L'Unitá d'Italia - La battaglia di Messina

Messina, con numerosi forti (San Salvatore, Don Blasco, Real basso, Rocca Guelfonia, Castellaccio, Gonzaga) e la superdifesa della Real Cittadella, restava l'ultimo baluardo borbonico per il processo d'unificazione.


Il 21 luglio 1860, il generale Borbonico Clary, che si era rammaricato per non essere stato mandato a difendere Milazzo, ricevette l'ordine di sciogliere le truppe di stanza a Messina per imbarcarle verso le Calabrie.

Il 27 luglio, il generale milanese Giacomo Medici attaccò la città e ne prese possesso, senza ricevere grandi resistenze. Poco dopo lo seguì Garibaldi.
Restavano, però, da espugnare i forti Castellaccio, Gonzaga insieme ad altre fortificazioni, e soprattutto la Real Cittadella, una imponente struttura difensiva in cui  si erano riuniti i soldati.

Obbedendo agli ordini di re Ferdinando, il generale Clary fece imbarcare 11.000 uomini per le Calabrie, ma, disobbedendo in parte, lasciò a presidio del forte 4.000 soldati. Per questa sua decisione, il 9 agosto Clary venne richiamato, con biasimo, nella capitale e fu sostituito dal generale Fergola.
Il generale sabaudo Chiabarrea offrì subito a Fergola la possibilità di arrendersi, ma  quest'ultimo sostenuto dal re rifiutò e rimase a difesa della Cittadella.
Fra assalti,  resistenze e tregue la situazione non mutò fino all'arrivo dei rinforzi sabaudi: 4 battaglioni di bersaglieri, 6 compagnie di Genio militare, 1 reggimento di fanteria, 43 supercannoni e 12 mortai, tutto al comando del generale Cialdini.
Il generale sabaudo intimò nuovamente la resa a Fergola, asserendo che se avesse resistito non gli avrebbe riconosciuto la condizione di diritto alla guerra e l'avrebbe considerato un vile assassino.
Fergola con determinazione negò la resa, con l'intenzione di difendere solo ciò che era rimasto: l'orgoglio di combattere valorosamente.
Tutte le fortificazioni della città furono messe sotto assedio e il giorno 8 marzo i Borbone aprirono il fuoco sulle postazioni piemontesi e tentarono l'assalto in prossimità di qualche forte, ma i bersaglieri e altre milizie ne impedirono la riuscita.
La reazione piemontese fu violenta, la cittadella venne quasi completamente distrutta, mentre la resistenza cedeva nel morale e, con la mancanza munizioni ed alimenti, la situazione volse al peggio.
Fergola constatato che l'onore militare era salvo e che c'erano da proteggere fanciulli e donne, decise insieme al comitato di difesa la resa, che venne siglata a bordo della nave Maria Adelaide.
Il  13 marzo, 8 mesi dopo la presa della città, il Generale Cialdini entrò nella Cittadella, senza però riconoscere l'onore delle armi al generale Fergola.
I borbonici lasciando la cittadella tolsero tutti gli stendardi, che furono ritagliati in piccoli pezzi, ognuno dei quali fu consegnato a un soldato. Ciò impedì ai piemontesi di potersi appropriare delle bandiere, così come avevano richiesto a Torino.