Mundus subterraneus
in XII libros digestus
Liber secundus Technicus De admirando Globi Terreni opificio
Caput II
De horrendis Terraemotibus anno 1638 in Calabria exortis,
quibus quatuordecim dierum spacio Author magno vitae suae periculo praesens,
ejus occasione magna.
Naturae arcana didicit
Libera traduzione
Io, dunque, nell'anno 1638, con una barca noleggiata a due
religiosi del terz'ordine di S. Francesco, e ad altri due laici, partiti da
Messana il 24 marzo, giungemmo nello stesso giorno al promontorio di Peloro,
Sicilia, dove abbiamo sostato per tre giorni al riparo del maltempo, come tutte le persone del posto, e il vento sembrava cospirasse
contro di noi.
Ma tutte queste cose erano solo il preludio delle future tragedie;
più e più volte tentammo di partire, ma invano, ricacciati sempre nello
stesso luogo dalla riluttanza del mare, e poi dalla nascosta mano di Dio,
come è apparso in seguito pentendoci, che ci ha impedito di partire; che se
ciò non fosse stato fatto, saremmo rimasti tutti nella tomba di S. Eufemia,
dove ci affrettavamo e dove pensavamo di fermarci qualche tempo per affari;
da questa meravigliosa disposizione della Divina Provvidenza, abbiamo
imparato che un uomo tante volte non sa cosa sta chiedendo e quanto sono
vane e periture le disposizioni degli uomini se non sono sottomesse e
sostenute dalla volontà divina.
All'alba, dunque, del sabato delle Palme, che era il 27 marzo, noi, stanchi
del lungo ritardo, decidemmo di forzare la partenza. In quello stesso giorno
il mare era più turbolento del solito, e nei grandi luoghi intorno a Scilla,
particolarmente infami per tanti naufragi, i mulinelli provocarono un
trascinamento vorticoso, tanto che non solo noi, ma anche la maggior parte
dei marinai fummo colpiti da una paura insolita.
Pertanto, con la corrente marina contraria, in questa fase ci siamo diretti
e verso Tindari o Milazzo, affinché potessimo essere trasportati dalla
corrente verso oriente, con un passaggio più breve e più diretto, attraverso
il Golfo di questi paesi alle rive di Calabria.
Giunti a metà strada, tra Lipari, Milazzo e il promontorio del
Vaticano, guardai più attentamente l'Etna e lo Stromboli, e li vidi
eruttare, oltre il solito e in mezzo ai monti, enormi palle di fumo che,
essendosi diffuse in lungo e in largo sulle Lipari e sulla Sicilia, la vista
era del tutto tolta ai nostri occhi: accrescevano la paura del sotterraneo,
come certi brontolii che percepivamo e schianti con odore di zolfo, che non
so quale fatale e fatale sussulto della distruzione dell'intera Calabria e
Sicilia stavano preparando e sembravano aver cospirato tutti insieme.
Io, atterrito da probabili imminenti calamità di tal genere, esortai con
tutti i mezzi e preghiere che potevo i marinai, che lasciassero la foce
delle Lipari e si dirigessero dritti verso il promontorio Vaticano,
aggiungendo che eravamo in grave pericolo, col rischio di essere trascinati
via dalle turbolenze marine , e di prendere una rotta irrecuperabile.
Infatti, quando giungemmo vicino a Stromboli non lo vedemmo, poiché era
coperto da fumo e sentimmo solo il forte odore di zolfo che esalava.
Tutti noi eravamo stupiti dal mare che ribolliva come fosse acqua bollente e
dal cielo che restava limpido e sereno, oltre che da altri fenomeni simili.
Chi ha mai visto un lago nella stagione delle piogge, ribollente di
innumerevoli bolle, potrebbe capire il fervore dell'ebollizione del mare di
quel momento.
Inoltre, quando fummo già accostati al Vaticano, e avendo ancora gli stessi
sintomi del mare, io, come se prevedessi future calamità, costringendo la
mia mente da un inconsueto malessere, apertamente predissi ai miei compagni
che presto sarebbe seguito un grande terremoto. Avevo molta paura che
l'intero tratto di rocce a strapiombo cadesse e di conseguenza non ci siamo
avvicinati troppo. Infine, con grande gioia alla fine siamo atterrati.
La scelta si rivelò propizia, perché dopo circa due ore venimmo a sapere che
gran parte di questo promontorio era caduta, insieme alle vicine abitazioni.
Nel frattempo, proseguito il nostro viaggio, siamo approdati a Tropea
incolumi e con grande gioia.
Inconsapevoli dei pericoli a cui poco prima eravamo scampati a mala pena nel
mare tumultuoso, non potevamo neppure sospettare che non sarebbe stata la
prima volta a rischiare di morire, anche se siamo stati vicini alla morte
con quel cielo spettrale e con quella nuvola di fumo.
Infatti, avevo appena varcato la soglia del nostro Collegio, quando, ecco,
fu sentito sottoterra un formidabile rumore e uno strepitio simile a dei
carri mossi a grande velocità, e vi fu un violento e terribile terremoto,
tanto che il Collegio, insieme alla Città e al monte sottostante, sembrava
essere in bilico.
La terra tremò con un movimento così violento, che io, non potendo più
reggermi in piedi, improvvisamente mi prostrai a terra con la con la faccia
china, e, venendomi in mente quelle cose che avevo previsto e che stavo
vivendo, raccomandai incessantemente l'anima a Dio, pensando fosse giunta
l'ora della mia morte.
Oh, come in questo punto di angoscia tutte le gioie del mondo andarono
perdute; quando, con un colpo d'occhio, tutto l'onore, la dignità, il
potere, la saggezza, non c'era altro che fumo, vedevamo portare via le
sterpaglie dal vento; sulla soglia dell'eternità mi preparai a consegnare
l'anima, liberata dai suoi legami corporei e dai vincoli di una vita
incorruttibile, ed ad affrontare la morte; cosa che ovviamente sarebbe
accaduta proprio in quel momento, se non fosse stato per mezzo di Dio, il
più buono, il più grande.
Mi parve che, essendo stato io stesso preservato per sua grazia dalla caduta
delle mura, mi destinasse a sopportare cose più dure per l'onore e la gloria
del suo Nome.
Mi perdetti in questi pensieri, sopraffatto dallo schianto delle tegole che
cadevano e dallo sgretolamento dei muri fatiscenti, mentre cercavo di capire
da che parte fuggire, o come mettermi in salvo, non potendo vedere dove
c'era minaccia di crollo.
Tuttavia, scappai con animo ritrovato, anche se stordito, e, tornato in me
stesso, mi trovai senza cappuccio e mantello; dopo averli recuperati, fuggii
senza indugio dalla città e andai al nostro accampamento; con la stessa
afflizione d'animo, sia i nostri padri, sia quanti li accompagnavano,
lavoravano, mentre ognuno, preoccupato per la propria salvezza, si sforzava
di confrontarsi come meglio poteva, avendo perso ogni facoltà ed essendo
muto e privo di ogni uso della voce.
L'indomani, che era la Domenica delle Palme, riprendemmo il nostro cammino,
mentre il mare ribolliva e si gonfiava in modo strano, e arrivammo vicino
alla baia di Rocchetta tirammo in secco la barca.
Ma, l'agitazione della terra riprese subito con forti scosse parossistiche,
tanto che decidemmo di rimettere la barca in mare, a causa del grande
pericolo che ci minacciava e dell'intollerabile furia della Terra che si
sarebbe ripresentata.
C'era lì una casa vicina, adatta a ricevere ospiti stranieri, nella quale ci
ritirammo per riposarci un po'; ma il tremore della terra si ripresentò. Io,
prevedendo la gran rovina che poteva abbattersi su di noi, dissi apertamente
che chi voleva mettere al sicuro la propria vita tornasse con me sulla
spiaggia. Convinta da queste parole, la comitiva uscì da casa e mi seguì.
Per circa mezz'ora rimanemmo sulla spiaggia, quando, ecco, che ancora una
volta la terra tornò a muoversi con maggiore ferocia del solito, e molti dei
luoghi circostanti e la locanda, che avevamo poco prima abbandonata, vennero
scossi da un violento sussulto, lasciando solo un mucchio di sassi e calce.
Stremati, quindi ragionando su cosa avremmo potuto fare, ci siamo rivolti
Divina Maestà, che per motivi a noi sconosciuti, ci aveva liberati da sì
imminente pericolo.
Mentre cercavamo il luogo, adunque, in cui potessimo conservarci sani e
salvi da tanto attività della terra, andando avanti giungemmo a Pizzo, a
metà strada tra Tropea e Castel S. Eufemia, dove, avendo il favore dei
venti, potemmo attraversare il golfo, affrontando da una parte le vorticose
correnti marine e dall'altra le immense rovine di castelli e villaggi, ma,
non sapendo da che parti girarsi, tutto ci incuteva una paura incredibile.
Mentre eravamo sballottati da queste calamità, ho guardato con più curiosità
Stromboli, che era a circa 60 miglia di distanza, e ho notato che era attivo
in modo insolito, perché sembrava essere completamente coperto dal fuoco, in
una quantità così grande che le montagne sembravano eruttare fiamme, uno
spettacolo orribile da vedere e da temere per quanto intrepida possa essere
la forza d'animo.
Frattanto si udiva in lontananza una specie di rombo di tuono, ma, a causa
della grande distanza da cui proveniva, si percepiva un po' più cupo, che
però aumentava sempre di più nei cunicoli sotterranei, fino a raggiungere il
sottosuolo su cui eravamo, scuotendo la terra con tale ruggito e violenza
che, non potendo più reggerci in piedi, fummo costretti a sostenersi
aggrappandoci a quanto si poteva
In questa stessa ora avvenne un fatto degno di eterna e immortale memoria,
cioè la distruzione della città più famosa, chiamata S. Eufemia. Questa era
situata sull'estrema sponda del golfo, sotto la giurisdizione dei Cavalieri
di Malta.
Quando, dunque, giungemmo a Pizzo, a causa del violento scuotimento della
Terra, ci buttammo a terra come anime morte; finalmente, si calmò il
parossismo della Natura e ci fu possibile gettare lo sguardo sui luoghi
circostanti. Vedemmo una gran nebbia che circondava il paese poco prima
citato, e alle tre del pomeriggio il cielo si presentava stranamente limpido
e sereno. Ma appena si dissipò la nebbia, cercammo la città, ma non la
trovammo e, strano a dirsi, al suo posto si formò un lago purissimo.
Chiedemmo a delle persone se avessero notizie certe dell'insolito
avvenimento, ma non furono in grado di dare risposte per il terribile
evento e per una così grande distruzione. Rimasti attoniti da questo
spettacolo della natura e presi da una paura incredibile, percuotendoci il
petto con i remi, implorammo la Divina Misericordia, aspettandoci presto la
stessa sorte o il giorno del Giudizio Universale.
Finalmente confortati ed espiati dal sacramento della penitenza, con guida
Divina ci indirizzammo, tra le onde gonfie del mare, verso un'altra
spiaggia. Sbarcati, cercammo di nuovo uomini, ma tranne un ragazzo seduto su
la riva e in preda allo stordimento, non fu trovato nessuno; quando gli
chiedemmo cosa fosse successo a Sant'Eufemia rimase in silenzio, non fummo
in grado di farci dire alcunché, poiché l'intensa paura e il terribile
evento avevano così bloccato le sua lingua e le sua mente, che neanche con
parole compassionevoli e atti caritatevoli fummo in grado di farlo parlare.
Rifiutò tutto il cibo che gli veniva offerto, completamente sopraffatto dal
dolore e dal dispiacere, e si voltò solo per accennare con le dita tese la
catastrofe di Sant'Eufemia.
E così, tutti coloro che cercarono consolazione, con un volto triste e con
la mente simile a quello di un uomo impazzito, si allontanarono da noi e
presero la strada della foresta più vicina, e non furono più visti.
Continuando il nostro viaggio, passando Nicastro, Amantea, Paola e
Belvedere, per 200 miglia non trovammo altro che cadaveri nelle città,
castelli in rovina, uomini, in preda alla paura, che vagavano per campi
aperti.
Si disse che il giorno del Giudizio Universale fosse già in arrivo.
Alla fine, dopo aver visto tutto ciò con grande stupore e dolore, tra i
grandi pericoli del mare in tempesta, intraprendemmo finalmente il nostro
sfortunato viaggio verso Napoli.
Quello che mi è già successo, spiegherò in poche parole al prolifico
lettore.