ma non ti ucciderò. Prima scherzavo. Hai un brutto carattere tu, non sai stare agli scherzi. Apri, ti prego. Ti ricompenserò facendoti diventare ricchissimo.

Il pensiero della ricchezza scosse il pescatore, finì per convincerlo. Cosi, dopo aver preteso un giuramento di lealtà dal prigioniero, tolse il coperchio del vaso. Dalla breve bocca metallica uscirono grigie ondate di fumo, che poi si condensarono, concludendosi nella gran forma umana.
Il gigante si mostrò subito benevolo.
- Prendi la rete e seguimi – disse.

Il pescatore non si fece ripetere l’invito. I due percorsero una lunga strada, attraversarono valli boscose, valicarono un colle e giunsero in una pianura immensa, limitata ai quattro punti cardinali dai baluardi di quattro montagne. In mezzo alla spianata brillavano le acque chiare di uno stagno.
II gigante si fermò.
- Guarda – disse al pescatore – guarda che splendidi pesci.

Il povero uomo non aveva mai visto una simile maraviglia. Pesci rossi, azzurri, gialli e bianchi guizzavano nell’acqua immobile.

- Getta la rete – ordinò il gigante.

Il pescatore ubbidì. Trasse dallo stagno quattro pesci: uno rosso, uno azzurro, uno giallo e uno bianco.

- Sei contento, eh – rise il singolarissimo personaggio. – Vai a portarli al sultano e vendiglieli, Avrai una lauta ricompensa. Puoi ritornare qui quando ti piace, ma non dovrai pescare più di quattro pesci al giorno.

I due poi si salutarono e se ne andarono per i fatti loro: uno di qua e uno di là. Il pescatore, attenendosi ai consigli del gigante, si recò dal sultano. Il quale, quando vide gli splendidi pesci, offrì all’uomo una forte ricompensa, poi mandò a chiamar la cuoca.
- Che ne dici di questo miracolo?
 

- Non immaginavo che esistessero pesci simili.

- Cuocili. Se sono buoni come sono belli, gusterò un cibo ghiottissimo.


La donna, ritornata in cucina, pulì scrupolosamente i pesci, poi li mise a cuocere in una larga casseruola.
Dopo un certo tempo, pensando che da una parte fossero cotti, li rigirò perché cuocessero anche dall’altra parte.
Allora avvenne un prodigio: una parete della cucina si aperse, e apparve una dama bellissima, vestita di raso, che teneva in mano una bacchetta.
Ella si avvicino alla casseruola e colpì uno dei pesci, dicendo:
- Dimmi: fai il tuo dovere?

Non ebbe risposta e ripeté la domanda.
I quattro pesci, allora, sollevarono le teste e risposero:
- Allontanati, e noi saremo contenti.

La dama rovesciò la casseruola sulla brace; poi disparve e tutto ritornò come prima. I pesci, cadendo nella brace, si erano carbonizzati. La cuoca, commossa, per ciò che aveva visto e udito, corse dal Gran Visir.
- Capita così e così – e gli raccontò ogni cosa per filo e per segno.

Il Gran Visir si recò dal monarca per narrargli il fatto sbalorditivo.
- La cuoca è pazza. Non posso credere alle sue fandonie – disse il sultano.

Ma, pur non confessandoselo, provava una vivissima curiosità. Mandò a chiamare li per li il pescatore.
- Desidero quattro pesci identici a quelli che mi hai portato prima.

- Domani li avrai.


Il giorno dopo infatti il buon uomo portò i pesci. Bellissimi. Uno rosso, uno azzurro, uno giallo e uno bianco. Il monarca lo ricompensò in modo assai generoso. Poi, lui stesso volle recarsi in cucina per assistere al lavoro della cuoca. Si ripeté, con grande esattezza, il prodigio del giorno prima.
"La faccenda, certo, non è semplice" meditò il sultano, e decise di far lume sul fatto inesplicabile. Mandò a chiamar di nuovo il pescatore.
- Dove peschi i bellissimi pesci che mi porti?

- In uno stagno. È lontanuccio. Bisogna camminar molto per giungervi.

- Vorresti accompagnarmi lì?

- Certo.


I due uomini raggiunsero la vasta pianura limitata dalle alte montagne. Il sultano vide lo stagno e, dentro lo stagno, i pesci meravigliosi rossi, azzurri, gialli e bianchi
"Come mai" pensò "non sapevo che esistesse, a pochi chilometri di distanza dalla reggia, un simile luogo? Qui deve esserci qualche incantesimo. Voglio scoprirlo".
Diede una forte somma al pescatore e gli disse:
- Amico mio, puoi andartene? Io rimango qui. Devo esaminare con attenzione questa plaga sconosciuta del mio regno.

 

 

Rimasto solo, si diede a camminar perplesso nella gran pianura. Raggiunse una montagna, ne conquistò il culmine e, discendendo dalla parte opposta, vide uno splendido palazzo di marmo nero. Varcò la porta spalancata e si trovò in un atrio superbo.
In fondo all'atrio risplendeva una scala d'oro.
Ma possibile che la splendida casa non fosse abitata?
Il sultano visitò le sale, le camere; salì, discese, trascorse corridoi interminabili, ispezionò le terrazze aeree delle torri, ma non trovò anima viva.
"Temo"
pensò infine "di non riuscire a sciogliere questo buio enigma".

Si accingeva a uscire dal palazzo nero, quando lo colpì un lamento.
"Qualcuno vive dunque, qua dentro" pensò "E, se non sbaglio, soffre".

Si diresse verso il luogo da cui partiva il lago. Nell’ombra azzurrognola di un piccolo salotto, un uomo giovane, ricoperto di un manto di damasco, lo guardò con stupefatta maraviglia.
- Come hai osato, uomo, entrar nel palazzo tragico del silenzio?

- Mi ha spinto fin qui il desiderio di scoprire un segreto.

- Parla.

- La mia sorte è terribile.

- Ma perché te ne stai immobile in questo salotto, in questo palazzo?

- Purtroppo – spiegò il poveraccio tra le lacrime – non posso muovermi.

Si tolse il manto, poi seguitò:
- Vedi? Dalla cintola in giù, il mio corpo è di marmo. Solo la parte superiore è viva. Sono vittima di un incantesimo.

- Poverello! – si commosse il sultano – E non puoi liberarti da codesta situazione angosciosa?

- No, purtroppo. Mia moglie e una perfida strega. Mi ha imposto una sorte tragica e non pensa, certo, di alleviar le sofferenze che mi torturano.

- Se conoscessi la tua storia, mi sarebbe possibile, forse, aiutarti.

- La mia storia?Il giovane parlava faticosamente, con voce bassa. La mia storia... Ecco:
"Ero il re delle Isole Nere. Le isole emergevano dalle acque blande di un lago luminoso e vastissimo.
Fiorivano in esse città fervide di lavoro, splendide e gaie, con stupendi palazzi, con giardini, broli, fontane e viali. I sudditi mi amavano e anch’io amavo i sudditi.
Nella mia esistenza, perciò, non c’erano nubi.
M'innamorai di mia cugina, una giovinetta orfana, intelligentissima e leggiadra, e la sposai. Dopo le nozze venne ad abitar nella reggia anche l’unico fratello di mia moglie.
Lo credevo un giovane virtuoso, ma dovetti accorgermi, purtroppo, ch’egli, d’accordo con la regina, spiava l'attimo propizio per uccidermi.
Era estremamente ambizioso e sognava di salir sul trono in mia vece. Scopersi la perfida trama, e un giorno irruppi nella stanza dove mia moglie e il suo malvagio fratello complottavano contro di me.
Il carteggio dei colpevoli è un documento ch’essi non riuscirono a sottrarre alle mie indagini mi convinsero che le informazioni avute da certi amici non erano false. Trassi la spada dal fodero e mi scagliai sull’uomo. Ma non lo uccisi, riuscii soltanto a ferirlo. Mia moglie, folle di collera e di odio, rivelò in quel momento la sua identità. Era una strega. Urlando parole magiche, ridusse il mio regno, le quattro isole ridenti, a quattro montagne aspre. Disparvero i palazzi, i giardini, disparve la vita.
Il bel lago lasciò il posto a una gran pianura, su cui il capriccio della perfida regina aperse l’occhio malinconico di uno stagno. E tutti i sudditi diventarono pesci: pesci rossi, azzurri, gialli e bianchi. Delle splendide città, di cui andavo orgoglioso, non restò in piedi che la reggia, questo palazzo di marmo nero.
La strega, dopo aver pietrificato una parte del mio corpo, mi disse, con sarcasmo: "Sei sempre re. Abiti la splendida casa dei tuoi avi e porti il manto sontuoso. Se vuoi vedere i tuoi sudditi, recati sulla riva dello stagno"
. Capisci? Mi beffava.

- Ma dov’è l’infame donna?

- Ai piedi di questa montagna, nascosto tra gli alberi di un boschetto, c’è un palazzo di madreperla. Mia moglie vive laggiù, curando suo fratello che, per via delle ferite ch’io gl’infersi, non e più in grado di parlare. La strega, che ogni giorno viene per insultarmi e per picchiarmi, dice che l'infermo, il quale senza i suoi filtri magici sarebbe morto, non sopporta la luce. La camera in cui trascorre, adagiato sopra un letto sontuoso, la miserabile esistenza, deve essere sempre immersa nel buio più fitto.

- Ho un’ideadisse il sultano. – Forse riuscirò a liberarti.

- T’illudi. In ogni modo la tua bontà generosa mi conforta.

- Quando verrà tua moglie?

- Fra poco. Le sue visite hanno un orario fisso.

- Coraggio. Io vado a svolgere un certo programma.

Il monarca, camminando con cautela, raggiunse il bosco che stava ai piedi della montagna. La casuccia di madreperla splendeva tra il verde degli alberi, solitaria.
Il sultano si cercò un nascondiglio da cui potesse, senza esser visto, tener d’occhio il portone della casuccia. Scorse, così, la perfida donna uscir dal palazzetto e avviarsi verso la reggia. Per un poco, temendo che la strega potesse ritornare indietro, restò immobile. Poi, con cautela, raggiunse la casuccia di madreperla, entrò dalla porta spalancata. Non gli fu difficile trovar la camera buia in cui stava il fratello dell’infame donna.
Camminando a tastoni, si avvicinò al letto, toccò il corpo sudaticcio dell’infermo e lo trafisse mortalmente col pugnale. Poi, risoluto, agguantò il cadavere e andò a nasconderlo tra gli alberi. Infine prese il posto del morto nel letto della camera buia.
La strega, al suo ritorno, non sospettando la sostituzione, disse:
- Non immagini, fratello mio, come io desideri udir la tua voce. Parla, liberami dall’incubo di questo spaventoso silenzio.

- Io soffro troppo– si lamentò il sultano.

- Tu parli. Ecco, tu parli. Le tue sofferenze finiranno presto.

- Non finiranno.

- E perché?

Il monarca si esprimeva con voce lenta, fievole:
- Non finiranno fino a quando non avrai liberato dall’incantesimo tuo marito e il tuo popolo.

- Ma che c’entrano mio marito e il mio popolo?

- C’entrano. Chi fa male, ha male. - Corro allora a spezzare il cerchio magico.

- Bene. Poi ritorna subito. Ti dirò qualche cosa che riuscirà a rallegrarti molto.

La strega si precipitò alla reggia e, con quattro misteriose parole, liberò il re dal suo supplizio. Poi salì sull’alta torre del palazzo e con gridi acutissimi sciolse l’incantesimo che aveva reso infelice tutto un popolo. Le acque dello stagno si agitarono, salirono, ricopersero la vasta pianura, e il gran lago splendette di nuovo attorno alle quattro isole su cui erano riapparse le città bellissime. I pesci ripresero le sembianze umane e la vita ritornò a fervere nel regno. La strega raggiunse poi il sultano che credeva suo fratello.

- L’incantesimo è sciolto, mio caro. Tutto è a posto ora.

- Brava, sorelluccia. Avvicinati, voglio darti un bacio.

La, donna si chinò, e il monarca, maneggiando abilmente la spada, le troncò la testa. Ormai il giovane re e il suo popolo onesto e alacre non avevano più niente da temere.
Quando il sultano, dopo le feste date in suo onore, si accinse a ritornar nella propria reggia, si accorse che le sue terre erano lontanissime, oltre i monti, oltre il mare.
Il sovrano delle Isole Nere, che provava per lui una profonda e affettuosa amicizia, volle accompagnarlo in patria. E qui conobbe la giovane splendida figliuola del suo salvatore.
I due giovani si amarono subito e, dopo poco tempo, si sposarono.

 

   

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