Che
colpa ho se il fuoco blasfemo di questa terra amara ha ormai incenerito
il piedistallo di pomice su cui poggi e l’incrinatura della colonna che reggi si è conficcato
nelle tue carni, straziandole fino a farle sanguinare,
se i vecchi mostri marini sono riemersi dai remoti meandri
della mente in cui pensavi di averli relegati per sempre, come memoria
di graffiti disegnati da preistoriche mani,
se il fondale marino in cui ci troviamo è lambito, in questo
momento con inaspettato furore, dal turbine di insane correnti che ci
paralizzano nella palude dei ricatti e dei doveri, strappati alla nostra
vita da cuori sciacalli,
se il destino mi ha condannata
Medea, furente e dolente creatura, rapita e abbandonata nell’infelice mare dei viandanti di
vita tenebrosa,
se il candido riflesso lunare, in queste notti matrigne, è
offuscato dalla densa e fredda nebbia novembrina, risalita dagli angoli
gelidi del cuore dove nessuna carezza materna, immersa nell’oblio dell’esistenza,
è riuscita ad arrivare in tempo,
se la dolcezza della donna che è in me ora non riesce a
guarire le piaghe che sono state aperte nelle tue palme dalle delusioni
di incontri svaniti, dalle illusioni smorzate da calcolati imprevisti,
dai desideri accesi da certezze evanescenti,
se le mia anima disperata, a cui ti sei aggrappato, non ha la
forza di reggere anche la tua disperazione.
Che
colpa ho se ho bisogno dei venti di scirocco.
Mio
dolce giaciglio,
mio
tenero rifugio,
mio
amorevole riparo.
Medea
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