Vorrei chiamarti “amore
mio”,
ma non ho spazio tra i fonemi dell’anima.
Così, vagheggio in solitarie idee
e volteggi di ipotesi,
sperimentando l’innesto con la ridondanza
di giornate colme di me e vuote di te.
Faccio passi
e ripasso a memoria
l’incalcolabile destino
di un affaccio alla finestra
per guardare la mia staticità.
Conto il movimento degli altri
e non mi trovo nei loro tornanti compulsivi,
né nella tua apparenza,
a volte invadente di domande.
In limine ti osservo,
risarcisco il mio tempo con un racconto
e scivolo via
tra le foglie sbattute in faccia
da un vento immaginato.